Una celebrazione irriverente della
Grande Guerra, una enaurme satira
della burocrazia in lotta contro gli Unni e per la Civiltà, “la salvezza del
mondo, la democrazia, la libertà”. Una danza macabra, di fantasmi in figura di
gendarmi, piantoni, Sorveglianti, Direttori e ministri dell’Ordine, lontani dalla
trincea e quindi senza l’eroismo ma con lo stesso senso di putrefazione. Si
ride, ma di collera.
Da settembre a Natale del 1917
Cummings passò tre mesi in stato di fermo, senza nessun capo d’accusa, a La
Ferté-Macé. In Francia. Dove si era recato volontario alla dichiarazione di
guerra Usa, con una onlus americana di ambulanze. Fu rinchiuso in uno stanzone,
una chiesa sconsacrata, “la stanza enorme” del titolo, su pagliericci stessi
per terra, a stretto contatto con un’umanità incolpevole e infelice, di belgi,
polacchi, olandesi, qualche inglese e molti svitati. Tutti incapaci, eppure
sospetti di disfattismo o spionaggio. “La stanza enorme” è il diario di quei
mesi, sotto forma di schizzi dei personaggi coi quali Cummings convisse.
Nel 1917 Cummings aveva 23 anni,
viveva a New York come pittore cubista, esponendo in collettive importanti,
dopo cinque anni di studi a Harvard, di Greco e Inglese principalmente. Il
futuro poeta-scrittore era allora espositore rimarcato di collettive importanti
– la riedizione 1978 di questo che è considerato il suo capolavoro, a opera del
biografo George James Firmage e del critico Richard S. Kennedy, su cui questa
riedizione è modellata, contiene un centinaio di schizzi di personaggi e
situazioni. Ed era pacifista. Figlio di un ministro Unitario di Boston,
anch’egli di none Edward, Segretario Generale della World Peace Foundation. Ma i
Cummings erano anche per Wilson, il presidente pacifista che il 6 aprile
dichiarò guerra alla Germania. Il 7 aprile Cummings figlio si arruolò
volontario nel servizio di ambulanze Norton-Harjes, una unità della Croce Rossa
operativa in Francia. Per “spirito di avventura”, dice Kennedy, e per prevenire
la leva obbligatoria, che poteva destinarlo al fronte combattente.
Sulla nave per la Francia fece
amicizia con William Slater Brown, altro pacifista volontario, studente alla
Columbia University of Journalism. Insieme passarono a Parigi un mese in ozio,
in attesa dei documenti. Mandati infine al fronte, nelle retrovie, vi si annoiarono:
il caposezione della Norton-Harjes li prese in antipatia e li mise ogni giorno
di corvée, alle pulizie. Si proposero
allora come aviatori: scrissero per candidarsi una lettera congiunta al
sottosegretario alla Difesa per l’Aviazione. Benché, specificavano, non
avessero nulla contro i tedeschi. La loro corrispondenza fa da allora
controllata. Finché una lettera di Brown più svagata delle altre, in cui diceva
che i soldati al fronte erano delusi e critici, non insospettì la censura.
Brown fu arrestato, Cummings fu arrestato perché amico di Brown. A Capodanno
del 1918 Cummings era già in casa del padre, che intanto aveva allertato con
lettere polemiche il presidente Wilson – Brown lo seguirà a febbraio. Nel 1918
Cummings sarà arruolato come coscritto, ma restò nel Massachussets e fu
smobilitato a novembre.
Il “gusto innato del ridicolo” che
Cummings trova nella sua assurda prigionia si tramuta nell’assurdità della vita
carceraria – sembra una vicenda di oggi, la prigione è immutabile: lo spreco,
di personale, risorse, strutture, sia pure per un bicchiere d’acqua, gli orari,
i divieti, le continue costosissime traduzioni, lunghe giorni per pochi
chilometri, con l’impiego di due e tre gendarmi, andata e ritorno, senza cibo,
in ceppi, e senza capo d’accusa, in attesa di una Commissione che decide ogni
tre mesi, senza procedure. La minuziosità della narrazione contrapponendo al torpore
- la stupidità essendo insapore, Cummings la mima. Un esercizio di bravura. Un
delirio verbale e una sfida per il traduttore. Ma è operazione masochista. Infine
esagerata, nel senso ubuesco e in quello swift-dickensiano, del dettaglio
insistito.
Un romanzo di cui molto si scrive
ma che è difficile leggere, della genialità che non avvince, per quanto simpatica.
I cummingsiani si attardano del resto sui suoi vezzi: niente spazi dopo la
virgola, il tutto maiuscolo, il tutto minuscolo (e.e.cummings…). Altre
specificità tecniche si possono rilevare. L’intersezione “cubista” dei piani
narrativi, delle figure e delle scritture. Le assonanze e quasi le
identificazioni di significati diversi, avvertibili nell’originale - unearthly-unhealthy… Una forte
sensibilità verbale, alle lingue e ai linguaggi, i gerghi, i parlati, i gesti,
gli scherzi, alti e bassi, senza privarsi del gioco colto - “also sprach the balayeur, lo scopino
invece che Nietzsche, in tre lingue. Che però schiaccia personaggi e
situazioni. Un misto di “cattiveria e indulgenza” che non ha giovato al suo capolavoro. I suoi
personaggi finiscono macchiette senza spessore.
Una
satira troppo buona
Avrebbe potuto essere il romanzo
della stupidità della guerra. Lo è, ma stirato. L’avventura espressiva, che sempre
tenterà Cummings, fin nelle fiabe e nella corrispondenza, è qui un procedimento
ripetitivo, più puntiglistico che cubistico, deflagrante – “sinestetico” lo
definisce Kennedy nella prefazione all’edizione 1978, che farà testo per le
riproposte. Kennedy lo lega anche all’“impressionismo”, che dice “uno stile
inventato da Stephen Crane e sviluppato da Joseph Conrad, per cui le impressioni sono registrate come
se emergessero alla coscienza del narratore” (il “discorso libero indiretto”
che Pasolini riteneva di avere inventato per “esprimere
la propria particolare concezione del mondo”), che può essere indigesto.
Il mistilinguismo, un’altra prova di bravura, rende la narrazione più
discorsiva per chi pratica le lingue, ma non più di tanto.
Cummings è un poeta, scrittore,
pittore, drammaturgo in cerca sempre di riconoscimento. Amato dagli studiosi ma
senza una cifra riconoscibile per il lettore. Questa che si ripubblica è l’edizione
Fazi del 1998, a cura di Patrizia Collesi. Sulla base della riedizione
Liveright 1978, ma con la traduzione sempre di Alfredo Rizzardi, la prima in
italiano, 1962, per l’editoriale Opere Nuove.
“La stanza enorme” sta accanto agli
altri grandi romanzi sulla Grande Guerra, ma da parente prolisso. E accanto
egli altri testi che nel 1922 d’un colpo rinnovarono la scrittura inglese, l’“Ulisse”
e “La terra desolata”, ancora da parente povero. Cummings aveva più titoli come
innovatore: nel 1920, quando scrisse “La stanza enorme”, aveva già pubblicato
“Tulips & Chimneys”, una prima raccolta innovativa di versi, e contribuito
a “The Dial”, la rivista delle avanguardie, nonché scandalizzato il mondo
americano dell’arte con alcune tele cubiste. L’assurdità e l’infelicità della sua
storia di guerra Cummings allevia col sorriso. È questo che ne fa la
peculiarità rispetto agli altri testimoni della Grande Guerra, Hemingway,
Céline, Malaparte, Jünger. Ma ne limita la lettura. Dettaglista per evitare la
rabbia e il dramma, si perde in una insostenibile minuziosità. Kennedy vi
rintraccia l’impianto di Bunyan, “Pilgrilm’s Progress”, nella scenografia e nei
dettagli. Ma è piuttosto Dickens, seppure in un universo carcerario.
Di successo subito, malgrado le polemiche
dell’autore con l’editore americano, che aveva tradotto le (molte) espressioni
francesi e tagliato una diecina di pagine. Nel 1934 è già tra Modern Classics, con la benedizione di Hemingway
e T.E.Lawrence. Nella sua prefazione a una riedizione 1932, Cummings spiega che
non è un “romanzo di guerra”. Poiché la guerra lui non l’ha combattuta. E
invece lo è, nelle retrovie è pur sempre guerra. Anzi, in un certo senso di
più, perché la stupidità vi si distingue. Cummings si vuole patriota e buonista,
e il formidabile nodo iniziale si scioglie in un’aneddotica piatta, senza
caratteri, anche i nomi sono di maniera, e senza spessore. Non un “Comma 22”
della Grande Guerra che quest’anno si celebra, ma una gulliveriana ripetitiva,
remota.
E.E. Cummings, La stanza enorme, Baldini & Castoldi, pp. 431 € 18
Fazi, remainders, pp. XXXIV + 338, € 9,82
Free online (orig.) http://www.gutenberg.org/ebooks/8446
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