Rileva
l’Economist Intelligence Unit che a metà anno la metà dei 54 paesi di cui analizza
periodicamente la congiuntura hanno avuto tassi di crescita in calo, e sette
una tassi negativi – una decrescita. Quasi tutti sono della Ue. È il segnale di
una depressione in atto, e non di una crisi economica – che a lungo peraltro si
voleva solo finanziaria: c’è un lag
di comunicazione.
Il
fondo depressivo della crisi lo aveva già segnalato Draghi in agosto, nel discorso
a Jackson Hole negli Usa presentato come l’inizio della fine della crisi in
Europa (quando si pensava di poter candidare Draghi contro Renzi): la crisi Ue
è persistente, aveva detto il presidente della Bce, per “la crisi del debito
sovrano” e per “uno squilibrio strutturale nei mercati del lavoro dell’eurozona”.
Cioè per la disoccupazione. Di cui però non dava la causa.
L’ha
data successivamente il suo vice, Victor Constâncio, seppure con dati vecchi –
della McKinsey, la Bce, che pure dovrebbe, non fa questa rilevazioni. Tra il
2007 e il 2011 l’investimento privato nell’Unione si è contratto di 354 miliardi,
di un 15 per cento. Uno “sciopero” molto più incisivo di quello del consumo privato,
diminuito di 17 miliardi, lo 0,2 per cento. Il dato McKinsey è stato confermato
recentemente dal Diw, l’Istituto tedesco per la Ricerca Economica, e
aggiornato. Dal 2008 al 2013 la formazione lorda di capitale fisso in Europa è
diminuita di quattro punti di pil, circa 650 miliardi.
Anche
sugli investimenti c’è un divario fra il nuovo nocciolo della Ue, la Germania
con l’Olanda, la Finlandia, il Belgio, l’Austria e il Lussemburgo, e gli altri.
Ma non netto come sembra. I quattro quinti dei 354 miliardi di disinvestimento censiti
da McKinsey erano dovuti alla Gran Bretagna (72 miliardi), ai ”paesi della
crisi”, Italia, Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna, e alla Francia (28
miliardi). Germania, Benelux e Austria avevano ridotto gli investimenti di 17
miliardi appena. Secondo il Diw anche la Germania ha disinvestito, per 70 dei
650 miliardi.
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