Andreotti – Belzebù? Il Grande
Vecchio? La testa del serpente? Un uomo solo. Il film di Sorrentino è più
giusto (vero) che fantasioso e drammatico. Patrono di Lima perché Fanfani aveva
Ciancimino – Lima e Ciancimino, entrambi mafiosi, erano in concorrenza, nemici
acerrimi. Visto da vicino, alla
Camera, quando emerse come presidente del consiglio nel 1971, era soprattutto
questo: solo. S’impose bloccando l’elezione di Fanfani al Quirinale. S’impose
facendo eleggere al suo posto Leone, Tutto da solo. E si costruì come leader
della destra perché quella era l’area sguarnita dopo Segni. Da questa posizione
sfidò Moro, l’altro cavallo di razza, ma meno bizzarro di Fanfani e roccioso, drammaticamente,
nel 1973-74, con violenza: con interviste, accuse, allusioni. Moro non è
Fanfani, è resiliente e non vendicativo. E sarà l’ostetrico della stagione più
fortunata di Andreotti, dei governicchi in cui esaurì il compromesso storico,
il Pci, e Berlinguer – che perderà seccamente le elezioni del 1979. Senza
stabilire ponti, neppure di riconoscenza: di Moro Andreotti si libererà con ruvidezza,
senza nessuna pietas, nemmeno (demo)cristiana. Con le Br. La freddezza è atroce
con Moro che gli chiede la grazia,.ma sa di isolamento e non di malvagità –
ogni criterio di opportunità politica l’avrebbe portato a salvare Moro.
Vito
da vicino come ministro degli Esteri di De Mita, col quale aveva condiviso il
patto di San Ginesio, la rivolta generazionale contro Fanfani e Moro, la
solitudine ne è confermata – De Mita ne rideva. Il caso di Moro verrà ripetuto
con Forlani, altro alleato di San Ginesio, suo concorrente al Quirinale, fino alla
spietatezza, al “muoia Sansone con tutti i filistei”. La distruzione di Forlani
aveva già in atto subito dopo la liquidazione di Moro, con la lista Gelli al
giudice Colombo.
Analogo,
seppure più influente, il suo passo a quello di Cossiga. Col vero patto di San
Ginesio tra i due, di mutuo soccorso. Cossiga, che l’aveva sostituito al
governo dopo la vittoria elettorale del 1979, ma dopo la fine del compromesso,
Andreotti colpì ma non affondò con la carte (parte delle carte) Donat Cattin.
Ma lo fece assurgere incontestato al Quirinale. Da dove Cossiga se ne farà il
capo del governo di elezione.
La
solitudine di Andreotti si caratterizza come una storia tutta interna alla Dc.
Berlinguer, Craxi, come già l’Msi nel 1972, sono interlocutori occasionali. Il
suo impegno è sopravvivere nella Dc.
In
economia fece gli errori marchiani (Sindona, Baffi), atipici anche per il carattere,
la diffidenza caratteristica, perché non agiva dentro la Dc: aveva bisogno di
legami tra i potenti degli affari ma bizzarramente non li cercò dentro il
vastissimo bacino Dc (banche, partecipazioni statali, appaltatori). Caltagirone
glielo portava Evangelisti, un tuttofare
cui non diede mai vera confidenza. Non difese mai nessuno dei suoi fedelissimi.
Non Cirino Pomicino, e neppure Evangelisti. o l’onesto Sbardella.
Debito – È ora sempre pubblico, ma a beneficio privato. È l’esito
paradossale, tanto più per essere indiscusso, della crisi del mercato nel 2008,
dopo quella, degli anni 1980, del keynesismo e dello Stato sociale: il debito
pubblico come socializzazione del debito privato. Delle banche, delle imrese, e
anche della speculazione finanziaria.
Opinione pubblica – L’Italia resta
un’eccezione cospicua alla teoria di McLuhan che fa dell’opinione il riflesso
dei media. Il rapporto media-opinione è stato impossibile nella prima fase della
Repubblica, quando la politica era fortemente ideologizzata. Ma lo è anche ora
che non ci si batte per la libertà né per la democrazia, ma per fare insieme
pezzi di strada: la riforma della sanità, la riforma del salario e delle
pensioni, energie rinnovabili, depuratori, piani paesaggistici e regolamenti
funzionali alle Camere.
Questo
scrivevamo venticinque anni fa, ”«Il Mondo» non abita più qui”, e resta sempre
valido. Altro si poteva aggiungere.
Il
lettore italiano non crede al giornale. In “Carte false” Giampaolo Pansa lo
rileva come un dato di fatto, corroborato, dice, da tutte le indagini
demoscopiche. Lo storico della stampa Paolo Murialdi fa proprio il giudizio di
un osservatore straniero: “In Italia non si può individuare l’opinione pubblica
attraverso i giornali”. Ne “Il buon giornale” Piero Ottone, l’unico giornalista
che si sia applicato all’assunto, rileva una sorta d’incomunicabilità. L’italiano
superpoliticizzato è quello che, fra tutti gli europei meno si forma
un’opinione attraverso i giornali (Renato Mannheimer, Giacomo Sani, “I mercati
elettorale”, pp. 12-13).
Plebiscitarismo – Fu tema
dominante tra le due guerre, con
l’emergere delle dittature – ce n’erano una ventina in Europa prima della
guerra. Ma è tema centrale nella
democrazia contemporanea, “americana”. E in un’Italia per questo aspetto totalmente
americanizzata. Si continua a discutere di semipresidenzialismo francese e di
cancellierato tedesco, ma tutte le istituzioni si modellano sugli Usa. Il “decisionismo”
di conio germanico è in realtà di tipo americano – che poi è antico romano: chi
è eletto governa. È peraltro negli Usa che gli studi su Machiavelli, Pareto e Mosca
sono ancora fiorenti.
Ponzio Pilato – Ebbe da giudicare Gesù
che non era cittadino romano. San Paolo, invece, che subì lo stesso trattamento di Gesù, fu protetto
perché si appellò alla legge romana, e poteva farlo. Come si racconta negli “Atti
degli apostoli” san Paolo u accusato di voler distruggere la legge mosaica per
sostituirla con quella del Cristo. Consigliato da san Giacomo, per prevenire l’insidiosa
accusa san Paolo compì per sette giorni, in compagnia di quattro ebrei a testimonianza,
tutti i riti ebraici. La cosa invece aggravò la sua posizione. Si gridò alla
profanazione. San Paolo rischioò il linciaggio. Fu salvato da un tribuno
romano, Clausio lisia, che controlava la spianata del tempio dalla prospiciente
fortezza Antonia. San Paolo si dichiarò allora cittadino romano. Lisia in un
primo momento lo mandò in giudizio al Sinedrio, che però si divise e non raggiunse
una decisione. Allora lo mandò dal governatore Felice. Il governatore non lo
assolse né lo condannò, ma lo protesse per tutta la durata residua del suo
mandato, circa due anni. Con Festo, il suo successore, la richiesta di condanna
fu reiterata. Festo rispose: “Non è nel costume dei romani condannare un uomo
prima che l’accusato abbia davanti a sé gli accusatori e gli sia stata data la
libertà di difendersi”. Pur non avendone stima, protesse san Paolo in base alla
legge. E poi gli organizzò il viaggio a Roma.
Di
san Paolo Festo giunse alla conclusione che fosse un pazzo: “I troppi studi ti
hanno fatto impazzire”. Porcio Festo fu procuratore romano in Giudea al tempo
di Nerone, dal 55-56 al 61-62.
astolfo@antiit.eu
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