Il film, rivisto, è
sempre una storia d’amore finita male – la storia del primo amore, della
iniziazione. E una lettura ammodernata di Marivaux, che in altri film il
regista tunisino si è divertito a rileggere, qui della “Vita di Marianna”. Verbale,
come il modello, ma anche fisica: una rappresentazione di voracità, di cibo,
baci, masturbazioni, accoppiamenti dettagliati e prolungati. Senza i quali
probabilmente, dimezzandone le tre ore, il racconto avrebbe ugualmente retto,
se non meglio. Se non che per questo, forse, è stato celebrato e premiato a
Cannes. È anche, come gli altri flm di Khechiche, prepotentemente pittorico. La
copia è curiosamente assortita al celebre foto ritratto di Man Ray, 1936,
“Nusch Éluard e SoniaMossé”, la bella donna confidente e l’artista volitiva.
Come nella copia del film. La nuova impressione è di un singolare flop, quasi un autogol, nel suo assunto
principale: la rivendicazione della normalità omosessuale.
Il film ne è anche un
manifesto, nei dialoghi e nelle insistite scene di sesso. Da film-verità. Ma su
questo aspetto cozza con se stesso: la storia è un lungo, lento, perciò più
crudele, benché senza coltello, caso di femminicidio tra femmine. Una delle
quali è riservata, sfruttatrice, cattivissima.
Il rapporto è intenso e
breve. Si consuma al suo proprio calore, si sarebbe detto delle vecchie storie.
Adele è una quindicenne, curiosa, anche assetata d’amore. Solo che qui l’esito
si anticipa, nell’egotismo assoluto dell’artista che la seduce. Una ingorda
avara. La usa, anche come modello, di cui si farà un successo, e la scarica,
con durezza. Maschilista pure nella violenza. Quasi che il ruolo fosse
ineliminabile, del maschio eterosessuale, anche senza l’organo. Una virago – vir-ago - appena dissimulata nella foja
L’autogol – o è un gol?
– è anzi doppio. Una forte misoginia la rappresentazione istiga, la donna
trasponendo da madre divorante in compagna divorante.
Abdellatif Khechiche, La vita di Adele
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