La
politica europea della Germania è mutata, e il mutamento è distinto e professo,
anche se si fa finta che non ci sia. Non più “la Germania nell’Europa” di Kohl,
ma la variabile europea della politica tedesca. Che è la divisa di Angela
Merkel, senza più maschera. La cancelliera per anni ha girato le capitali
europee presentandosi come “la meno peggio” o “l’ultima europeista”: “Sapeste
in Germania…”, sussurrando. Intendendo: l’opinione e i partiti sono sciovinisti,
io sono la garanzia della Germania europea.
Si
precisa invece d’un tratto, nel suo governo di centro-sinistra o grande
coalizione, una vocazione autoritaria. Si spiegano le riserve ormai quasi
ventennali di Kohl, che pure l’aveva voluta sua delfina. Malgrado abbia imbarcato
i socialisti al governo, Merkel continua a boicottare ogni piano di rilancio
degli investimenti e dell’offerta. Comprese le “riforme” che impone: la
liberalizzazione totale del lavoro non smuove niente se non è accompagnata da
politiche macroeconomiche, specie dal lato della domanda (del reddito: retribuzioni,
occupazione, fiscalità). Malgrado la deflazione nel continente, malgrado la
recessione in Italia.
Merkel
chiede “tagli e rigore” in forme e in tempi che si sa, non da ora, sono la
ricetta sbagliata. Per questo l’Europa è l’unica area economica al mondo ancora
in crisi, mentre (citare qui antiit..). E lo fa con cognizione di causa: è a
lei che vanno ascritti i veti periodici di Schaüble e Weidmann, il ministro del
Tesoro e il presidente della Bundesbank. E comunque in politica si sta ai
fatti, non si fa l’anamnesi delle
intenzioni.
Il
fatto è che l’Europa è in crisi perché la Germania la vuole in crisi. Vuole la
rovina dell’Europa per meglio far risplendere la Germania – col “nucleo nordico”,
Olanda, Belgio, Finlandia, Baltici, Austria e, checché si dica, la Bce.
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