“Ingegno singolare, flessibile e
pronto” per Carducci, e poi per Bonghi e Croce, “l’Ariosto delle Calabrie” di
De Sanctis è stato presto dimenticato – solo se ne cura Attilio Marinari, cui
si deve, vent’anni fa, questa riedizione delle poesie. Nella più generale
rimozione del diverso meridionale, e burlesco: c’era lo scherzo, l’invettiva,
la rabbia, il salace, all’origine della poesia italiana, e fino al Settecento
nel filone maestro, l’Italia unita l’ha soppressa. Si rilegge l’abate Padula,
letterato, storico, patriota in prima linea, giornalista, predicatore, pedagogo
(“Qomodo Litterarum Latinarum sint studia instituenda”), drammaturgo (“Antonello,
capobrigante calabrese”, et al.), prete anticlericale, anche per questo. In
lingua e in dialetto.
In dialetto esordì in seminario a
San Marco Argentano, con la lunga canzonetta a “San Francesco di Paola”, che
Antonio Julia raccoglierà nel 1892 - Padula era morto da un quarto di secolo -
“dalla bocca di una popolana”: “Viva, dunca, Sampranciscu,\ ch’allu cielu mo
sta friscu”… L’ironia sarà la sua cifra, ma non afflittiva: come una scolorina
gradevole, che denuda eroismi e virtù conclamate, nel mentre che bolla il male,
anche sotto le specie del bene.
Solo si menziona Padula per le
poesie erotiche, più salaci per la sua condizione sacerdotale. Finiscono a
letto “Le sette opere di misericordia corporale” – Maria “fece bocchino, poi mi
baciò”. Finisce dove ci si aspetta, con lieve slittamento semantico, “La fuga”
dai “birri rei”. E così “Abbasso!” (“Abbasso il Re,\ abbasso il minister di
Polizia”), finisce abbasso a lei:
“Viva la libertà! Ciascuno or puote\ far alto e basso”. Anche le più spinte sono però inspessite, dalla malinconia,
dalla storia, e dall’allegoria più che dalla foia, che è invece un pretesto, e
forse, oggi si direbbe, un antidepressivo.
Il franco amore “Alla signora
Fragoletta” il 15 aprile 1849 è trasparente orazione di lutto per il fallimento
delle attese di libertà e unità – fino a passare, nel doppio senso più spinto,
della “pipa”, attraverso il fumo, il tabacco, il virginia, alla “vergine”
Elisabetta, la regina che “visse annoiata, preda dell’orgoglio”, cui davano
fastidio gli amori naturali degli altri. Sarà l’Italia la procace dama
garibaldina dell’ode “Per la contessa M.D.I. ch’era al seguito di Garibaldi nel
1860”. Mentre non si risparmia, garibaldinamente, Vittorio Emanuele II “lo Re
scherano”, nelle alterne vicende dell’unificazione - “Il 5 giugno dei codini”:
“Torni Ciccillo tra le nostre braccia”, intona il Coro dei Borbonici del re
Franceschiello, “E si forbisca l’adorabile ano\ con i mustacchi dello Re
scherano”.
Pasolini schierava Padula tra i
“pochi praticanti” del “realismo poetico”. Un altro modo per dire la poesia
bernesca. Che per molti aspetti andrebbe recuperata, specie in questa epoca di
crisi, morale prima che economica: irriverente, ricostituente. “I calabresi”,
scrisse Corrado Alvaro sul primo numero de “l’Espresso”, il 2 ottobre 1955, “sono,
con tutta la loro scontrosità, gente di umore, e scoprono facilmente l’ironia
delle cose, specie nelle faccende ufficiali”. L’irrisione, la beffa, lo
sdegno si possono dirne la cifra – con l’esclusione di Alvaro: Répaci, Perri, Pedullà,
Vollaro, Delfino, Scalfari, Zappone, anche a ben guardare, e malgrado se
stesso, Abate, come già nel Settecento l’abate Conìa, e nell’Ottocento Gian
Lorenzo Cardone, autore dell’inno antiborbonico, “Il
Te Deum dei calabresi”, e il liberale Antonio Martino, il primo pentito dell’unità,
insieme con Padula. Non cinica, anzi sempre entusiasta, e per questo
cattivissima, per la delusione.
Vincenzo Padula, Poemetti
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