Gli
esami di positività – stress test – non sono stati uguali per tutte le banche
europee. Per la parte principale erano ponderati su situazioni di rischio
specifiche per ogni paese di appartenenza. Senza contare che Intesa e
Unicredit, le maggiori banche italiane, sono multinazionali, ma questa non è
l’anomalia maggiore. Le banche italiane dovevano confrontarsi con una situazione
così concepita: cinque anni di recessione, consumi di guerra, debito pubblico a
rischio default, tassi alle stelle, credito a zero.
Missione
impossibile. Ma non per la Bce, che l’ha imposta. Né per la Banca d’Italia che
l’ha accettata senza opporsi.
Così
le banche tedesche, che sono le più deboli, son risultate le più sicure. Le
banche regionali e locali, piene di crediti politici insolubili. E delle due
banche nazionali una, Commerzbank, a rischio fallimento, negli Usa e nella stessa
Germania, e Deutsche Bank che ancora ammortizza i tre miliardi accantonati per possibili perdite sulle speculazioni avviate nel 2010-2011. Più 1,1 miliardi per la manipolazione dei cambi, per la quale è in corso negli Usa una offensiva giudiziaria per danni da 30-40 miliardi. A carico di un paio di banche americane, e di un paio svizzere, insieme con le banche privilegiate dagli stress test, la Deutsche e le britanniche..
Solo
a stress test pubblicati la Banca d’Italia ha segnalato le integrazioni patrimoniali
effettuate dalle banche italiane nel 2014 (anche quella gigantesca del Monte
dei Paschi?). Di cui la Bce non ha tenuto conto. Impossibile? È avvenuto.
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