giovedì 20 novembre 2014

La via di fuga non è Keynes

Il punto più drammatico è quando il Renzo Fubini del titolo, prozio dell’autore, giovane, brillante economista, viene attirato fuori casa in valle d’Aosta con un trucco dalla polizia fascista, a fine 1944, a guerra finita, sulla base di un anonimo che lo denuncia in quanto ebreo, e deportato a Auschwitz, in tempo per morirvi quando l’Armata Rossa liberatrice era alle porte. Ma non lo è, anche qui Fubini crea un anticlimax: ciò che gli interessa è ragionare. Su questo come sugli altri reportages che si intrecciano: i sinti dei cinque palazzoni sventrati di Catanzaro che rispondono allo stesso numero civico, vile Isonzo 222, massa di manovra elettorale decisiva, a 50 euro a crocetta; i nazionalisti razzisti greci di Alba Dorata, una sorta di Nuova Europa, a Nicea, il posto del concilio, dove il capotribù, pittore fallito come Hitler, conciona contro il complotto ebraico e regala un trancio di tonno a famiglia; il monetarismo tra le due guerre, nell’analisi di Albert O. Hirschmann, studente a Trieste di Renzo Fubini, e quindi si presume dello stesso Fubini. Anzi, non gli interessa nemmeno ragionare, ma esporre e far agire i pezzi del puzzle o i lego della costruzione disastrosa che tutti sanno, tutti vedono, e nessuno previene o corregge, allora come oggi. Come se la via di fuga in realtà non esistesse, le catastrofi fossero ineluttabili anche se annunciate. 
È più, di fatto, una “storia” della crisi. Una storia che Fubini vuole interessante per il dibattito economico che sottende. Anche perché Einaudi non protesse il suo allievo - non lo avvertì, è stato detto, del pericolo imminente - ma questo Federico Fubini non lo dice, e Renzo sicuramente non lo pensava, anche perché sapeva bene da solo cosa succedeva. La “storia” è più dei Fubini economisti, testimoni della crisi. Quella che Renzo sperimentò e studiò in America, dove si trovava nei primi anni 1930 con una borsa della Rockefeller Foundation, inviato da Einaudi, e quella di oggi, esplosa con la Grecia. Federico Fubini la rintraccia da giornalista economico, ma più attento alle dinamiche politiche e sociali che alle questioni di potere, politico, manageriale o accademico. Con molte pagine sul keynesismo contro il liberalismo – anche se Keynes si voleva liberale.
Non ce ne sarebbe materia: Renzo Fubini, a quel che si deduce, non è Hirschmann, e non era contro Einaudi. E i mezzi migliori per uscire dalla crisi sono sicuramente dell’uno e dell’altro tipo, keynesiani (spesa pubblica) e liberali. Renzo Fubini negli Usa senz’altro lo avrà saputo. La discussione è piuttosto un segno di vivenza nell’apatia che sta sommergendo l’Italia e l’Europa. La crisi del 1920 fu vinta con una politica ultraliberale. Alla crisi successiva al crac del 1929  si rimediò anche con misure di spesa pubblica – compresa la vantata Tennesseee Valley Authority, molto famosa in Italia per via della Cassa del Mezzogiorno che vi fu modellata, che però ebbe un ruolo ritardato nel tempo e marginale, limitato territorialmente. Ma il liberismo ha avuto miglior effetto del keynesismo, andrebbe aggiunto.
Il crac del 1920 fu vinto in pochi mesi, già l’anno successivo l’economia Usa galoppava. La grande depressione degli anni 1930 si segnala invece non tanto per la profondità del punto di crisi quanto per la lentezza con cui gli Usa recuperarono, per il misto di misure liberali-statali con cui se ne tentò la soluzione. Per un più di democrazia, o di malintesa giustizia sociale. Nel 1929, alla vigilia del crac, la quota di ricchezza dei più ricchi si era notevolmente ristretta rispetto al 1920, benché in un mercato liberista. E si può continuare col crac del 2007, che gli Usa hanno riassorbito prontamente con la nazionalizzazione-privatizzazione delle banche, a costo quasi zero per le stesse banche - un enorme indebitamento pubblico, sui trenta punti di pil, a favore del mercato. Con l’effetto di dimezzare subito la disoccupazione.
Più interessante è, in filigrana sul racconto di Federico Fubini, il ruolo dei due liberalismi, quello ortodosso di von Hajek-Einaudi e quello di Keynes, in rispetto alla libertà. O al totalitarismo. Su cui, anche qui, qualcosa va aggiunto. La colpa di Einaudi sarebbe stata in realtà di essere rimasto “ancorato alla visione classica di von Hajek”, in pace e in guerra. Ma in guerra von Hajek fu personalmente attivo contro il totalitarismo come e più di Keynes. Mentre in pace è dubbio che sia stato il keynesismo l’antidoto alla grande depressione, se non appunto per il ruolo, limitato, della Tennesseee Valley Authority. Lo stesso Keynes lo dice.
Nella prefazione all’edizione tedesca, datata 7 settembre 1936, Keynes presenta la “teoria generale” come un rivolgimento da lui attuato rispetto ai principi dell’economia classica, fino ad Alfred Marshall, di cui era stato allievo e aveva praticato per anni la dottrina. E lamenta di essere per questo poco seguito o capito nelle economie classiche “di libera concorrenza e di prevalente laissez-faire”. In Germania invece si aspetta di più. Un paese i cui economisti, scrive, sono sempre stati critici rispetto all’adeguatezza della teoria classica al mondo contemporaneo. Ma senza trovare una teoria alternativa. Quella che più avrebbe potuto riempire il vuoto, del Wicksell, continua Keynes, era piuttosto seguita dagli studiosi di Svezia e Austria, e “questi ultimi integravano le sue idee con la teoria tipicamente austriaca, in modo da ravvicinarla alla tradizione classica”, ricardiana. Keynes ritiene improbo il compito di “superare l’agnosticismo economico tedesco”. Persuadere gli economisti tedeschi che “i metodi di analisi formali” possono contribuire all’economia di fatto, contemporanea. Ma, si dice ,”dopotutto, l’amore della teoria è tipicamente tedesco”, e dunque confida. Un ultimo ostacolo è che la teoria generale è costruita su casi, esempi e bibliografia “principalmente con riferimento alla condizioni esistenti nei paesi anglosassoni”. Ma non dispera: “Cionondimeno, la teoria complessiva della produzione, che questo libro si propone di offrire, si adatta assai più facilmente alle condizioni di uno Stato totalitario di quanto lo sia la teoria della produzione e della distribuzione di un volume dato di produzione, ottenuta in condizione di libera concorrenza e di prevalente laissez-faire”.
Federico Fubini, La via di fuga. Storia di Renzo fubini, Mondadori, pp. 221 € 17,50

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