giovedì 6 novembre 2014

Il Grande Racconto dell’emigrazione

“Tra il 1946 e il 1976”, i primi trent’anni della Repubblica, “hanno abbandonato la penisola esattamente 7. 447.770 individui”. Metà degli italiani, dunque, se li ricordano, i viaggi non della disperazione – ma della speranza sì. Aperti un secolo prima dal vapore e dal treno.
Di una speranza, però, mal fondata. Ed è questa la “scoperta” di questo libro, il circolo vizioso tra emigrazione e piccola proprietà, che ha dominato a lungo l’Italia agricola, quella meridionale fino agli anni Settanta, ed è la chiave del suo (relativo) sottosviluppo. Un’accumulazione faticata, con sacrifici impensabili, dispersa nella piccola proprietà. Improduttiva, se non di debiti, col fisco e con le banche, e quindi di emigrazione, per tentare di ricostituire il capitale, e cioè la piccola proprietà. Con un occhio alla demografia, e alla storia di genere – come farne a meno?
L’emigrazione è fra i fenomeni più abusati della storia politica, nel senso di agitatoria. Come segno molto emotivo di povertà, e esito della stessa. Da intendersi a sua volta come sfruttamento, ingiustizia, sopruso. O al contrario come esito altro rispetto al brigantaggio, in una sorta di equivalenza, nelle letture di Scalise, De Nobili e altri galantuomini posivitisti, fino a Nitti e Norman Douglas. Tanto basta – bastava – per esaurire il fenomeno: una presa di distanza. Questi studi aprono altre, più realistiche, prospettive.
C’è ancora molto da sapere sull’emigrazione, anche su quella italiana, all’apparenza pure molto indagata, e Andreina De Clementi, che già aveva diretto nel Duemila, con Piero Bevilacqua e Mimmo Franzinelli, la “Storia dell’emigrazione italiana”, poi confluita in due corposi volumi, esamina qui i punti controversi della storiografia, raccogliendo e rivedendo i saggi che via via ha ad essi dedicato. Alcuni ancorati ai numeri, per una più corretta analisi delle statistiche: i cicli migratori - transoceanici, europei - e le rimesse, sia nelle dimensioni che nell’uso. Altri istituzionali: essenzialmente gli accordi della prima Repubblica con l’Argentina e i paesi europei del carbone, Belgio, Germania, Francia, Gran Bretagna. Altri raccontati, su scritture inedite, testimonianze orali, minute corrispondenze o insorgenze familiari.
Questa è la parte nuova della raccolta, sottotitolata “Donne e uomini nell’emigrazione italiana”. Che la studiosa ha organizzato come storica di genere, mobilitando i suoi allievi – le sue allieve – alla ricerca delle trascurate scritture domestiche, cartoline o lettere per lo più e atti legali, nonché di testimonianze di persone che avevano vissuto la vecchia emigrazione in prima persona. Una ricerca di cui dà conto nei tre capitoli centrali, “I lavori delle donne”, “A ruoli scambiati”, “La sfida dell’insularità”. 
Non ci sono precedenti, se non, incidentalmengte, larciprete di Comparni (Mileto) Lorenzo Galasso, Arabi e beduini d'Italia, 1911, e il vecchio studio pubblicato da Comunità nel 1961, Il contadino polacco in Europa e in America, di Thomas e Znaniecki, e quindi questo apporto si può dire una scoperta. Con molte sorprese. La donna non è solo la fattrice e nutrice della vulgata, in un mondo contadino privo di sensibilità, tra marito e moglie, tra genitori e figli. Lemigrazione si configura infine nel suo dato più caratteristico, di sfida e quasi di scelta - “l’umanità viva avida e potente dell’emigrazione di quarant’anni fa” che Corrado Alvaro rilevava nel 1933, in “Itinerario italiano”. Lo stratagemma storiografico di Andreina De Clementi, il recupero della carte perdute di un mondo che si presume senza carte, apre un tesoro nascosto all’opinione ricevuta, e probabilmente un filone d’indagine. L’insularità è più forte nelle comunità italiane negli Usa. Dove però serve anche come autoprotezione, a salvaguardia  – come tale la rappresenta “La fine”, un romanzo di non più di una diecina d’anni fa, di Salvatore Scibona, ancora attiva a Cleveland, Ohio, nel secondo Novecento: non come fatto di esclusione ma di un’etnicità sentita e anzi rivendicata. 
Il racconto va ripreso perché è fermo a un secolo fa, anche un secolo e mezzo. A Franchetti, Foerster, Nitti, che costruirono “il Grande Racconto, contraltare dell’effusione di bastimenti, lacrime, fatiche e struggimenti imbastita dalla retorica popolare” (p.5). Succede. Si fanno meraviglie dell’innovazione tecnologica, è retorica d’obbligo. Oggi naturalmente dell’elettronica, che annulla lo spazio e rimpicciolisce il tempo, sembra anzi annullarlo. Centocinquant’anni fa il vapore e il treno rimpiccolivano per la prima volta lo spazio, avviando mezzo secolo di emigrazione di massa, dall’Europa meridionale e centro-orientale verso le Americhe, e dall’Europa meridionale verso il Centro-Nord europeo. La più grande emigrazione di massa che si ricordi. Le cui motivazioni e i cui effetti restano in larga misura ancora incogniti.
La liberalizzazione, benedetta
Il fascismo truccava i dati, la Repubblica se n’è disinteressata, a parte le lacrime, finte. Le prime pagine Andreina De Clementi deve dedicarle a demolire gli stereotipi. Il “tutto povertà” – “I poverissimi abitanti dei Sassi di Matera furono gli ultimi a mettersi in cammino”. Il “tutto feudo”: “Per tutto il corso dell’Ottocento, la vendita dei beni ecclesiastici e demaniali e l’egualitarismo del sistema successorio introdotto dal Codice piemontese, in rotta di collisione con la crescita demografica, contribuirono l’una alla proliferazione delle microproprietà e l’altro al suo spezzettamento ossessivo dall’una all’altra generazione” (p.14) - ma anche nel Novecento, fino alle “riforme” agrarie degli anni 1950. La “campagna arretrata”, impreparata alla liberalizzazione, allora e sempre benedetta: “Fu come gettare in acqua un neonato un po’ gracile e vederlo più volte sul punto di annegare” (p.15). Si vuole che la liberalizzazione affini e moltiplichi l’industria, mentre favorisce gli speculatori improduttivi, gli importatori: Le industrie più remunerative e diffuse, della seta, del cotone, della lana, del truciolo, furono spazzate vie. Il grano e il vino subirono violenti scossoni: “Nell’ultimo trentennio del secolo, il ferrarese e il ravennate diventarono teatro di un imponente processo di proletarizzazione” (p.16). E siamo solo alla terza pagina.
I numeri e le date dell’emigrazione di massa confermano questi scorci. Parte per primo il Triveneto, per “la grande diffusione della proprietà particellare sempre più sbocconcellata e la rarefazione dell’industria domestica” (p. 18) – partono anche le donne. Il fenomeno si estende presto con la fillossera, certo. Che però è importata dagli Usa in Provenza, e da qui in Italia. E poi, nel 1883, col colera, ma anch’esso importato, da Francia, Austria e Baviera.
Un’analisi più ricca forse perché non pregiudiziata – non ve ne sarebbe motivo tra gli storici, ma i paraocchi sono quasi un attrezzo del mestiere. Si prendano la demografia e il “genere”. Si fanno più matrimoni, più giovanili. I paesi sono rivitalizzati. Le mogli, le madri diventano centri di spesa, per i consumi e anche per gli investimenti familiari. Donne giovani e giovanissime, d’improvviso affrancate, decidono. C’è l’inquietudine e c’è il bisogno, ma altrettanta energia, anzi di più. C’è lo spaesamento ma non lo sradicamento – “Io quando sono qui vorrei essere in America e quando ero in America tutte le notti sognavo la mia casa”, può dire congruamente uno dei tanti “Emigranti” di Perri, del romanzo omonimo. Sullo sfondo, non presa a partito, è la partenza come “lutto” di Ernesto De Martino – o altrimenti dobbiamo dire che abbiamo più vite.
L’emigrazione è un fenomeno frastagliato, scomponibile in molte realtà, che variamente si sovrappongono. Si prenda l’insorgenza mafiosa, naturalmente non esclusa dall’emigrazione, “insulare” e non.  Andreina De Clementi pone “le complicità dei contesti”: “Perché negli Usa proibizionisti degli anni trenta sì, e in Canada o in Australia o in Francia no?” Non è un fatto etnico, i contesti contano. E in molte forme. Proprio in Canada, Australia e Francia si può testimoniare che la mafia si manifestava ancora di recente, ma diverso era l’approccio. Attorno al 1980, a Reggio Calabria, indagando sui rapimenti di persona, il comando dei Carabinieri aveva ricostituito, stante il segreto bancario in Italia, le diversificazioni finanziarie di cui alcuni mafiosi erano già specialisti attraverso i loro contatti in Australia e in Canada – e in almeno un caso, i Pesce di Rosarno, invischiati in altre attività non lecite, in Francia. Una rete dettagliata dei movimenti di denaro con persone e banche della Locride e della Piana di Gioia Tauro era stata ricostruita grazie alle segnalazioni delle polizie di quei tre paesi. Che però si guardavano bene dal farne un fenomeno speciale. Diverso era - è - l’approccio, una sorta di de-insularizzazione del crimine. Non dovendone fare terreno di bagarre politica, l’apparato repressivo di quei paesi non indulgeva in società segrete, cupole, associazioni e concorsi esterni, ritardando di decenni e di generazioni la punizione del crimine, bensì colpiva subito i rei, per reati specifici. Molto più semplice, e anche produttivo.:  
Piccola proprietà, tasse, debiti si mangiano l’accumulazione
Il fatto centrale è il circolo vizioso proprietà-emigrazione. Una sorte di Grande Scoperta, se condurrà, com’è possibile, a individuarvi l’origine vera del ritardo del Sud: l’incapacità di accumulo. Ovvero l’erosione dell’accumulazione primaria per l’offa della proprietà. Una beffa tragica, che molta letteratura ha già rappresentato – ma non la sociologia: dai primi “Emigranti” di Francesco Perri, 1928, alla “Cognizione del dolore” di Gadda, al seminale “Di padre in figlio” di Gay Talese, con gli epigoni italiani (Melania Mazzucco, “Vita”, Mimmo Gangemi, “La signora di Ellis Island”, etc.), e ai “germanesi” di Abate e Behrmann, 1986. Un’idea sbagliata del riscatto produttivo e sociale. Reiterata ancora a metà Novecento, con le ultime “riforme agrarie”. Tutte destinate al fallimento, tra le tasse e i debiti. Dopo aver bruciato i risparmi, rimesse comprese, di milioni di persone. E cioè l’accumulazione primaria che sempre è necessaria a un’economia solida e prospera (autopropulsiva). Nonché milioni di vite di sacrificio, come usava dire, di “promiscuità estreme, solitudini lancinanti” (p.163), di malattie, di soprusi.
C’è un equivoco all’origine dell’emigrazione di massa. Che non è una fuga dalle campagne ma, purtroppo, una fuga per riacquistare le campagne e disperdervi il nuovo capitale. Non si può ridurre naturalmente l’emigrazione a un equivoco. C’entra anche il bisogno. C’entra l’avventura. Per chi ha mezzi intellettuali. Per chi ha o intravede un mercato – il gelataio, l’occhialaio, il decoratore. Ma anche per i più sprovvisti, specie nei decenni e verso le destinazioni che prevedevano un contratto di lavoro e quindi la traversata gratuita.  C’entra anche la semplice curiosità, di chi vuole andare a vedere le meraviglie che si dicono – sono molti milioni anche gli emigrati di ritorno. Ma l’equivoco ha maggiori responsabilità, ed è l’aspetto nocivo della questione: tanti sacrifici per nulla.  
Andreina De Clementi, L’assalto al cielo, Donzelli, pp. 289 € 27

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