Dante – Dante e Shakespeare, il parallelo
lo tenta Prezzolini, “L’Italia finisce”, al § “L’antitaliano”. Per dire Shakespeare
un meridionale, a differenza di Dante. Era l’identità che a Shakespeare
mancava, e se non altro per questo il parallelo è degno di nota. Ma non sarà un
titolo alla Croce, che spesso, per ragioni editoriali, metteva assieme autori estranei?
Dante antitaliano era già tema di
Papini – come anche il contrario: Dante troppo italiano – litigioso,
individualista, vendicativo..
Landolfi ne fa il (suo) capro
espiatorio, nelle poesie della morte (“Il tradimento): ““Il giorno che dovrai dire:\
«Dante, non ho la tua forza»\ Sarà il giorno più triste\ Dell’anima tua. Non si
può partire\ Se non certi di superare\ Il maggiore che ci viene innanzi”. Una
sfida masochista?
Freud
- Ebbe una figlia
bellissima, Anna, e la tenne chiusa in casa. La figlia amava le donne, e Freud
non lo seppe mai. Anna si portò in casa l’amica del cuore, che era la casa di
Freud. Una vita a tre di cui Freud non si accorgeva, a Vienna e a Londra. Anna
tenne in terapia il figlio dell’amica per 45 anni.
Italia – Si vuole
adesso, segno dei tempi?, da più parti non esistita. Nemmeno in letteratura,
che non costa nulla. Ma non converrebbe meglio dirne – depressione per
depressione – la letteratura vittima? Vincenzo da Filicaja, nobile arcade fiorentino,
che le dedicò più sonetti, nel sonetto LXXXVII, il più famoso, ne ha una sorta
di porta sfiga: “Italia, Italia, o tu cui feo la Sorte\ Dono
infelice di bellezza, onde hai\ Funesta dote d’infiniti guai\ Che in fronte
scritti per gran doglia porte”. E sempre in armi, seppure di difesa, come ora
vuole Mameli: “T’amasse men chi del tuo bello ai rai\ Par che si strugga, e pur
ti sfida a morte!” Mentre gli italiani proprio farebbero a meno di sfidare, ed
essere sfidati. Il problema dell’Italia non saranno i suoi poeti, tutti gente
ovviamente in pantofoe?
Marx – “Appena Marx ebbe chiara coscienza del proprio
sistema”, dice Rosenberg l’antichista, comunista senza
partito, “dovette cercare gli operai”. Al British Museum non ce n’erano, e Marx
non ha mai frequentato
un solo operaio. Gli stessi comunisti egli disprezzava
eccetto Engels. Di cui è nota l’opinione sui partiti: “Che
importa a noi, che sulla popolarità ci sputiamo, e che perdiamo la testa appena
cominciamo a diventare popolari, di un partito, cioè di un branco d’asini che
giurano nel nostro nome perché ci credono loro pari?” Incoercibili
politicanti in realtà entrambi. .
Si vuole da qualche tempo liberale, per liberarlo dal marxismo. Ma cristiano
sarebbe più giusto. Alcuni
pensano, diceva Lévi-Strauss, che il marxismo è una furbata in forma di ragione
per occidentalizzare il mondo: non è vero, ed è vero. “Marxismo o rivoluzione?”
titolava Massimo Scaligero nel 1968. Non per ridere, non per la “colonizzazione
dialettica” che si faceva in Cina, né per il “conservatorismo di sinistra” di
Togliatti. Rivoluzione è il cristianesimo, si sa, il
messianesimo compiuto – gli ebrei se ne distinguono perché non credono in realtà
al messia, non ne vorrebbero uno. Un messianesimo che parte da Treviri, la
Terza Roma, invece che da Gerusalemme. La
guerra che Cristo ha portato dicendo il dovere del paradiso in terra.
Più di
Cristo Marx è vantone, vuole guerre, come se le avesse vinte in partenza,
propone miracoli, e dà la certezza della salvezza. Anche se è più tollerante,
un Cristo laico. Ma il Diamat lo ha crocefisso, e senza resurrezione, lo tiene
lì in croce.
Liberale anche, perché no. Oltre che grande
borghese, inconsapevole. Snobbò Eugène
Sue, “piccolo borghese sentimentale, socialista della fantasia”, candidato dai
socialisti “per far piacere alle grisettes”, perché era liberale. Chiudendo il “Manifesto”, alla vigilia
del ‘48, offre un’alleanza ai borghesi, l’alleanza dei produttori, roba da
Saint-Simon. La “Neue Rheinische
Zeitung” non spiacque ai
borghesi renani, il suo giornale, nell’intento che ritenevano condiviso di
sottrarsi al Congresso di Vienna di Metternich, che li aveva annessi alla
Prussia.
Voleva il pianoforte per le figlie, e un buon
matrimonio, ma non c’è infamia in questo. Marx era superbo, in questo è reo. Ironico:
per un Witz avrebbe dato il “Capitale”. In tutti i rapporti,
anche familiari, il criterio della verità diventa per lui distacco critico: io
e gli altri. È la forma più esasperata di egotismo, limitare alla misantropia,
il fastidio dell’umana imperfezione.
L’ironia è il suo lato simpatico, oltre che una
grande dote conoscitiva, socratica. Ma è il virus che ne mina la dottrina. Il
cristiano si riscatta al confessionale, per quanto ipocrita possa la sua
confessione essere, il comunista non può pentirsi mai. Pena
l’ipocrisia, che è malvagia. Inoltre, ironizzare porta all’insensibilità, non a
più conoscenza. Attraverso lancinanti ulcere o gialle epatopatie - soffriva
Marx di fegato? Nabokov lo vede in aspetto di “traballante e bisbetico borghese
in calzoni a quadretti di epoca vittoriana”, il cui “cupo Capitale è “figlio
dell’insonnia e dell’emicrania” – ma Nabokov ne condivide il sarcasmo, con
punte snob perfino più acute, anche se non sembra possibile. Come l’altro monopolista Freud, che molta buona psicologia ha
oscurato, Marx ha per questo vezzo cassato molto socialismo, alle sue radici:
la compassione.
Marx voleva un’altra cosa, e lo disse subito, stabilendo nella “Miseria
della filosofia” che cosa non andava. Non era contro i borghesi per i
proletari. Cioè sì, ma contro la stupidità di chi vuole produrre la ricchezza a
mezzo della miseria, dei proletari e sua. “Negli stessi rapporti entro i quali
si produce la ricchezza si produce altresì la miseria”, a opera degli stessi:
“Questi rapporti producono la ricchezza borghese, ossia la ricchezza della
classe borghese, solo a patto di annientare continuamente la ricchezza dei
membri che integrano questa classe, e a patto di dar vita a un proletariato
sempre crescente”. Grandi palle alzava Marx ai borghesi intelligenti, anche
solo poco. A Ford, per dire, quand’era sobrio dall’antisemitismo. E non si può
fargliene una colpa. Il gregge è il corpo del pastore, ne è l’estensione,
il formicaio lo è delle formiche, l’alveare delle api: ne estende il corpo e la
mente, per i pascoli e oltre, nella lunga giornata senza tempo, nella transumanza.
La fabbrica lo è dell’operaio, l’azienda dell’impiegato, il lavoro del
lavoratore. È una condizione antropologica, non una classe. Marx non lo sapeva
perché non lavorava.
Riso – Prezzolini (“L’Italia
finisce”, p. 67) opina che sia diabolico: “Un santo può sorridere ma il riso si
addice solo al diavolo”. Di intelligenza
senza compassione, “in contrasto col Cristianesimo”. Nel quale, è vero, non si
ride mai, dal Vangelo in poi.
Romanzo familiare -
È genere letterario dominante ora che la famiglia è in disuso.
letterauotre@antiit.eu
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