“La
guerra ci ha educato alla lotta, e resteremo combattenti finché viviamo”. Anche
perché “la guerra non è solo nostra madre ma anche nostra figlia. L’abbiamo
cresciuta, così come essa ha fatto con noi”. Sinistra premonizione. Ma
corretta: questo di Jünger è il libro forse “più” vero sula Grande Guerra,
sulla guerra. Più del suo stesso “Nelle tempeste d’acciaio”, scritto a caldo
nel 1919. Degli istinti animali sempre vivi. Dell’orrore, costante nell’uomo,
fin dalle “paure” dell’infanzia. E la putrefazione. La trincea. La paura – il
nemico è sempre dentro. L’eros, il bisogno incontinente della scarica ormonale.
Uno sguardo a fondo sulla guerra che Jünger continuerà ad arricchire in testi
dispersi (ora raccolti nel primo dei tre volumi degli “Scritti politici”) che
accompagnano la riedizione di questa “Battaglia interiore” nel 1926-27.
Le pagine
sul “bracciante” sono tutto l’opposto del “Tutti a casa” di cui l’Italia si
compiace. Di rispetto, e anzi di ammirazione, motivata. Dopo una pagina, a metà
libro, molto jüngeriana e però singolarmente inattaccabile, sulla “riduzione a
massa” (“Ormai disabituati alle forti ebbrezze, il potere e gli uomini ci fanno
orrore, i nostri nuovi dèi sono la massa e l’uguaglianza. Se la massa non può
diventare come i pochi, allora i pochi diventino come la massa”). “Perfetto” al
fronte è stato solo lui, il bracciante. Viene in mente la Brigata Catanzaro,
passata alla storia – nel quadro del “contadiname” che stava per far perdere la
guerra all’Italia - per la ribellione al fronte, e la decimazione che subì a
opera dei Carabinieri, ma dopo una anno e mezzo di offensive senza mai un
turno, un giorno, di riposo.
La
battaglia è la liberazione, “energia fatta carne, carica di forza alla massima
potenza”. La guerra si capisce facendola: “La lotta si nobilita con l’azione. E
anche il motivo della lotta. Altrimenti, come si fa a stimare il nemico? Solo
un valoroso può capirlo fino in fondo. La lotta è sempre qualcosa di sacro”.
Concepito a difesa del combattente, del reduce, nella “follia collettiva”
dell’ingratitudine e del rifiuto del dopoguerra, pubblicato nel 1923, il libro
riesuma la visione della guerra da combattente che il lettore di Jünger già
conosce, ma con un occhio clinico più affinato. Al solito, non entusiasta e non
cattivo, di chi ha visto le cose, anche sgradevoli, e le dice. Ma con una pietas. Che la nuova
introduzione, alla riedizione del 1926-27, qui riproposta, espone senza
ambiguità.
Jünger ha
vissuto e rivive la Grande Guerra coma una guerra di Troia. Con le trincee e i
cannoni, ma come scontro ancora di persone. Di un’epica minuta, frantumata, ma
lui stesso è piccolo-grande eroe omerico. Con un’altra visione della guerra,
non politica, non razionalizzata: un evento. E nell’evento, con il massacro,
anche l’ineluttabilità. E il valore che ad essa si lega: “Noi abbiamo avuto
accesso anche allo sconvolgimento ebbro che sia accompagna alla consapevolezza
di compiere grandi azioni”, una “euforia”, il “senso morale” insito “nelle
grandi opere”.
Il
richiamo omerico Jünger non fa mai. Si appella a una “esperienza interiore”,
un’orma indelebile che la guerra ha lasciato, forte come è possibile ipotizzare
nel costruttore ignoto delle piramidi. È la guerra una carneficina e una
sperimentazione: “La guerra è il potente incontro tra i popoli…. Mediante la
guerra le grandi religioni sono diventate un bene per il mondo intero, le razze
più valorose si sono messe in luce prendendo le mosse da oscure origini, e innumerevoli
schiavi sono diventati uomini liberi”. Quando si dice “mai più guerra” bisogna
saperlo. Una dura verità. Il pacifismo è un segno epocale di fine imminente.
Jünger lo sostiene in polemica con l’antireducismo che lo umiliò a guerra
perduta. Ma allora le due guerre tedesche saranno state le ultime dell’Europa e
hanno segnato la fine dell’Europa stessa.
Ernst
Jünger, La battaglia come
esperienza interiore, Piano B, pp. 160 € 13
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