Un caso peculiare
del racconto che crea la realtà: l’Aspromonte è vittima consenziente e quasi
goduriosa del titolo che lo celebra. Cupo, afflittivo. Quasi verista in ritardo
– e fuori delle corde di Alvaro. Si è imposto come un reportage, e come tale si
rilegge – anche se solo nelle scuole. Creando una immarcescibile leggenda nera
dell’Aspromonte, montagna gentile.
Ha
segnato la narrativa meridionale, il genere se non sono brutti e sporchi non li
vogliamo: i Rea, Scotellaro, Nigro, Jovine, Strati, molta Sardegna, lo stesso
Silone come Alvaro cosmopolita. E molta narrativa post neo realista, Morante,
Parise. Si fosse fermato a questi racconti, Alvaro sarebbe peraltro “l’eterno
esule” che diceva Pampaloni. Tanto più per identificarsi, nel mezzo del
racconto-romanzo del titolo della raccolta, nell’allievo del san Giuseppe de Merode,
benché rifiutato dall’istituzione: il buon borghese del Risorgimento e l’Italia
unita. Con la deprecazione d’uso: “In questo paese anche la pioggia è nemica”, “È una civiltà che scompare, e su di essa non
c’è da piangere”. Tanto più, ancora, per essere forte scrittore. Ma, allora,
uno che fa torto a se stesso, poiché ha altre frecce al suo arco.
“Gente in Aspromonte”, prima di diventare il
marchio d’infamia della montagna, era stato un grazioso elzeviro, il primo di
Corrado Alvaro sulla “Stampa”, il 14 gennaio 1927, più in armonia con la natura
dell’Aspromonte: un eremita e il suo aiutante sono beneficiari e vittime, con
la forte ironia dei luoghi, dei portenti che promettono e non sanno produrre
Corrado
Alvaro, Gente in Aspromonte
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