lunedì 10 novembre 2014

Il mondo com'è (194)

astolfo

Debito L’economia si direbbe del debito più che del mercato. Dopo trent’anni di “crisi fiscale dello Stato”, teorizzata e combattuta da metà degli anni 1970 dallo schieramento liberista anglosassone, lo stesso ha richiesto e imposto nel 2007-2008 un indebitamento colossale agli Sati, dell’ordine del venti-trenta per cento del pil, per consolidare i mercati finanziari. L’assunzione cioè del rischio, al limite dell’insolvenza, da parte delle finanze pubbliche.
In alcune aree l’indebitamento ha funzionato in questo senso, nell’area del dollaro e della sterlina. Nell’eurozona il consolidamento è sempre a rischio. Anche nel settore bancario, malgrado gli stress test della Bce, dove le debolezze e le quasi insolvenze, specie in Germania, restano sotto traccia o sono mascherate. Ma ovunque l’economia è del debito più che del mercato.

Europa – Coniuga la disintegrazione su base etnica (Jugoslavia, Ucraina, Belgio, Gran Bretagna, Spagna) col massimo di autoritarismo centrale a Bruxelles. E con una immigrazione extraeuropea che in pochi anni è cresciuta al dieci per cento della popolazione  e sarà al venti tra una generazione, per prolificità, ricongiungimenti e flussi migratori. Mentre è al top, ancora, delal classifica della ricchezza mondiale. Una quadruplice contraddizione che non trova ragione plausibile se non quella del cupio dissolvi, del disfacimento, e della confusione, del si salvi chi può. Che intervengono nella storia per pressioni esterne, ma in questo caso no, sono procurati.

Marx - Il problema con Marx è che voleva eliminare il proletariato. Qui si lotta  invece per farlo trionfare. Il proletariato, i servi cioè retribuiti. Per forza che Marx è morto. Uno che peraltro per primo non credeva alle “leggi” dell’economia, che sapeva falsate da autodidatta, e della storia. E la vita spese a costituire la sua fazione, contro ogni altro socialista e comunista prima che contro la polizia segreta prussiana.
Sapeva riconoscere un nemico, questo sì. Per questo eresse un monumento al capitale, con la proposta di arrestare la storia e la filosofia, l’impercettibile ma costante mutamento attraverso cui l’uomo esce dalla sua pelle, con gli amori, il lavoro, la generazione, la convivialità, nell’arte, canti, balli, racconti, silenzi, e negli elementi, la terra, il legno, la pietra, il ferro. Non bisogna equivocare sul Marx borghese, non c’è infamia nel volere il pianoforte per le figlie. Il rifiuto del ruolo, per l’uguaglianza del merito e una vita da vivere a ogni istante, non è la realtà o la contemporaneità, e non è Europa, semmai è America. Tutti nel mondo che Marx conosceva volevano, vorrebbero, una moglie nobile, la ca-sa in Toscana o in Provenza, con contadino, da guardare da lontano come il vecchio feudatario, e i ricevimenti del Gattopardo coi gelati squagliati, il rifiuto della buona borghesia è assillo borghese, un’ideologia.

Si fa presto a dire Marx, ma che rivoluzione ha organizzato, che partito, a parte la rissosa Prima Internazionale, che sindacato? Bisognerà aspettare Lenin per avere una rivoluzione marxista, di borghesi cioè con la classe operaia. I libri e le sue innumerevoli lettere sono frammenti. Il cui filo non può essere la struttura, cioè il potere secondo il Diamat: il lavoro produttivo è sovrastrutturale, un qualsiasi esperto di mercato lo sa. Altrimenti è un comunismo da schiavi: non può “realizzare l’uomo” se elimina ogni spazio comune. Ed è la verità della sua prima rivoluzione, in Russia, paese di servi, e non in Germania, dove c’era la più vasta e organizzata classe operaia e il contesto era maturo, per la crisi del nazionalismo, dell’economia e dell’imperialismo. I lavoratori tedeschi vollero anzi ridare ai borghesi il potere che la guerra perduta aveva loro sottratto. L’astronomo olandese Pannekoek - che ne sapeva più di Lenin, disse lo stesso Lenin - scoprì subito pure perché: in una società integrata, che viene da lontano, egemonie e sudditanze si legano per molti fili, culturali, storici, tribali. Non maturano solo i processi produttivi, di più ma-turano e anzi induriscono le ideologie, e si dovrebbe dire le psicologie.

Spesa pubblica –  Ha funzione anticiclica, specie contro le recessioni? È inutile, e anzi dannosa, specie per l’economia? Se ne dibatte in termini quasi ideologici. I keynesiani, neo e post, i socialisti e una parte dei liberali la dicono necessaria per stimolare la ripersa economica e concorrere ad essa. Molti economisti, alcuni politici e gli affari la contestano come uno spreco.
Si porta la linea Harding, il primo presidente americano liberista, e dei successori fino al crac del 1929, come esemplare della cecità di fronte alla funzione anticrisi della spesa pubblica. Ma lo stesso Harding, pur proibizionista, aveva risolto col liberismo la recessione del 1920. Un anno in cui, con la smobilitazione postbellica,  il pil si era ridotto del 17 per cento e la disoccupazione era passata dal 4 al 12 per cento. Herbert Hoover, segretario all’Industria di Harding, preparò una serie di misure di stimolo. Harding le scartò e tagliò il bilancio federale di quasi la metà. Con riduzioni delle aliquote fiscali per tutte le fasce di reddito, e la riduzione del debito pubblico. Col supporto indiretto della Federal Reserve, che non incrementò l’offerta di moneta. Pochi mesi dopo l’economia era in ripresa. Nel 1922 la disoccupazione si era dimezzata, nel 1923 era scesa a un minimo del 2,3 per cento. Il vice di Harding, Coolidge, e suo successore quello stesso anno, alla morte improvvisa di Harding, accentuò la defiscalizzazione, il rimborso del debito, la riduzione della spesa. Hoover succederà a Coolidge a fine 1928, in tempo per “ereditare” il crac del 1929. Che solitamente viene imputato alle politiche di Harding e Coolidge, alla redistribuzione del reddito che il liberismo aveva operato a favore dei ricchi con una maggiore concentrazione della ricchezza. Ma in realtà il crac del 1929 arrivò al culmine di un trend al rialzo di salari e retribuzioni, pro capite e come quota del reddito nazionale,  e di un trend al ribasso per la quota del reddito che andava a interessi, dividendi, redditi da impresa.

Una sorta di linea Harding-Coolidge si imputa ai governi di Angela Merkel, che terrebbe l’Europa in scacco imponendo la contrazione della spesa pubblica. Un’accusa inconsistente politicamente, dato che i governi Merkel sono di centro-sinistra il primo, di centro-destra il secondo, e ora di nuovo di centro-sinistra, con i socialdemocratici ferventi keynesiani, sostenitori della spesa pubblica. Il caso Merkel, che è politico e non economico, di ricetta economica, impone semmai un affinamento delle opposte linee in riguardo della spesa pubblica - anch’essa per sua natura un fatto politico.  Su due punti: 1) Merkel ha imposto il rigore nella spesa pubblica, ma non in Germania, e ha beneficiato semmai del rigore altrui per ridurre il costo del finanziamento della spesa èubblica tedesca per interessi, mentre dilata la spesa sociale e produttiva; 2) Merkel non ha contestato la spesa pubblica in favore di liberismo totale, per esempio in Grecia, ma l’ha ridotto e centellinata, rendendola esosa più che liberatoria – il “troppo poco, troppo tardi” che le si imputa in Germania non è divisa da intendere più, dopo tanti anni e tanti governi, come un dato caratteriale quanto come una strategia politica. Fermo restando il potere di condizionamento politico della cancelliera, in Germania e in Europa.
atstolfo@antiit.eu

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