Pubblicato nel 1928 e quindi inviso al
fascismo, ma “segato” pure da Gramsci nei “Quaderni” - forse faziosamente - e quindi inviso al
secondo Novecento, è una delle poche opere del secolo breve che reggono alla rilettura.
Tratta anche dell’emigrazione, ma poco, per far maturare gli eventi che
compongono la trama.
È una storia locale, di una comunità
chiusa, ma nient’affatto provinciale. Ariosa anzi, e piena di vita, pur in
mezzo alla povertà, la malattia e la morte. È un racconto unico di vita
contadina. Con una eccezionale, ineguagliata che si ricordi, capacità di far
parlare la natura. Rende vivi e partecipi la terra, gli ulivi, le querce, le
albe, le notti, la rugiada, la pioggia, i venti, le stagioni, la sporcizia
anche e il fango, i frutti, ogni
ortaggio, e all’ora e alla stagione giusta i cardellini, le capinere, l’assiolo,
i tordi, i fringuelli, ogni filo d’erba, ogni goccia d’acqua. Rileggendolo in
questo mezzo autunno di temporali, o bombe d’acqua come si vogliono, tutti i
fenomeni che oggi ingombrano l’informazione come di evento eccezionale si
trovano previsti e descritti in dettaglio in questo che pure è un romanzo, di
quasi un secolo fa, di una piccola e arretrata comunità rurale.
Con la natura si esaltano i destini
della gente che la vive senza storia. Che la vive però intensamente sempre e anche
drammaticamente, alla nascita, alla morte, negli attimi rubati al piacere. Senza
soccombere: i suoi innominati sono legati alla vita, alle abitudini, agli
affetti anche, e alla fede, che è, come deve essere, cieca e assoluta, e ogni
ostacolo soverchia.
Vicino anagraficamente e geograficamente
di Corrado Alvaro - “Pandore”, il luogo del racconto, è Careri, paese natio dell’autore,
sotto il monte Pandore, a pochi minuti da San Luca, il paese di Alvaro - Perri ricrea i suoi luoghi con altrettanta
verità, ma in tutt’altra temperie. Di vita nella morte. Nella fede. Nella procreazione
pure. Nel bicchiere di vino. E nella disgrazia: la bufera, la frana, l’emigrazione.
Senza diventare stereotipi, né i personaggi né le situazioni. Pieni di umori
sempre, vogliosi, reattivi. Tutti caratterizzati e in divenire, seppure su
fondo arcaico.
Un altro Aspromonte, negli stessi
luoghi, paesi, anditi, e con le stesse persone di Corrado Alvaro. Due anni prima di “Gente in Aspromonte”, con
cui Alvaro ne fisserà invece la leggenda nera. Sempre rimanendone angustiato,
se non disgustato, malgrado i vincoli familiari. L’ostracismo a Perri e i suoi “Emigranti”
è per questo due volte censurabile. Che lo stesso San Luca, le sue donne, sa
far rivivere come un altro mondo, la loro parlata trovando armoniosa e
musicale, i loro abiti sgargianti una gioia dell’occhio, i loro sguardi
sfuggenti una sfida. Un mondo dove c’è umanità, e non per obbligo di fede
politica.
La lettura superficialissima di Gramsci
si ferma all’iniziale occupazione delle terre. Di cui non ha colto la natura sinfonica,
introduttiva: a un mondo povero perché incolto, e viceversa, ma non di
intelligenza, e di una sua etica. Dominata dalla fede, cioè da una volontà invincibile,
a qualsiasi avversità. Come poi sarà in questo “romanzo dei poveri”. Non un
romanzo sociale, né politico, se non per poche pagine, stinte per di più nella
storia, la lunga durata. La sottile parodia che sottende l’abborracciata
occupazione è perfino brechtiana in anticipo, una presa di distanza per meglio
mettere a fuoco il chiuso mondo di Pandore. Che si piegherà all’emigrazione, ma
controvoglia e quasi contro natura, per restarne subito contaminato e infetto.
Francesco Perri, Emigranti, Qualecultura-Jaca Book, pp. 248 € 14,50
Nessun commento:
Posta un commento