Corpo - La lubricità è
ufficialmente interdetta, pur nell’esposizione permanente dei corpi. Siamo daccapo
all’orfismo, per il quale il corpo è tomba e prigione dell’anima. Ma corpi senza corpo sono i
preti, persone non disprezzabili e anche ammirevoli, che però non amano -
quindi non odiano, ma questo non li scagiona.
Che corpo e anima non sono distinti, uniti solo
per un po’ di tempo per caso, questa è verità che pure i preti iniziano ad
accettare: funziona l’uno se funziona l’altra. Le donne liberate, invece, al
corpo liberato duemila anni fa da Cristo rimettono l’armatura. Lo rinchiudono
coi ragni in cantina, ogni rapporto è Sade, tutto è peccato nel corpo, anche lo
sguardo. Non solo in Sicilia, c’è nel poeta Michaux: “E mentre la guarda, le fa
un figlio in spirito”. Un peccato laico, con codici quindi e tribunali. O la verità che non si può
dire è che nella liberazione della donna molte vergogne emergono della libertà,
limiti e pieghe oscure. Per un residuo di vezzi fisici e mentali, ruoli,
psicologie, ma anche per sofismi non tanto lievi. Quelli che portano alla
disintegrazione anzitutto: che libertà è quella che fa scoppiare?
Dio – È bilancia. Secondo
Clemente Alessandrino, Dio è bilancia. Misura cioè e numero. In questo senso lo
intesero i primi scienziati, gli antichi greci e arabi, che l’idea di Dio
collegarono alla misurazione degli eventi, e alle invarianti che sono sottese
ai fenomeni. Il numero stesso è bilancia, cioè l’idea del calcolo, e della
logica. I numeri furono calcolati dagli arabi sui patti della bilancia.
I nomi di Dio nella Bibbia, antica questione,
fino ai 72 censiti dalla Cabala, fu anche querelle settecentesca, tra gesuiti e
tradizionalisti. Che Maurizio Bettini risuscita - “Elogio del politeismo”. Ma
da un punto di vista del tutto eversivo, sebbene a opera dei gesuiti. I quali
in Cina, su indicazione del padre Matteo Ricci, avevano in uso per Dio le
denominazioni locali: “Cielo”, “Sovrano all’Alto”, “Signore del Cielo”. “La
querelle”, ricorda Maurizio Bettini che la risuscita in Elogio del politeismo”,
p. 60, “terminò addirittura con un suicidio, quello del padre Trigault, incapace
di difendere come avrebbe voluto la correttezza del termine Sovrano dall’Alto”.
Guerra – Quella di Eraclito, che si traduce madre è
invece padre, polemos: “Polemos è di tutte le cose padre,di tutte le cose re, egli uni
rivela dei e gli altri uomini, gli uni fa schiavi e gli altri liberi”.
Oscurità – Dice molto, non solo in pittura: È il campo di esercitazione del filosofo,
che sempre lo sgombera per vederselo ricostruire un po’ più in là. Talvolta più
spessa di prima: ogni problema che si sviscera ne apre altri, anche più ardui.
“Die
Nacht hat eine Tiefe” è titolo o motto di Jeanne Hersch: la notte è profonda.
Tanto che si può dirla una chiarezza: è l’evidenza immediata. Vissuta anche,
sperimentata. Più propriamente nella riflessione (filosofia). È il nostro
presente, e non è priva di indicazioni. Che sta al filosofo chiarire – Jaspers
avrebe detto “schiarire”, erhellen,
proprio dell’oscurità.
Paternità – Inizia (e finisce?) con le “Eumenidi”? Si
giudica un matricidio. I giudici sono donne, le Erinni. L’assassinio di un
consegui neo è unito con la morte. In un
sistema tribale, costruito cioè sui vincoli di sangue, dei quali la maternità è
l’unico riconoscibile e quindi il più forte. Ma Oreste può argomentare che la
madre non è consanguinea. Il suo avvocato A pollo può sostenere che il padre è
l’unica parte attiva nella procreazione. E Atena, che presiede la giuria, essa
stessa non tiene conto della maternità nata senza madre.
Eschilo segna
anche – anche o solo ? - il passaggio dalla società tribale a una politica.
Apollo lusinga la giuria con promesse di favori e poteri. Le Eumenidi vengono
sedotte e placate dalla promessa di una degna sede e offerte cospicue in Atene.
Il figlio scopre il padre ai sessant’anni. Qualche volta ai cinquanta.
Il figlio scopre il padre ai sessant’anni. Qualche volta ai cinquanta.
Il
patriarcato va rivisto nel nomadismo. Fa fede il ruolo dell’uomo cacciatore
(procacciatore, provveditore) e combattente, ma la tribù tiene unita e
individua la maternità. Il solo legame
di sangue, cioè, riconoscibile. Questo è vero e accertabile nelle formazioni
nomadiche ancora attive, i rom, in vario modo. Il ruolo avunculare
nell’assestamento e la successione dell’eredità, che caratterizzava l’antico
Egitto, eredità delle trasmigrazioni dall’Africa Nera prima della
sedentarizzazione agro-fluviale, era reperibile fino ad anni recenti tra le
tribù berbere del Maghreb.
Suicidio - Pavese,
che fu suicida tutta la vita, sa che è un non-vivere. All’ultimo lo scrive
anche: “Ora so qual è il mio più alto trionfo: manca la carne, manca il sangue,
manca la vita”. Al modo del quindicenne suicida delle cronache giornalistiche di
Colette, che si ritrova in ogni famiglia: ragazzi che si annegano per un
rimprovero, che si avvelenano perché privati del dessert, che si buttano dal
quinto piano dopo aver litigato con la ragazza. Disperato e vendicativo, notava
la scrittrice perfida, l’aspirante suicida pensa a tutto, la sedia vuota a
tavola, i ninnoli imbruttiti in camera, per far rispetto - “Ha tutto
immaginato, salvo che non vive più”. Questo lo sosteneva anche Yourcenar
giovane: “Il suicidio è un modo di turbare il prossimo: la vittima s’insedia
nella memoria degli antagonisti, che non può conquistare altrimenti”. Ma la
morte cancella le persone, il ricordo è altra cosa.
Che altro dire di questi tempi sconnessi?
Meglio una fine disperata che una disperazione senza fine è dialogo al cinema e
bacio Perugina. Anche il suicidio è segno dell’uomo come la speranza, siamo
irrequieti per costituzione.
zeulig@antiit.eu
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