Un paio di volte è il ristorante, prima
o dopo, che cambia gli umori, in peggio – una scelta sbagliata, dopo che nel
prescelto non c’era posto. L’esito è uguale nelle altre situazioni: si fa – si è
fatto, si pensa di fare – e si racconta delusi. Un trattatello “ecclesiastico”:
tutto è debolezza e vuoto, in amore e senza, dentro e fuori la coppia. In forma
di piccole confessioni (esibizionismi) psicoanalitiche, autoironiche certo. Il
genere Woody Allen, senza il comico. Di grande virtuosità, fredda.
La maledizione biblica Yasmina Reza estende
in minuti febbrili quadri ai minuti moti dell’animo e gesti quotidiani, di per
sé ovviamente falsi (inutili) e ridicoli. Le rivalse dei deboli esponendo all’occhio
beffardo del lettore. Che però si stanca: vi si riconosce ma con fastidio. Il
titolo attraente è per una serie di “telefonate” – per tono e ampiezza - serrate
delle macerazioni che sono dietro l’ananke
quotidiana - la spesa, i bambini, i vecchi, gli amici, gli amanti, i medici. “Essere
felici è un talento”, è una delle frasi che si citano dell’autrice, e in
effetti è così. Qui il talento della bella e brava commediografa si perde a sottilizzare.
Un rimestare estenuante. Abile: come segnare il passo – il surplace di cui Maspes era maestro, un ciclista. Esemplare del
genere “fenomenologico”, a due dimensioni, senza spessore psicologico, anzi
senza spessore, volutamente – “à vau
l’eau” avrebbe detto Huysmans un
secolo prima, che però si professava decadente, alla deriva. Senza vero
interesse, né critico né umano. Tutto può succedere in queste derive, che non
sbalzano personaggi o storie ma si vogliono pattinamenti, scorrevoli. Esercizi
di scrittura rapida, ma a una fine che non c’è. A parte l’amaro, in superficie.
Yasmina Reza, Felici i felici, Adelphi, pp. 163 € 18
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