Juventus-Olympiakos
7-0: google insiste inopportuno (inopportuna?) a proporre il risultato di dieci
anni fa al compulsatore ansioso che segue la partita. Dieci anni? Un mondo fa,
ora la Juventus vince la partita per caso, alla fine, dopo aver dato l’impressione
sempre di averla persa.
Perché
parlarne? Una partita è una partita, cioè niente o poco più. Ma è anche un segno.
Non unico né isolato, si prende Juventus-Olympiakos perché è l’ultima vista.
È la
partita dell’essere contro il non essere. Questo è anzitutto la squadra
italiana. Molle e lenta, sfilacciata, nervosa, senza disciplina. Che perde,
rischia di perdere, da un avversario con un palmarès
modesto, cui dieci anni fa ha rifilato sette gol, un esito quasi da guinness, pagato
oggi un quarto, forse un quinto, del suo monte ingaggi. E che non fa un gioco
trascendentale, anzi da maestro di scuola: squadra compatta, tutti insieme
avanti e indietro, su una fascia di una ventina di metri, dove si corre di meno
e si produce di più. Reattiva sempre.
Il
non essere riflette forse Torino. I calciatori della Juventus si muovono come
uscendo dal bar Sport di una qualsiasi città di provincia. Torino non è più
centrale. Da capitale dell’economia, della tecnologia, dell’industria, dei
servizi, della finanza, e in buona misura anche della politica, fino a un paio
di decenni fa, è ora una città provincia, coi numeri, e i sensi, dello
svuotamento.
E
questo è, la partita è anche un segno più profondo. L’Olympiakos è squadra
greca, di un Paese disastrato ma combattivo. La Juventus è molle come l’Italia
nella crisi. L’inerzia, il fatalismo, e l’orticello privato, privatissimo, di
ogni atleta che pensa al suo contratto – i calciatori in Italia sono i più
pagati, dopo quelli che giocano in Inghilterra. Che sono i segni della
depressione, economica e individuale. E anche i segni della decadenza storica,
ha stabilito Santo Mazzarino, lo studioso del fenomeno nell’antichità classica.
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