domenica 19 ottobre 2014

ll mondo com'è (191)

astolfo

Andreotti – Belzebù? Il Grande Vecchio? La testa del serpente? Un uomo solo. Il film di Sorrentino è più giusto (vero) che fantasioso e drammatico. Patrono di Lima perché Fanfani aveva Ciancimino – Lima e Ciancimino, entrambi mafiosi, erano in concorrenza, nemici acerrimi. Visto da vicino, alla Camera, quando emerse come presidente del consiglio nel 1971, era soprattutto questo: solo. S’impose bloccando l’elezione di Fanfani al Quirinale. S’impose facendo eleggere al suo posto Leone, Tutto da solo. E si costruì come leader della destra perché quella era l’area sguarnita dopo Segni. Da questa posizione sfidò Moro, l’altro cavallo di razza, ma meno bizzarro di Fanfani e roccioso, drammaticamente, nel 1973-74, con violenza: con interviste, accuse, allusioni. Moro non è Fanfani, è resiliente e non vendicativo. E sarà l’ostetrico della stagione più fortunata di Andreotti, dei governicchi in cui esaurì il compromesso storico, il Pci, e Berlinguer – che perderà seccamente le elezioni del 1979. Senza stabilire ponti, neppure di riconoscenza: di Moro Andreotti si libererà con ruvidezza, senza nessuna pietas, nemmeno (demo)cristiana. Con le Br. La freddezza è atroce con Moro che gli chiede la grazia,.ma sa di isolamento e non di malvagità – ogni criterio di opportunità politica l’avrebbe portato a salvare Moro.
Vito da vicino come ministro degli Esteri di De Mita, col quale aveva condiviso il patto di San Ginesio, la rivolta generazionale contro Fanfani e Moro, la solitudine ne è confermata – De Mita ne rideva. Il caso di Moro verrà ripetuto con Forlani, altro alleato di San Ginesio, suo concorrente al Quirinale, fino alla spietatezza, al “muoia Sansone con tutti i filistei”. La distruzione di Forlani aveva già in atto subito dopo la liquidazione di Moro, con la lista Gelli al giudice Colombo.
Analogo, seppure più influente, il suo passo a quello di Cossiga. Col vero patto di San Ginesio tra i due, di mutuo soccorso. Cossiga, che l’aveva sostituito al governo dopo la vittoria elettorale del 1979, ma dopo la fine del compromesso, Andreotti colpì ma non affondò con la carte (parte delle carte) Donat Cattin. Ma lo fece assurgere incontestato al Quirinale. Da dove Cossiga se ne farà il capo del governo di elezione.
La solitudine di Andreotti si caratterizza come una storia tutta interna alla Dc. Berlinguer, Craxi, come già l’Msi nel 1972, sono interlocutori occasionali. Il suo impegno è sopravvivere nella Dc.
In economia fece gli errori marchiani (Sindona, Baffi), atipici anche per il carattere, la diffidenza caratteristica, perché non agiva dentro la Dc: aveva bisogno di legami tra i potenti degli affari ma bizzarramente non li cercò dentro il vastissimo bacino Dc (banche, partecipazioni statali, appaltatori). Caltagirone glielo portava  Evangelisti, un tuttofare cui non diede mai vera confidenza. Non difese mai nessuno dei suoi fedelissimi. Non Cirino Pomicino, e neppure Evangelisti. o l’onesto Sbardella.

Debito – È ora sempre pubblico, ma a beneficio privato. È l’esito paradossale, tanto più per essere indiscusso, della crisi del mercato nel 2008, dopo quella, degli anni 1980, del keynesismo e dello Stato sociale: il debito pubblico come socializzazione del debito privato. Delle banche, delle imrese, e anche della speculazione finanziaria.   

Opinione pubblica – L’Italia resta un’eccezione cospicua alla teoria di McLuhan che fa dell’opinione il riflesso dei media. Il rapporto media-opinione è stato impossibile nella prima fase della Repubblica, quando la politica era fortemente ideologizzata. Ma lo è anche ora che non ci si batte per la libertà né per la democrazia, ma per fare insieme pezzi di strada: la riforma della sanità, la riforma del salario e delle pensioni, energie rinnovabili, depuratori, piani paesaggistici e regolamenti funzionali alle Camere.
Questo scrivevamo venticinque anni fa, ”«Il Mondo» non abita più qui”, e resta sempre valido. Altro si poteva aggiungere.
Il lettore italiano non crede al giornale. In “Carte false” Giampaolo Pansa lo rileva come un dato di fatto, corroborato, dice, da tutte le indagini demoscopiche. Lo storico della stampa Paolo Murialdi fa proprio il giudizio di un osservatore straniero: “In Italia non si può individuare l’opinione pubblica attraverso i giornali”. Ne “Il buon giornale” Piero Ottone, l’unico giornalista che si sia applicato all’assunto, rileva una sorta d’incomunicabilità. L’italiano superpoliticizzato è quello che, fra tutti gli europei meno si forma un’opinione attraverso i giornali (Renato Mannheimer, Giacomo Sani, “I mercati elettorale”, pp. 12-13).

Plebiscitarismo – Fu tema dominante tra le due guerre, con l’emergere delle dittature – ce n’erano una ventina in Europa prima della guerra. Ma è tema centrale nella democrazia contemporanea, “americana”. E in un’Italia per questo aspetto totalmente americanizzata. Si continua a discutere di semipresidenzialismo francese e di cancellierato tedesco, ma tutte le istituzioni si modellano sugli Usa. Il “decisionismo” di conio germanico è in realtà di tipo americano – che poi è antico romano: chi è eletto governa. È peraltro negli Usa che gli studi su Machiavelli, Pareto e Mosca sono ancora fiorenti.

Ponzio Pilato – Ebbe da giudicare Gesù che non era cittadino romano. San Paolo, invece, che subì  lo stesso trattamento di Gesù, fu protetto perché si appellò alla legge romana, e poteva farlo. Come si racconta negli “Atti degli apostoli” san Paolo u accusato di voler distruggere la legge mosaica per sostituirla con quella del Cristo. Consigliato da san Giacomo, per prevenire l’insidiosa accusa san Paolo compì per sette giorni, in compagnia di quattro ebrei a testimonianza, tutti i riti ebraici. La cosa invece aggravò la sua posizione. Si gridò alla profanazione. San Paolo rischioò il linciaggio. Fu salvato da un tribuno romano, Clausio lisia, che controlava la spianata del tempio dalla prospiciente fortezza Antonia. San Paolo si dichiarò allora cittadino romano. Lisia in un primo momento lo mandò in giudizio al Sinedrio, che però si divise e non raggiunse una decisione. Allora lo mandò dal governatore Felice. Il governatore non lo assolse né lo condannò, ma lo protesse per tutta la durata residua del suo mandato, circa due anni. Con Festo, il suo successore, la richiesta di condanna fu reiterata. Festo rispose: “Non è nel costume dei romani condannare un uomo prima che l’accusato abbia davanti a sé gli accusatori e gli sia stata data la libertà di difendersi”. Pur non avendone stima, protesse san Paolo in base alla legge. E poi gli organizzò il viaggio a Roma.
Di san Paolo Festo giunse alla conclusione che fosse un pazzo: “I troppi studi ti hanno fatto impazzire”. Porcio Festo fu procuratore romano in Giudea al tempo di Nerone, dal 55-56 al 61-62.

astolfo@antiit.eu 

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