La testa mozzata di Taurianova “è storia
interamente inventata”. Basterebbe questo per dire il libro. Ma Varano e Veltri
sono a caccia di spiegazioni, non di controscoop. Di una spiegazione di un
fenomeno insopportabile e anche incomprensibile: la dannazione della Calabria.
C’è bisogno d’inventare le teste mozzate? E perché tutti ci credono, hanno
voglia di crederci? Con Duisburg dopo Taurianova, la strage avventata
e stupida, contro gli interessi della stessa mafia. “Una botta di barbarie”, che però ha “blindato… l’immagine
nuova del calabrese che tra industria dei sequestri, guerra di mafia e testa
mozzata si era già affermata”. Dunque, basta un atto di follia? Calabrese rimava con crazy, pazzo, già sessant’anni fa, ma era in “Mambo italiano”, per ridere, la canzone di Rosemary Clooney, la zia.
“Riflessioni sulla Calabria e i
calabresi” è il sottotitolo: gli autori, giornalisti sperimentati, calabresi
attivi in Calabria, sono costretti a chiedersi “ma chi sono?”, e non sono i
soli. Hanno anche l’ottima idea di ristampare in anastatica una parte dello
speciale sulla Calabria che Piero Calamandrei organizzò nel 1950 con la sua
rivista “Il Ponte”, specchio e memoria di un’altra realtà. Povera, dolente
anche per molti aspetti, ma dignitosa, intelligente come tutti, e piena di
energie. Come a dire: se il seme buono c’era, la malattia non è etnica, ereditaria.
Cosa non ha funzionato, si chiedono allora, se
la maledizione si è abbattuta sul nome, i luoghi, le persone, tra il
barbarico e il diabolico, indistinta e ribadita? Se lo chiedono più angosciati
che critici, e nello stesso modo, sotto lo stesso peso, tentano qualche
risposta.
La
polvere della democrazia
“Indistinta”
è già una chiave: la dannazione è uno stereotipo, un luogo comune, ripetuto
nella disattenzione. E la disattenzione nella pubblicistica è troppa. In parte
giustificata da ragioni commerciali: se vende il genere dell’orrido, le vite
dei delinquenti, ancorché pentiti, perché no? In parte più larga effetto della
rapidità (superficialità) dei mass media,
che lavorano per accumulo, ripetendo il già detto. Si leggono i giornali della regione, dove magari si vive pure allegramente, ogni mattina con lo stomaco chiuso, cronaca nera e nerissima dalla prima all’ultima riga, mafia, malasanità e malaffare, e questo non è senza conseguenze nella psicologia locale: è come avere introiettata ogni giorno una dose di violenza. Anche delle eccellenze. Il porto di Gioia Tauro è dei
Molè o Piromalli, le locali cosche mafiose, delle mafie colombiane, delle mafie
cinesi, non l’interporto più efficiente del Mediterraneo, anche per la qualità
dei servizi locali ai mezzi e le infrastrutture. La Salerno-Reggio Calabria è
la disperazione degli automobilisti e non un gioiello tecnico, tra viadotti e
gallerie, con 50 chilometri a tre corsie, e 300 a due corsie larghe con sorpasso, senza
nessuna menzione mai dei veri inferni della viabilità, la Firenze-Bologna, con “variante di valico” annessa, 33 anni di lavori
– per 32 km. – di cui non si sa la fine, la
Milano-Genova, l’Aurelia da Civitavecchia a Livorno, né dei ritardi enormi e i costi
superfetati dei relativi adeguamenti - senza contare che gli automobilisti della
Sa-Rc sono pochi e l’autostrada è gratuita.
Varano
e Veltri fanno grande caso, e una utile disamina, dell’identità, di come si
disaggrega e si aggrega l’identità, locale e etnica oltre che individuale. Ma i
media sono rimasti l’unica pedagogia in questa società di mercato atomizzata,
senza più mediazione politica né ideologica né religiosa o culturale, e sono
tutti subdolamente traumatizzanti: più leggiamo e più ci sentiamo impotenti e
restiamo inerti. Specie in una società, andrebbe aggiunto, che si è perduta con
la necessaria democratizzazione, polverizzata. L’indifferenza al bene comune, il
disordine, edilizio, alimentare, comportamentale, il deperimento politico, del
giudizio, delle scelte, sono derivate del miglioramento economico delle masse,
che pure c’è stato. È qui la radice
dello scadimento della classe politica: non ha più un ruolo il vecchio ceto
notabilare, la borghesia delle professioni, del prestigio, della cultura, e la
nuova fatica ad affinarsi. A entrare nel ruolo del buon amministratore, e anche
in quello, che pure ricerca, dell’affermazione personale, del potere politico
correttamente (proficuamente) inteso. Prevale il sottogoverno: gli affari, l’avidità, l’intrigo.
L’argomento della corruttela epifenomeno della democrazia è indigesto, ma basti
il raffronto con Gullo, Mancini, Misasi, Guarasci, che pure erano anche loro
calabresi, ma grandi borghesi. O, come Varano e Veltri propongono, con la cultura di cui “Il Ponte”
è specchio, prima del boom.
Di
più pesa il leghismo, sulla Calabria come sul resto dell’Italia, superficiale e
apodittico. Varano e Veltri fanno grande caso di Bocca, del suo malevolente
“L’inferno”, contro l’Aspromonte e la Calabria tutta, che invece è semplice:
nel 1992, anno dell’“Inferno”, Bocca era leghista, come tutta Milano 1 – questo potevamo registrare già in “Fuori
l’Italia dal Sud”, 1993. Milano 1 è la circoscrizione elettorale di Milano
centro, che raggruppa l’élite
finanziaria e intellettuale della città e dell’Italia, ed era stata in
successione spadoliniana, craxiana, leghista, sempre cioè à la page. Il leghismo si è voluto molte cose, superficiale e
contraddittorio come è nel dna di Milano, autonomista e ministeriale, antinazionalista
e sciovinista, tedescofilo e antitedesco, ma una con più costanza:
antimeridionale. Senza argomenti, abbandonandosi alla stupidità. La quale però
è violenta, ed è contagiosa. Bocca aveva esordito nella chiave dell’“Inferno”
quarant’anni prima, l’11 settembre 1955, sul milanese “L’Europeo”, titolando
“Delianova paese del West” una serie di delitti culminati nell’assassinio del
maresciallo dei Carabinieri Sanginiti, originati da una vicenda di gelosia, o
storia d’amore tradita. Che “L’Inferno” sia stato riproposto prefato da
Scalfari, calabrese eminente, non cambia.
La Calabria è quella che è, insomma, per
molte ragioni. Alcune senza sua colpa. La più importante resta però da dire: il
senso dell’ordine pubblico. Che sembra un titolo di Garcia Marquez, ma è una
triste realtà, di realismo non magico.
Ho
visto nascere la mafia
Mimmo Gangemi, ricordano gli autori, ha
testimoniato che adolescente, quindi a metà degli anni1960, ammirava, come
tutti, gli uomini d’onore del suo paese, Santa Cristina d’Aspromonte. Che però
non erano ancora mafia. Questa stava crescendo da alcuni anni, poco discosto da
Santa Cristina, a Castellace di Oppido Mamertina, come mafia dei terreni. In
contemporanea con i Piromalli di Gioia Tauro, la mafia del commercio, piccolo e
grande. Abbiamo visto nascere, e anzi sperimentato in prima persona, come
piccoli proprietari da espropriare, la mafia della Piana di Gioia Tauro, un
fenomeno nuovo, della Repubblica, al coperto anche della Legge – le prime
mutazioni sono arrivate una quarantina d’anni dopo, quando il maltolto era già
miliardario e non più confiscabile ( http://www.antiit.com/2013/10/ce-la-mafia-quando-il-delitto-e-impunito.html ). Cos’era
cambiato? Una mutazione razziale? sociale? Nella nostra esperienza una sola
cosa: i Carabinieri. La proprietà non era da proteggere e i Carabinieri, che
tutto sapevano, non si sono mossi. Magari creando all’Aspromonte la fama
d’inaccessibilità.
Lo stesso per i sequestri di persona, su
cui Veltri ha condotto al tempo più di un’indagine, che hanno fatto la metà del
nuovo business mafioso dell’altra
faccia dell’Aspromonte, la Locride (Platì, San Luca, Bovalino e Siderno più che
Locri). Nel sottinteso che chi ha i soldi paga. Di 180 sequestri di persona a
scopo di estorsione censiti in quarant’anni nell’Aspromonte, a partire dal
primo, di Ercole Versace, il 2 luglio 1965, di cui 124 in Calabria - 18 nella
sola Bovalino - e 56 in altre regioni, non uno, si può dire, è stato
perseguito, o altrimenti dopo molti anni. Pur essendo un delitto complicato,
prolungato nel tempo, con uno schieramento criminale largo e larghissimo:
rapimento, trasferimenti, nascondigli, vettovagliamento, trattativa, pagamento
del riscatto, in genere ingente. Come dire impenetrabile l’Anonima Sequestri? Achille
Serra, parlamentare di destra e poi di sinistra, ha capitalizzato politicamente
la straordinaria esperienza di questore e poi prefetto a Milano nel 1992-1993.
Anni nei quali semplicemente “ordinò” che non ci fossero più sequestri di persona
sotto la sua giurisdizione.
Lo stesso per la droga, l’altra metà del
business mafioso di nuovo conio nella
Locride. Maria Serraìno, di Cardeto, moglie di un contrabbandiere di sigarette
condannato 65 volte in 35 anni, divenne “La Signora” e “Mamma eroina” a Milano,
dove praticò di tutto, dalla ricettazione allo spaccio e all’usura, liberamente
in casa sua, in piazza Alpi, per trent’anni. Con sfoggio di fuoriserie e
stravaganze dei figli, specie del primogenito, che liberamente intermediava i
fornitori sudamericani a Marbella, la Forte dei Marmi spagnola. Indisturbata,
fino a che una figlia, in crisi di eroina, non crollò, si sfogò, e gli arresti
furono obbligati.
Questo il fatto decisivo: la criminalità
prospera se indisturbata. Non ha mai vinto, non che si ricordi nella storia, ma
bisogna contrastarla: l’unica cosa che il criminale teme è il Carabiniere, la
prigione. Nel Seicento di Manzoni la criminalità più diffusa era in Italia nel
milanese.
Il
romanticismo naturale
La tela di fondo certamente c’è. Ma non
etnica – che vuol dire, la Calabria è ben parte dell’Italia, la più indifesa.
Né storica: il brigantaggio, si ricorderà, fu anche calabrese (e siciliano) ma
soprattutto fu lucano, della regione cioè oggi la più immune alla criminalità. Vincenzo
Padula e altri scrittori risorgimentali ne hanno tramandato racconti di
efferatezza ineguagliabile, dei briganti calabresi di inizio secolo, borbonici
antifrancesi. Ma al loro terribilismo fa da contrappeso, credibile, l’ironia di
Paul-Louis Courier, lo scrittore che a quel tempo ne fu la controparte
designata, ufficiale napoleonico. C’è d’altra parte, negli stessi scrittori, un
certo romanticismo del brigante – di Mimmo Gangemi ragazzo. Radicato nel
“romanticismo naturale” del “gruppo calabrese”, il gruppo dei letterati
individuati da De Sanctis a metà Ottocento, autori di novelle in versi di
briganti buoni, Miraglia (“Il brigante”), Mauro (“Errico”) e ancora Padula
(“Valentino”, “Antonello”). In linea con Schiller, Byron, Walter Scott (il
Robin Hood di “Ivanhoe”), e la grande opera italiana, di Verdi, Bellini, Mercadante,
che Napoli allora praticava al meglio. Nella temperie ribellistica (carbonara,
mazziniana, libera pensatrice) che distingueva gli spiriti avvertiti
dell’epoca. Che Hobsbawm – Varano e Veltri lo ricordano – fa viva ancora nel
dopoguerra. Anche se contraria all’indole e agli interessi delle masse, allora,
e ancora nel dopoguerra, contadine. Ultimamente è prevalsa la lettura contadina
dell’anarchismo calabrese, da Berto a Saviano, ma così non è, per nessun
aspetto, né psicologico né sociale e certamente non storico. Il ribellismo in
Calabria, in Italia, è borghese – fu
borghese la “repubblica di Caulonia”, opera in larga misura di Felice
Cavallaro, insegnante, sindaco. E più oggi, quello delle armi, della droga,
delle intimidazioni, più spesso giovanile: sconsiderato ma consumista (la
scorciatoia, l’avventura, il potere).
Il razzismo c’è pure, come no. Il
razzismo (leghismo) è facile. A opera più spesso degli stessi meridionali, e
calabresi. Compresi, inconsciamente, i compilatori delle gazzette quotidiane in
Calabria. Ma nella sua forma “milanese”, del mondo cioè che ha governato
l’Italia per un venticinquennio, coi suoi giudici, le banche, i politici, gli opinion makers (libri e librerie, autori
celebrati, autorità morali, le tecniche di persuasione - marketing - di cui
Milano è padrona e maestra). Che può essere cattivo ma non è irresistibile. Milano
è soprattutto la capitale della “moda” – vuole essere in voga, all’ultima moda
– e dell’industria del consenso. Dell’“industria della parola” – bisognerebbe
catalogarne una. Riduzionista, semplicista, perché la voga è passeggera – deve
esserlo, bisogna rifare la spesa a breve termine. E poco compassionevole,
riguardosa, perché gli affari si fanno così. A Milano, diceva Malaparte, la
spazzatura “sempre quelli di su la scaricano sulle spalle di quelli del piano
di sotto”. E “parlano a voce alta, spesso gridando” (“E questo credo avvenga
non perché siano sordi, o credano tutti gli altri sordi, ma per tenersi svegli…
(e) per mostrare che non han soltanto del denaro da spendere e da buttar via,
ma anche fiato da sprecare: il che, in un popolo di mercanti, è sempre segno di
ricchezza e di abbondanza”). Ma bisogna anche dire che in questa ottica, magari
non cattiva, solo superficiale, ma dissolvente, la Calabria non fa eccezione: Roma,
Napoli, la Sicilia, la stessa Venezia che si fa affondare dalle navi crociere,
Genova sotto l’acqua, L’Aquila sotto il terremoto, l’Italia tutta è deprimibile
e depressa, “Milano” non fa sconti.
L’ordine
che non c’è
La differenza ha altre cause. La razza
non c’entra: in fatto di crimini di sangue la Calabria è nella media, comprese
le guerre di mafia, coi loro morti a grappolo, e anche al di sotto della media.
Anche negli affari poco puliti, droga, grassazioni, appalti, corruzione,
nepotismo, le percentuali pro capite sono nella media. C’è sicuramente da
qualche tempo un eccesso locale di violenza estemporanea, soprattutto
giovanile, ma c’è anche un libero mercato di esplosivi e armi – trent’anni fa
nella scuola di Totò Delfino e don Pino Strangio a Bovalino solo un ragazzo
aveva la pistola, figlio di un mafioso esibizionista, e la nascondeva (nello
sciacquone del gabinetto), gli bastava far sapere che ce l’aveva, ora “tutti”
hanno un’arma, la esibiscono e la usano, hanno rispolverato pure il coltello. Ma anche la
violenza estemporanea è un fatto di ordine pubblico, i calabresi ne sono le prime
e sole vittime.
Le repressione è la chiave: l’apparato
giudiziario e le forze dell’ordine. A lungo non c’è stata, ora evidentemente è
sfocata. Con troppe assoluzioni. Pentiti troppo inattendibili. Ne furono messi
in campo 28 contro Giacomo Mancini, che certamente non era un mafioso. Più di
recente, si è avuta l’evizione del vescovo di Locri Bregantini, che fu la
migliore diga al malaffare, e proprio nella Locride, sul quale almeno due Procure
litigavano per abbattersi.
Aldo Varano-Filippo Veltri, Una vil razza dannata? Città del Sole,
pp. 230 € 15
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