Si viaggia per città meridionali belle e
bellissime, Palermo, Agrigento, Siracusa, Catania, Bari, Reggio Calabria, ben
tenute, perfino pulite, la stessa Napoli. Che si deducono anche vivibili, dalla
démarche, direbbe Balzac, decontratta
dei residenti. Con l’impressione di fare una cattiva azione.
“I film di mafia sono i nostri western”.
Lo ricorda Mariarosa Mancuso - attribuendone la saggezza a Pasquale Scimeca - in
avvio alla recensione di “Anime nere” su “Sette”, ma non convince – la
recensione stessa non è convinta. Per almeno cinque motivi. Gli indiani qui
sono i meridionali stessi. I pellerossa sono stati riabilitati, i meridionali non
se ne parla. Il western è avventura, questo Sud è abiezione. Il West è bello e
bellissimo, spazi larghi, animati, acque trasparenti, luce, il Sud è
desolazione. Il West è una frontiera, il Sud è inteso un limite e una
condanna..
Questo Sud è il serbatoio di un mercato
editoriale, questo sì. E di un filone ancora più ricco di cinema e tv. In
questo senso è il “nostro West” – nostro della Rai, di Milano (l’Aspromonte era il West già per Bocca e “L’Europeo” dell’11 settembre 1955, per una serie
di delitti, culminati nell’assassinio del maresciallo dei Carabinieri
Sanginiti, originati da una vicenda di gelosia, o storia d’amore tradito).
.
“Anime nere”, cupissimo film, due ore di
violenze, è stato finanziato dal Parco dell’Aspromonte a scopo promozionale. Per
non far venire nessuno? Un’ottima idea: i (pochi) fruitori del Parco non possono
che complimentarsi, promozione geniale.
Con Pitagora le donne si avvicinano per
la prima vota alla filosofia: Della serie: la donna del Sud?
Storia e libertà
Si
continua a non fare storia al Sud. Né documentaria, né sociale, né culturale.
Se non per stereotipi: la feudalità, i Borboni, la chiesa, e ora la mafia. Sempre
nella retorica stentorea “classica”, annettendosi Omero, Apollo, Oreste, etc.
Voltaire, “Trattato sulla tolleranza”, ne sapeva la ragione, al § 9. “Dei
Martiri”: “Nulla è più comune presso i popoli conquistati che mettere in circolazione
delle leggende sulla loro gloria passata, così come, in certi paesi, certe
famiglie miserevoli si fanno discendere da antichi sovrani”.
La
storia - farsi la storia - va con la libertà. Di spirito, di condizione. Il Sud
non è suddito, giuridicamente no, di fatto sì.
Tuttomafia
“Soldi
della mafia cinese «girati» alle ‘ndrine”, titola “Il Sole 24 Ore” domenica 14.
Questa ci mancava, la ‘ndrangheta a Pechino. Anche se lo scambio avviene a San
Marino.
Ma
l’inchiesta, tra San marino e Milano, “sfida le future risultanze processuali”.
Importante è la “verità” subito, qui.
Gay
Talese ha in “Ai figli dei figli” – il suo padre fittivo, emigrato saggio da
Maida, ha – la mafia in quanto “organizzazione politica”, seppure criminale,
“un’arma politica in una società prevalentemente contadina che era apolitica”:
“Veniva incontro a un bisogno di potere in una casse popolare senza potere, i
cui mutevoli governanti stranieri e invasori erano all’oscuro o non preoccupati
della loro povertà e miseria”. Il problema è che la mafia in Calabria, prima della
Repubblica, non c’era.
L’Aspromonte parlato
a metà
C’è molto ma poco dell’Aspromonte nel
film di Munzi, “Anime nere” – celebrato dai trailer,
e dal regista stesso, come un’apoteosi della Montagna. Due terzi abbondanti
delle riprese sono, tra interni ed esterni, ad Africo Vecchio e Africo Nuovo,
ma la montagna non c’è. Se non per qualche scorcio tra il livido e il pietroso.
Il paese non c’è, eccetto le donne sfatte ai lutti. E soprattutto, benché il film sia recitato in
dialetto, con pronunce e battute piuttosto fedeli, manca il linguaggio. La
speciale forma espressiva locale del paradosso, connaturata anche ai bruti, più
spesso nei toni dell’understatement.
Del non detto, dell’alluso. E l’impellenza, quasi un obbligo, di mitizzare i
fatti, seppure minimi. Che invece si espande in narrazioni interminabili:
minute, ripetute, divaganti. Una sorta di Sterne al naturale, e pure con la
stessa cifra ironica: per il gusto del rovesciamento, dello scarto.
Ha
voluto il colore ingrigito, stagnato, il regista di “Anime nere”, per
sottolineare la violenza sordida della sua storia – che non è quella
dell’autore del romanzo dallo steso titolo, l’africoto Criaco. Nella quale ogni
dieci minuti fa scannare, scuoiare, tagliare teste, seppure di animali, tirare a
pallettoni contro insegne, cristiani e ossa di morti, seppure di animali, o
quantomeno con la pistola. E vuole il film una testimonianza dell’Aspromonte e
una prova-verità – “da Africo si capisce meglio l’Italia”. Ma
l’Aspromonte non c’è. Munzi dice di aver passato un anno ad Africo per studiare
le psicologie, e che ha fatto lavorare molti attori “presi dalla strada”. Dal
film non si vede, ma i titoli di coda sono pieni di messaggi affettuosi per un
mucchio di gente, presumibilmente di Africo, i nomi sono locali. Che
probabilmente resteranno delusi. Per qualche incongruenza evidente: un
allevatore e imprenditore agricolo (ha bellissime carciofaie in serra) si cura
con la “polvere dei santi”, alla medicina mescolando la polvere di calce o
cemento che raccoglie sotto il busto reliquiario di San Leo ad Africo Vecchio.
Le donne sono stupide e inerti. Tre famiglie di scemi, molto violenti, sono tutto. Sullo sfondo dell’abusivismo di necessità da cartolina -
le case non finite perché bisogna pagare il mutuo alla banca: la “vita di
sacrifici” del piccolo calabrese oggi è pagare la banca, per trenta e anche più
anni.
Un film delude sempre chi lo fa, eccetto i grandi professionisti. Molto si gira e moltissimo poi si taglia. Ma quello di Munzi è il film di una carneficina, di animali quando non aveva a tiro cristiani, e di ossa di animali in assenza di bestie vive. L’Aspromonte manca. Dice bene Barbara Bobulova, l’unica “straniera” del cast: “Questo film è raccontato in un modo che potremmo essere in un altro luogo, il male coinvolge tutti”. Manca soprattutto il linguaggio, in quello che pure è il punto forte del film: il parlato in dialetto. Munzi ha deciso di far parlare il film in dialetto, con dialoghi veloci, al punto, che aiutano. Che tuttavia restano un che di sovrapposto. Per una mancanza - malgrado lo sguardo lampeggiante di Marco Leonardo, uno dei fratelli della carneficina.
Un film delude sempre chi lo fa, eccetto i grandi professionisti. Molto si gira e moltissimo poi si taglia. Ma quello di Munzi è il film di una carneficina, di animali quando non aveva a tiro cristiani, e di ossa di animali in assenza di bestie vive. L’Aspromonte manca. Dice bene Barbara Bobulova, l’unica “straniera” del cast: “Questo film è raccontato in un modo che potremmo essere in un altro luogo, il male coinvolge tutti”. Manca soprattutto il linguaggio, in quello che pure è il punto forte del film: il parlato in dialetto. Munzi ha deciso di far parlare il film in dialetto, con dialoghi veloci, al punto, che aiutano. Che tuttavia restano un che di sovrapposto. Per una mancanza - malgrado lo sguardo lampeggiante di Marco Leonardo, uno dei fratelli della carneficina.
I selvaggi non ridono
I dialoghi sono giusti, nel dialetto stretto dell’Aspromonte, sintetici, gnomici, parasintattici. Opera probabilmente di Gioacchino Criaco – se non degli africoti cui Munzi dedica il sentito grazie. Ma si privano della comunicazione muta (gestuale, facciale) che al cinema viene bene e fa la forza dei capolavori del genere, di Coppola, Scorsese, Ferrara, dello stesso Garrone in “Gomorra”, il prototipo. E dell’irrisione implicita, l’understatement, l’allusione costante. C’è un linguaggio calabrese, se non propriamente aspromontano, che ha questa complessità, e il film se ne priva. Al punto che sembra professarsi non veritiero, “recitato”.
I dialoghi sono giusti, nel dialetto stretto dell’Aspromonte, sintetici, gnomici, parasintattici. Opera probabilmente di Gioacchino Criaco – se non degli africoti cui Munzi dedica il sentito grazie. Ma si privano della comunicazione muta (gestuale, facciale) che al cinema viene bene e fa la forza dei capolavori del genere, di Coppola, Scorsese, Ferrara, dello stesso Garrone in “Gomorra”, il prototipo. E dell’irrisione implicita, l’understatement, l’allusione costante. C’è un linguaggio calabrese, se non propriamente aspromontano, che ha questa complessità, e il film se ne priva. Al punto che sembra professarsi non veritiero, “recitato”.
L’irrisione, la beffa, lo sdegno si
possono dire la cifra di questo linguaggio calabrese – con l’esclusione di
Alvaro e di Strati: Répaci, Perri, Pedullà, Vollaro, Delfino, Scalfari,
Zappone, Gay Talese, anche a ben guardare, e malgrado se stesso, Abate, come
già nel Settecento l’abate Conìa, e nell’Ottocento Gian Lorenzo Cardone, autore
dell’inno antiborbonico, “Il Te Deum dei calabresi”, e il liberale Antonio
Martino, il primo pentito dell’unità, insieme con l’abate Vincenzo Padula. Non
cinica, anzi sempre entusiasta, e per questo cattivissima, per la delusione. Un altro filone etnico è la
protesta, anarchica, anche violenta. Censita più spesso tra i “franchi
narratori”, Luca Asprea (Carmine Ragno), Vincenzo Guerrazzi. Ma anche, in
chiave politica, partitica, di Répaci, Leonetti, Strati, Abate e, sembra di
capire, Criaco, l’autore del romanzo da cui è tratto “liberamente” il film. Al netto, beninteso, della bolsa retorica dominante della “classicità”
(Omero, Oreste, “la culla della civiltà in Italia” e altrettali”), del
conformismo risorgimentale e dell’afflizione dei “vinti”.
I selvaggi e le scimmie, usava dire, non sorridono.
Ma chi sorride oggi? Con la civiltà il sorriso si è diradato, con la civiltà di
massa. Con una certa concezione della civiltà, che si vorrebbe democratica e
invece è razzista. Esclusivista e non inclusiva, dominante, anzi unica, e
faziosa, e al fondo razzista – i primi razzisti sono le vittime del razzismo,
quando lo introiettano come critica superiore o civiltà. Il riso invece in
Calabria, terra e gente naturaliter
democratica, da sempre, non dispiaccia agli storici dell’inesistente
feudalesimo, resta forte. Fortissimo. O lo era fino a ieri, quando ancora ci si
esprimeva. In una regione semibarbara: irresistibile, di tutti, per tutti - la
cifra del linguaggio.
D’altra parte, è l’accumulo della distruzione esso stesso umoristico –
sarcastico? Visto in Calabria, “Anime nere” fa ridere.
leuzzi@antiit.eu
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