Sembra
un copione a soggetto. Tema: le Madonne. I vescovi impediscono la processione?
I comitati cancellano la festa. Una questione di puntiglio, come sempre in
questi posti, e di collere terribili.
Le
collere terribili in genere recedono dopo un giorno, ma queste no. L’estate è
dunque senza processioni e senza feste in Calabria. Niente luminarie, niente
fuochi d’artificio, niente tamburi e novene, niente giganti né ciaramelle, niente
concerti di vedettes in piazza,
gratuiti.
Un giro
d’affari di alcuni milioni che sfuma. Le vedettes
pop tirano la cinghia, un centinaio di concerti sono stati annullati. E tutto
il piccolo mercato delle luminarie, le pirotecnie, le fiere della festa.
Una cosa
molto calabrese. Tanto più che nessuno crede alle storie degli inchini ai
mafiosi. La rappresentazione di Tresilico, della Madonna inchinata al boss, pochi
ci credono e a nessuno interessa.
In
effetti, è più roba da chat e forum, il genere che una volta si liquidava come
“lettere al direttore”. Ma ben montato: plot
semplice, da idea geniale, la regia pure, poche ma ottime inquadrature, bene
illuminate, ben montate. E sono finite le feste religiose in Calabria.
Un
piccolo capolavoro, ma non ci voleva molta fantasia né determinazione. Pochi
anni dopo il papa Giovanni Paolo II, che sfidò gli ateisti, convertendone
molti, il papa Francesco, il papa nato oggi, non vuole critiche “a sinistra”,
dai non credenti. L’ambiente era dunque propizio per l’azione. Ma non c’era nemmeno
bisogno di un comandante laico della Legione Calabria per avere l’idea ammazzasanti:
i preti hanno sempre odiato le processioni, troppa fatica, troppa polvere, riti
pagani. Negli ultimi decenni, postconciliari, anche la chiesa, nella sua ansia
protestante di religione nuda, spoglia di tradizioni, ha patrocinato il
sospetto, se non il rifiuto, del rito. Niente più incensi, labari,
congregazioni in costume, statue, quadri, Madonne. E così, mentre il laicismo
ripropone il paganesimo, con altri dei, mitici, storici, avventurosi, galanti,
la chiesa abdica ai suoi.
Non una
misura di ordine pubblico. Una rivoluzione dall’alto, come una volta si
chiamavano quelle fasciste. Per ora solo sociale: una condanna aggiunta alle
tante altre, una convivialità sempre più spenta. Uno stato d’assedio quasi
perfetto, comprensivo del coprifuoco. L’esito è l’abbandono. Per ora del
ritorno in paese, del mantenimento di un legame, per quanto tenue, con gli
emigrati, in Italia, in Australia, in Canada. L’esito sono borghi muti.
Colpevolizzati – più di quanto già lo erano, che non sembrava possibile.
Deserti anche d’agosto, quando molti tornavano per la festa.
La festa
era il motivo in più che gli australiani e i canadesi si davano per ritornare.
Una o due volte nella loro vita restante, portandoci anche una figlia o un
nipote. La certezza di offrirsi e di offrire loro un ritorno comunque gioioso,
colorato, animato, di qualche interesse che non fosse la desolazione del paese
abbandonato nei suoi lungi giorni magri. A maggior ragione il pretesto valeva
per le famiglie cresciute a Milano o Roma: interrompere la vacanza dei figli,
specie se adolescenti, piombandoli in una realtà che, seppure senza stimoli,
perlomeno era festiva e in qualche modo celebrativa.
Ma
potrebbe esserci di più. Il divieto è un rebbio o braccio di una sorta di
tenaglia. Poiché la chiesa nello stesso tempo, e più ora questa del papa
argentino, non si cura che del modernismo o laicismo. E fra i laici non delle
anime in pena ma degli Scalfari e Odifreddi, gente di solida, massonica,
professione di ateismo. Senza sapere, forse, che la via del laicismo è
lastricata di cattive intenzioni.
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