È
il sesto volume, secondo tomo “Le testimonianze”, delle opere complete di Guido
Carli. Federico Carli, economista, nipote, raccoglie quarantacinque testimonianze
sull’ex governatore e ministro del Tesoro. Non c’è Scalfari ed è un peccato, poiché
è quello che più convinto sostiene la “grandezza” dell’ex governatore. E con
cognizione di causa, avendone a più riprese tradotto in volgare il pensiero con
lo pseudonimo di Bancor. Nonché sostenuto la “linea Lombardi-Carli”, il primo vero centro-sinistra. Ma almeno due presenze sono notevoli, quelle di
Sarcinelli e di Draghi. Quest’ultima soprattutto.
Come nacque il debito
Mario
Sarcinelli dà il contributo più esteso, aneddotico, affettuoso. Ma sostenendo
tutto e il contrario. Che Andreotti è “un grande politico”. Che “si approfittava”
di Carli, del suo credito internazionale - lo stesso Andreotti che silurò
Sarcinelli due volte, alla Banca d’Italia e poi al Tesoro e alla Sace, la prima
volta mandandolo anche in prigione. Che la sua evizione nel 1991, dalla Sace e
dal Tesoro, fu opera dei socialisti e non di Carli, il suo ministro. Anzi
nemmeno dei socialisti, di De Michelis. Anzi no, che fu lui stesso in realtà a
voler lasciare la direzione generale del Tesoro, avendo coperto nel suo decennio,
dal 1982 al 1991, la moltiplicazione del debito pubblico, che da allora ingessa
l’Italia.
Draghi
è rapido e preciso. Figlio di un funzionario della Banca d’Italia, così si
biografizza, liquidatore con Menichella della Banca di Sconto, poi in Bnl. Uno
che ha viaggiato con Menichella quando aveva cinque anni, e ha conversato con
Carli quando ne aveva sedici. Laureato con una tesi sul piano Werner, con Federico
Caffè, Col quale concordò che il piano non poteva funzionare perché teneva
conto, non a sufficienza, della diversità dei sistemi di spesa e fiscali dei
paesi aderenti.
La svalutazione
In
realtà il piano Werner ne teneva conto: una politica monetaria comune, diceva,
non può prescindere dall’armonizzazione delle politiche fiscali. Ma è importate
che Draghi lo ricordi oggi in modo critico, da presidente della Bce. È un altro
modo per dire che la Banca centrale europea è un animale spurio, che la Ue è
sempre molto divisa e che l’euro così com’è non può funzionare.
Draghi
dice, sempre in breve, un’altra cosa importantissima. Nel 1992, direttore generale
del Tesoro, presiedeva a un vasto programma di emissione di titoli pubblici
predisposto da Carli nel 1991. Ma fiutava, dice, che “qualcosa sarebbe successo
al cambio della lira”, e sconsigliò le emissioni ai grandi investitori
stranieri, suscitandone le ire. Lo racconta per lo spirito cinico cui anche
Carli indulgeva, e per dire l’impotenza spesso, anche delle migliori
intenzioni, di fronte ai fatti. Ma i banchieri, poi lo ringraziarono? E
l’Italia?
Il vincolo esterno
Nello
stesso spirito cinico Draghi configura la teoria e la pratica del “vincolo
esterno”. Consolidato a Maastricht da Carli, e dallo stesso Draghi, al punto da
diventare iugulatorio. L’Italia veniva da una pratica europea nella quale
prendeva a cuor leggero impegni gravosi, anche contrari ai propri interessi,
seppure nel quadro della superiore “convenienza europea” (“tenersi aggrappati
alle Alpi”, consigliava l’Avvocato Agnelli), confidando che il “vincolo esterno”
l’avrebbe poi costretta a soddisfarli. Carli disprezzava i politici italiani –
ebbe parole di elogio solo per Craxi e i
suoi “rottamatori”. Disprezzava la pratica “schizofrenica”, dice Draghi, dei
governi italiani, e “sperava nell’azione del vincolo esterno”.
Andreotti sapeva
Notevolissima
è la breve testimonianza anche per la
contiguità, del resto giusta, fra il Tesoro e il governo, il capo del governo.
Che nel 1991, quando Draghi divenne direttore generale del Tesoro, era
Andreotti. Per quindici mesi, dall’assunzione della carica a marzo del 1991,
fino a giugno 1992 e al trattato di Maastricht, Draghi passò due giorni a
settimana a Bruxelles a discutere l’euro. A ogni ritorno, su consiglio di
Carli, riferiva a Andreotti. Che Draghi ricorda come “rappresentante massimo
della Democrazia Cristiana europea, al livello di Kohl”.
Draghi
aveva sostituito al Tesoro Mario Sarcinelli. Il direttore del Tesoro era anche
presidente della Sace, l’agenzia allora pubblica che controassicurava le banche
sulle esportazioni. Fu severo, dice Draghi, e si volle (Andreotti e Carli
vollero, n.d.r.) sostituirlo. Non autorizzava le coperture Sace perché le
pratiche delle banche erano insufficienti o carenti, spesso per nascondere la
costituzione di fondi neri all’estero – questo Draghi non lo dice ma si sa. Le
banche protestavano, gli esportatori pure, Sarcinelli fu rimosso da presidente
della Sace, e quindi da direttore generale del Tesoro, e Draghi gli subentrò.
Ma “per tutto il 1991”, allude, la Sace non autorizzò nessuna pratica.
Il
tratto più importante di Carli, in queste e nelle altre testimonianze, è il suo
credito internazionale. Accumulato nel dopoguerra, all’Unione europea dei
pagamenti. E alimentato dalle lingue: Carli, parlando inglese, tedesco e
francese, partiva in vantaggio con qualsiasi interlocutore.
Federico
Carli, a cura di, La figura e l’opera di
Guido Carli, Bollati Boringhieri, pp. CI + 758, ril. € 60
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