Vincitore del Campiello 2012, un affresco generazionale lungo quattro
generazioni, della storia nota dell’Italia, l’ultimo secolo, dalla prima guerra
mondiale al fascismo, alla seconda guerra con la Liberazione, la Repubblica,
l’emigrazione in Francia e Germania, e il boom
che non si dice - la cooperativa agricola, la figlia archeologa. Che
salverà, forse, la “collina del vento” sotto la quale Paolo Orsi voleva trovare
all’inizio della storia l’antica Krimisa. Un idillio familiare nel mezzo del
male, di unità e coraggio insieme, nel filone degli storioni familiari, di cui
il popolo è ghiotto. Ma specialmente legato alla Calabria, quale è tutta la
narrativa di Abate, nel filone di Répaci piuttosto che di Alvaro – qui anche al
Trentino, dove Abate vive (Orsi veniva da Trento). Una narrativa annalistica,
di testimonianza in controluce di alcuni fatti, l’emigrazione soprattutto ma
non solo, e una testimonianza a futura memoria.
Un atto d’amore anche: “Questi luoghi sono ricchi fuori e dentro…
Solo chi è capace di amarli sa capirli e apprezzarli. Gli altri sono ciechi o
ignoranti. O disonesti e malandrini”. Cosa che si può dire probabilmente di
ogni luogo e persona, ma Abate vuole che si sappia. La Calabria salva, senza i
baroni mafiosi, e la famiglia: due scelte coraggiose.
Abate ha scelto una scrittura piana documentaristica. Forse pedagogica.
Ma non dei fatti, le persone e i luoghi narrativi, che restano nel paradigma
sociopolitico: la povertà diventa miseria perché è irrimediabile, ed è
irrimediabile perché i cattivi regnano, invidiosi, prepotenti, mafiosi . Che
non è verro ma è consolante, collima con una certa memoria, costruita dopo.
Mentre è una malattia di dentro, ed è il problema del Sud, altrimenti
ricchissimo, non ultimo d’intelligenza – flessibilità, iniziativa, adattamento,
costanza.
Carmine Abate, La collina del vento, Numeri Primi Mondadori,
pp. 260 € 13
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