venerdì 15 agosto 2014

Letture - 181

letterautore

Banville – Citati quest’anno, per la vita del traditore Sir Anthony Blunt, Magris due anni fa, per la “Teoria degli infiniti”, frammenti di sentimento,  periodicamente il “Corriere della sera” celebra Banville con grandi paginate. Meravigliando probabilmente lo stesso scrittore – che è onesto, scrive senza pretese, e talvolta si firma, nei romanzi a suspense, “Benjamin Black”. Quest’anno “ci ha regalato”, con Citati, “un grande affresco dell’Europa tra le due guerre”. Anzi, “un romanzo straordinario: certo il più bello degli ultimi quarant’anni; del quale né critici né lettori hanno riconosciuto la vastità, la ricchezza, il terribile riso”.
Avendolo letto e anche annotato, quale calco stanco di Raymond Chandler, ci siamo detti. “cosa ci siamo persi!”, e siamo tornati a sfogliarlo. Ma niente, non c’è neanche il riso. O non è lui che ride.

Céline – Costante ha la fisima, tutta la vita, del parlato e dello stile come Verga, e quasi negli stessi termini. Che non vuol dire niente. Anche perché Céline leggeva poco. Ma il popolare in letteratura – l’occhio aperto al destino delle grandi masse – forse questo richiede: una scrittura “onesta”. Mimetica sul parlato.

Dante – La lettura casuale, in parallelo con “La rivelazione greca” di Simone Weil, delle memorie teatrali di Andrea Camlleri, “L’ombrello di Noè”, rivela l’esistenza di un dantista pisano-livornese, Egidio Guidubaldi, gesuita. Che a un successivo approfondimento si rivela autore di un “Dante europeo”, nel quale il paradiso cristiano riporta a Platone - all’universo di luce della lezione platonica mediata da san Buonaventura. Simone Weil argomenta l’ascendenza greca (platonica) del cristianesimo.

Dialetto – Pirandello lo usa solo a teatro, nella forma fonetica oltre che sintattica e logica. Ma il dialetto di Pirandello è la lingua di Pirandello, non le sue scritture dialettali, “Liolà” compreso. Queste naturalmente lo sono, sono dialettali, ma più di tutto fa “Pirandello” il giro della frase, asintattico spesso, l’interrogativo negativo, la sottesa irrimediabile ironia, l’assenza di apoditticità, in qualsiasi forma. Dei soggetti trasmutabili, della cosa che è un’altra, del lazzo insieme compassionevole e gelido: il linguaggio di Pirandello è “dialettale”, siciliano, girgentano, un modo d’essere e di pensare che si configura diverso e irriducibile anche semanticamente – anche a una semplice lettura dei racconti e romanzi, senza bisogno di analisi testuali. È un’altra mitologia – non nel senso barthesiano, dei piccoli miti, ma del modo d’essere e di pensare. Che Sciascia e Camilleri condividono, anche se non così stretti al (condizionati dal) territorio - che in primis, direbbe Camilleri, hanno rifiutato.
Il ritorno di Camilleri al dialetto parlato è per questo irrilevante, se non per la caratterizzazione che i film di Sironi, Degli Esposti e  Zingaretti gli hanno dato. “Sulla scena dialettale lo spazio è tutto dell’attore dialettale” – “L’ombrello di Noè”, p. 25

Pirandello, filologo di formazione e professione, dava alla lingua una funzione razionale, al dialetto una sentimentale, esprimere il “sentimento delle cose”, il senso.

Del tribalismo come fondo del dialetto Pirandello è cosciente, che usa una parlata, la sua, agrigentina, per il teatro suo, e un’altra, catanese, per il teatro di Martoglio col quale collaborava, che era di Catania e aveva una troupe catanese. La parlata agrigentna – di Montalbano – è più latinizzata, vicina all’italiano, quella di Martoglio, benché redatta da Pirandello, riuciva a Gransci incomprensibile.

Genere – È quel che resta dell’opera. O è l’opera quando non si può classificare per sé. Sherlock Holmes, capostipite del giallo, non si può classificare un giallo – deluderebbe molto i fan del genere.

“Basta «generi», Tolkien vale quanto Stendhal”, è argomento di Michael Cunningham su “la Repubblica”. Sono prolissi in effetti entrambi. Ma di Stendhal non si vede.
Cunningham, autore di “Giorni memorabili” e altre opere non memorabili, s’illustra con la saggistica a sensazione. Ma anche questo è un genere.

Godot – Oltre che Dio, God in inglese, l’unico antecedente trovato al beckettiano Godot è il Godeau di Balzac, il deus ex machina tanto atteso in “Mercadet l’affarista”, per sanare le disavventure dell’affarista stesso. Camilleri ne ha un’altra (“L’ombrello di Noè”, p. 159): “Nelle compagnie teatrali italiane dell’Ottocento Godò era l’amministratore. Le frasi: «Ma quando arriva Godò?», oppure: «È arrivato Godò?» erano espressioni gergali che stavano a significare: è arrivata la lira? sono arrivati i soldi?”  

Pirandello – Agrigentino, cioè empedocliano nel midollo? Empedocle era “fisico egregio” (Cicerone) e anche “padre della retorica” (Aristotele). Camilleri richiama, in un lezione tenuta all’università di Pisa (ora in “L’ombrello di Noè”) un episodio sintomatico. Dopo la difficile. tournée sudamericana dell’estate 1927, al ritorno Pirandello si rifà portando la compagnia a Napoli, con molte recite, e poi in Sicilia, nelle varie città, tra esse Agrigento. “È la prima volta che i compaesani agrigentini di Pirandello vedono il loro nume”, racconta Camilleri, “con la sua compagnia, a teatro”. Ma non è una rimpatriata. “Per cinque giorni consecutivi, che è veramente un record mostruoso”, e più per un cittadina non patita di teatro, Pirandello mette in scena “I sei personaggi”. Perché si è creato un fenomeno anch’esso in certo senso mostruoso: “Non dormirono per alcuni giorni”, i compaesani di Pirandello, occupati a spaccare il capello in quattro sui “Sei personaggi”. E l’indomani tornavano di nuovo a teatro per rivedere un dettaglio, una battuta, una frase”.  

Tragedia – Dev’essere serena? O “immobile”, dice Simone Weil. Un metro su cui salva solo Sofocle, il tragico unico: “Il teatro immobile è l’unico veramente bello. Le tragedie di Shakespeare sono di second’ordine, salvo «Lear». Quelle di Racine di terz’ordine, salvo «Phèdre». Quelle di Corneille, di ennesimo ordine” - “Quaderni”, III, p. 355 edizione Adelphi. È la conclusione di un giudizio affrettato sulla cultura che l’ha preceduta, a conclusione del “L’«Iliade» o il poema della forza”. Malgrado il Rinascimento, breve, “per venti secoli il genio della Grecia non è resuscitato”. Poco: “Qualcosa ne è apparso in Villon, Shakespeare, Cervantes, Molière, e una volta in Racine”. Sofocle invece è il campione dei “bellissimi poemi” che una volta, duemilacinquecento anni fa, si scrivevano in Grecia. Di cui fa la lettura elogiativa, di Antigone, Elettra, e Filottete.
Nei “Quaderni”, I, 163-64, S.Weil ha ancora questo apprezzamento: Sofocle ha scelto le leggende più orribili (Edipo, Oreste), per portarvi la serenità. La lezione delle sue tragedie è: non esistono rapimenti della libertà interiore. I suoi eroi conoscono la sventura, non l’ossessione. È più gioioso di una fantasmagoria di Shakespeare”. Non è vero, soprattutto se si legge in greco, ma certo suggestivo.

letterautore@antiit.eu

Nessun commento:

Posta un commento