“Maledetta? Come, maledetta”, si irrita Rocco,
il personaggio più derelitto e sfortunato di “Emigranti”, il romanzo della
Calabria profonda di Francesco Perri: “Ma non sai che questa è la più bella
terra del mondo? Qui abbiamo tutto, ogni bene e ogni grazia di Dio”. E al figlio
che protesta fa l’elenco, stagione per stagione, mese per mese, della natura
provvida. In successione: la lattuga, la fava, il pisello, la ciliegia, la
nespola, il fico, l’orzo, il grano, il granturco, la pera, la mela, la pesca,
il ficodindia, la mela granata e di nuovo il fico, l’uva, la noce, e la mela e
la pera invernali, poi la castagna, e “comincia l’ulivo”. Da ignorante, ma non
ha torto.
“’Cca ‘ndavimu l’aria”, ironizza invece Otello Ermanno
Profazio. Anche lui ha ragione.
Fuori la
religione, troppo pagana
Non si è fatto un riesame delle processioni,
dell’estate delle processioni proibite, ed è male. Perché la cosa non è
scontata come sembra, la processione dei mafiosi, ed è anzi sorprendente, per
più di un motivo-fatto.
I preti, che non le hanno mai amate, troppa
fatica, le hanno fatte sprofondare nel ridicolo. Un qualsiasi antropologo
protesterebbe. Anche uno storico, per esempio delle emigrazioni. Che la
processione e la festa hanno ritrovato oltre gli oceani come un fatto di autoaffermazione.
Di autotutela e identità. Un fatto positivo, del valore civile anche del fatto
religioso.
I preti non amano la religiosità “popolare”, l’incorporazione della religiosità. Che pure è stata
il sostegno dei poveri, di mezzi e di spirito, per millenni. Più e meglio delle
Caritas e delle social card per i
bisognosi con cui la sostituiscono, e mense, dormitori, case famiglie, case riposo, tutte cose opportune che tuttavia sanno di simonia mascherata,
l’intermediazione della spesa pubblica a fini sociali. Con più senso del divino
che una confessione o una fredda comunione al termine di una fredda messa. La
“religione popolare” degradando a “paganesimo”. Che non vuole dire nulla ma ha
un sentito spregiativo..
I preti celebrano ogni giorno
l’eucaristia, ma non sanno che si dicono. I canti della festa e della
processione, sguaiati è vero, non intonati, non ritmati, sono più ricchi di
fede, e anche di conforto, che i loro lunghi, secchi, sermoni. O il miracolo,
l’invocazione, l’attesa, così confinanti con la grazia. Mentre una teologia
arida s’impone, asfittica. Politica: mi
conviene di più se…. Il fatto religioso, popolare e non, semplicemente
misconoscendo: la religione, come ogni pratica mitica, è l’irrazionalità
dominata e condotta a forza. A fattore di identità e di sicurezza. Fino a che
resta un fattore identitario. Il carattere della fede misconoscendo, che non è
adesione alle regole del prete o del suo vescovo, ma pratica per ogni aspetto mitica,
dalla magia alla religione. E compresa naturalmente la ragione: bisogna avere
fede per credere nella ragione - chi non ha fede (non è capace di, non ha
voglia di) non crede in nulla.
Bisogna intendersi: se il divino è sentimento,
e partecipazione, sia pure coi denti cariati e le voci stonate, oppure fredda
preghiera, secondo le regole e le formule di un astratto concilio o di un
monsignor arcivescovo. La religione, come ogni mitologia, convive con la
ragione come fattore identitario e di sicurezza. Non tanto come fatto
irrazionale, di volta in volta invocazione o anatema del diavolo, quanto come
tradizione, tesaurizzazione di un insieme di credenze e pratiche. E come tale
dura finché si crede. La religione funziona come la ragione, fino a che e nella
misura in cui viene creduta.
Non è nemmeno difficile conciliare il rito con
la fede. Ma è vero che la chiesa non è più il rifugio dei peccatori. Delle
anime semplici. Dei poveri e poverissimi, di spirito più che di mezzi. Dei tormentati.
Degli ammalati. I preti non ce li vogliono: la chiesa vogliono sanitarizzata,
con gli orari, col tariffario.
Il mutuo
Andreina De Clementi, storica da ultimo dell’emigrazione
(“L’assalto al cielo. Donne e uomini nel’emigrazione italiana”) individua un
circolo vizioso tra “proprietà” e emigrazione. Il feudo parcellizzato ha creato
debiti, col fisco e con le banche, che si è mangiato il reddito, il poco che c’era,
quando c’era, e induceva all’emigrazione ere ricostituire il capitale. Da
reinvestire nella stessa (piccola) proprietà, fare nuovi debiti. Etc.
È possibile. Un circolo vizioso analogo è però
certo per la casa, sostituto dell’dea della proprietà. Riscontrabile da ognuno
che si avventuri in Calabria in Sicilia,
dove la scena è dominata da case, per lo più abusive, non terminate: scheletri
di casoni, colonne di tondini, terrazze senza tetto, pareti senza infissi, la
desertificazione urbana. Perché la casa dev’essere gigantesca, il “palazzo”, con
la scusa dei figli, anche se questi mai l’abiteranno. E si prende anch’essa
tutti i risparmi e induce al debito. L’emigrazione adesso non è necessaria, ci
sono i mutui. E così, nonché bruciare tutti gli averi in un progetto che non
potranno completare mai, ogni famiglia s’indebita a vita – 25-30 anni – con la
banca. Si vota cioè a una non-esistenza dovendo pagare un muto comunque esoso,
in rapporto al reddito.. Nonché alla sussistenza: non potrà mai avviare un nuovo
progetto, ampliare o affinare un’arte produttiva, moltiplicare il reddito, poiché
non disporrà più di risparmi, o altre forme di capitale utilizzabili. La casa
sessa, qualora uno volesse liberarsene, è inservibile, perché non ha mercato.
Il Sud
Goffredo Fofi ricorda nel suo “Immigrati
meridionali a Torino”, ora riedito, pubblicato nel 1975, su una ricerca svolta
ai primi dl decennio, che gli immigrati non si distinguevano o riconoscevano
come meridionali ma come siciliani o calabresi. E meglio ancora per le zone di
origine, l’agrigentino, la Piana di Gioia Tauro, il catanese. Il cartello “niente
immigrati” non faceva distinzioni, ma gli immigrati sì. Fa differenza? Sì: il fondo
non detto della comune disgrazia, il bisogno di sradicarsi per cercare un reddito,
era localizzato, ed era un fatto preciso, una particolare condizione di una particolare
comunità, in un dato momento. Non era un fato etnico né una condanna biblica.
La stessa identificazione si incontra nelle
storie dell’emigrazione. Sia nella Americhe che in Germania o in Francia. E nei
racconti di questa emigrazione, numerosi e vivaci soprattutto nella letteratura
nordamericana. Anche in quella che, dagli anni 1960, ha creato le mafie come
organizzazioni: la fedeltà è sempre localizzata, tra napoletani, tra siciliani,
tra calabresi. Il fenomeno cosiddetto della “insularizzazione” dell’emigrazione:
la comunità veniva distinta come italiana, e al suo interno si distingueva per
luogo di origine.
Il Sud, la condanna del “meridionale”, è una generalizzazione
venuta con l’unità, che ha creato i dominanti e i dominati. Torna dominante
nell’ultimo tentennio, per le pulsioni leghiste che tentano di rivitalizzare
quella dicotomia.
leuzzi@antiit.eu
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