Una lettura consigliabile a scuola
per i venticinque anni della caduta del Muro, anche se di autore meridionale, e
perciò bandito dai programmi ministeriali. “Sotto il potere di mille occhi, di
mille volontà, di mille forze che dominavano su ciascuno”, parlarsi era “un
fatto come medicarsi e asciugarsi le ferite”. In una città in cui “una folla
spenta e informe… camminava a uno a uno”. Larve che vanno per strada “tutti di
fianco, come per evadere da un varco troppo stretto”. La socialità estrema, per
legge, per forza, senza colloquialità, senza personalità. Per una storia
d’amore che evidentemente non ci può essere, fin dalle prime righe, la vita di
ognuno gli è stata estratta, e sfugge: “Ognuno era chiuso in una sua idea
segreta, e questa idea spesso era futile, ma molto importante, come se fosse
passato sul mondo il diluvio”.
Un romanzo claustrofobico. Di
violenza sorda, che non si manifesta ma si respira: niente accade, ma c’è, si
sa – il verbo è giusto, la violenza è interiorizzata. Un romanzo ancora vivo, vittima
alla riedizione nel 1946 della guerra fredda, quasi fosse opera di propaganda
antisovietica, e anzi di apologia fascista. Mentre è il romanzo del
totalitarismo, dell’orrore – ambientato in Russia da una nota aggiunta su
pressione della censura all’uscita nel 1938, spiegherà Alvaro alla riedizione
nel dopoguerra (ma Stalin c’è, benché non nominato, alle pp. 70-71, ed è anzi
un ritratto notevole, di “un uomo piccolo come un idolo”. È il romanzo del regime
carcerario, invisibile e onnipresente, che resterà stigma del Novecento,
un secolo detto breve e invece
interminabile. Con code nel Duemila, nel khomeinismo e nel castrismo.
Alvaro lo tratteggia in profondità,
nella psicologia – la violenza più radicale. Col merito non minore, in lui
ineguagliato seppure sulla traccia di Flaubert, di saper leggere la coppia dal
alto di lei, della femmina nei confronti del maschio – oggi eretica, nella
conformistica indifferenza dei generi, e perciò forse più sorprendente. Con un
altro merito non dirimente ma non da dismettere: dopo Huxley, “Brave New
World”, il totalitarismo tecnologico, ma prima di Koestler e Orwell, di quello
più propriamente politico. Con l’idea interiorizzata della colpa, come avviene
nell’educazione religiosa (“che quando ti sei messa nell’animo l’idea del peccato
non te la levi mai più. Ti sembra sempre che qualcuno ti veda e ti giudichi”),
che germinerà anch’essa in un genere, del comunismo chiesastico: l’Inquisitore
è uscito dal seminario. Con un punto d’osservazione migliore, dell’“estero”. I
protagonisti venendo dall’“estero”, possono mettere in quadro meglio la
situazione, con quinte e termini di confronto. A beneficio del lettore, oltre
che della cosa – il romanzo è “lungo” senza esserlo.
Alvaro avrebbe potuto vantare il primato
dell’“Uomo è forte” sul fantapolitico “1984” di Orwell e sulla testimonianza di
“Buio a mezzogiorno” di Koestler, dell’“uomo chiuso nel labirinto dei processi”
– Kafka . “Non lo fece, per non dare esca all’anticomunismo”, nota Nino
Borsellino in una succinta prefazione che è il saggio più penetrante dello
“scrittore nel fascismo”, e della personalità di Alvaro. Che non reagì alla
richiesta del regime di dire in nota il romanzo ambientato in Russia. Un segno
di debolezza: Alvaro era uomo retto ma non un combattente. Un “resistente
dell’interno” si direbbe, con la terminologia adottata in Germania sotto
Hitler.
Resta comunque il narratore di fine
introspezione sempre. Oltre che il “coscienzioso informatore”, come si
definiva, dei tanti itinerari di giornalista, a Parigi, in Germana, in Turchia,
e nell’Unione Sovietica. “I maestri del diluvio. Viaggio in Russia” sarà l’epitome
giornalistica di questa missione, “L’uomo è forte” quella narrativa. Il
richiamo a Dostoevskij è d’obbligo, per la figura dell’Inquisitore e per lo
scavo nelle psicologie interminabile, ma non rituale: questo universo concentrazionario
è di intensità ineguagliata nella pur corposa pubblicistica di genere
successiva. Per la paura: la libertà, possibile, fa paura, l’amore fa paura.
Per la corruzione sistemica – questo fatto resta inesplorato anche nell’affollatissima
pubblicistica sulla Germania nazista: “Abbiamo bisogno di corruttori come di un
servizio pubblico”, dice l’Inquisitore amabile.
Anche la breve nota biografica di
questa riproposta è pregnante: “Arruolato nel 1915, viene ferito alle braccia e
congedato con una decorazione”. Non ne abbiamo saputo mai nulla. Mentre la
stessa ferita diventa segno e materia di tutto Céline – il riserbo era un tempo
virtù dei calabresi, ora legnosissimi.
Il romanzo “più bello” di Alvaro lo
dice Borsellino. Uno dei migliori del Novecento, si può aggiungere a distanza.
Cadde stroncato da Giacomo Debenedetti sull’“Unità” - prima che “l’Unità”
stroncasse Debenedetti, la sua giusta ambizione a una cattedra: “Il più infelice
e il più sbagliato dei romanzi di Alvaro”. Che però, anche a prenderlo come
antisovietico, era solo antiveggente. L’universo concentrazionario è stato
rimosso ma era con noi appena un quarto di secolo fa. Chiunque sia stato a
Mosca ancora negli anni di Breznev, non molto tempo fa, trent’anni, vi si
riconosce.
La riedizione si fa nella collana
Scrittori di Calabria di Aldo Maria Morace, che mette alla prova “la storia
delle marginalità” proposta da Dionisotti in una ideale Biblioteca delle
Regioni. Prima del ministero, dunque, lo scrittore meridionale si autoespelle
dai “programmi nazionali”. Non è detto che sia un male.
Corrado Alvaro, L’uomo è forte, Ilisso-Rubbettino, pp.
219 € 5,90
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