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giovedì 6 novembre 2014

Letture - 191

letterautore

Dante – Dante e Shakespeare, il parallelo lo tenta Prezzolini, “L’Italia finisce”, al § “L’antitaliano”. Per dire Shakespeare un meridionale, a differenza di Dante. Era l’identità che a Shakespeare mancava, e se non altro per questo il parallelo è degno di nota. Ma non sarà un titolo alla Croce, che spesso, per ragioni editoriali, metteva assieme autori estranei?
Dante antitaliano era già tema di Papini – come anche il contrario: Dante troppo italiano – litigioso, individualista, vendicativo..

Landolfi ne fa il (suo) capro espiatorio, nelle poesie della morte (“Il tradimento): ““Il giorno che dovrai dire:\ «Dante, non ho la tua forza»\ Sarà il giorno più triste\ Dell’anima tua. Non si può partire\ Se non certi di superare\ Il maggiore che ci viene innanzi”. Una sfida masochista?

Freud - Ebbe una figlia bellissima, Anna, e la tenne chiusa in casa. La figlia amava le donne, e Freud non lo seppe mai. Anna si portò in casa l’amica del cuore, che era la casa di Freud. Una vita a tre di cui Freud non si accorgeva, a Vienna e a Londra. Anna tenne in terapia il figlio dell’amica per 45 anni. 

Italia – Si vuole adesso, segno dei tempi?, da più parti non esistita. Nemmeno in letteratura, che non costa nulla. Ma non converrebbe meglio dirne – depressione per depressione – la letteratura vittima? Vincenzo da Filicaja, nobile arcade fiorentino, che le dedicò più sonetti, nel sonetto LXXXVII, il più famoso, ne ha una sorta di porta sfiga: “Italia, Italia, o tu cui feo la Sorte\ Dono infelice di bellezza, onde hai\ Funesta dote d’infiniti guai\ Che in fronte scritti per gran doglia porte”. E sempre in armi, seppure di difesa, come ora vuole Mameli: “T’amasse men chi del tuo bello ai rai\ Par che si strugga, e pur ti sfida a morte!” Mentre gli italiani proprio farebbero a meno di sfidare, ed essere sfidati. Il problema dell’Italia non saranno i suoi poeti, tutti gente ovviamente in pantofoe?

Marx“Appena Marx ebbe chiara coscienza del proprio sistema”, dice Rosenberg l’antichista, comunista senza partito, “dovette cercare gli operai”. Al British Museum non ce n’erano, e Marx non ha mai frequentato un solo operaio. Gli stessi comunisti egli disprezzava eccetto Engels. Di cui è nota l’opinione sui partiti: “Che importa a noi, che sulla popolarità ci sputiamo, e che perdiamo la testa appena cominciamo a diventare popolari, di un partito, cioè di un branco d’asini che giurano nel nostro nome perché ci credono loro pari?” Incoercibili politicanti in realtà entrambi. .

Si vuole da qualche tempo liberale, per liberarlo dal marxismo. Ma cristiano sarebbe più giusto. Alcuni pensano, diceva Lévi-Strauss, che il marxismo è una furbata in forma di ragione per occidentalizzare il mondo: non è vero, ed è vero. “Marxismo o rivoluzione?” titolava Massimo Scaligero nel 1968. Non per ridere, non per la “colonizzazione dialettica” che si faceva in Cina, né per il “conservatorismo di sinistra” di Togliatti. Rivoluzione è il cristianesimo, si sa, il messianesimo compiuto – gli ebrei se ne distinguono perché non credono in realtà al messia, non ne vorrebbero uno. Un messianesimo che parte da Treviri, la Terza Roma, invece che da Gerusalemme. La guerra che Cristo ha portato dicendo il dovere del paradiso in terra.
Più di Cristo Marx è vantone, vuole guerre, come se le avesse vinte in partenza, propone miracoli, e dà la certezza della salvezza. Anche se è più tollerante, un Cristo laico. Ma il Diamat lo ha crocefisso, e senza resurrezione, lo tiene lì in croce.

Liberale anche, perché no. Oltre che grande borghese, inconsapevole. Snobbò Eugène Sue, “piccolo borghese sentimentale, socialista della fantasia”, candidato dai socialisti “per far piacere alle grisettes”, perché era liberale. Chiudendo il Manifesto, alla vigilia del ‘48, offre un’alleanza ai borghesi, l’alleanza dei produttori, roba da Saint-Simon. La Neue Rheinische Zeitung non spiacque ai borghesi renani, il suo giornale, nell’intento che ritenevano condiviso di sottrarsi al Congresso di Vienna di Metternich, che li aveva annessi alla Prussia.

Voleva il pianoforte per le figlie, e un buon matrimonio, ma non c’è infamia in questo. Marx era superbo, in questo è reo. Ironico: per un Witz avrebbe dato il “Capitale”. In tutti i rapporti, anche familiari, il criterio della verità diventa per lui distacco critico: io e gli altri. È la forma più esasperata di egotismo, limitare alla misantropia, il fastidio dell’umana imperfezione.
L’ironia è il suo lato simpatico, oltre che una grande dote conoscitiva, socratica. Ma è il virus che ne mina la dottrina. Il cristiano si riscatta al confessionale, per quanto ipocrita possa la sua confessione essere, il comunista non può pentirsi mai. Pena l’ipocrisia, che è malvagia. Inoltre, ironizzare porta all’insensibilità, non a più conoscenza. Attraverso lancinanti ulcere o gialle epatopatie - soffriva Marx di fegato? Nabokov lo vede in aspetto di “traballante e bisbetico borghese in calzoni a quadretti di epoca vittoriana”, il cui “cupo Capitale è “figlio dell’insonnia e dell’emicrania” – ma Nabokov ne condivide il sarcasmo, con punte snob perfino più acute, anche se non sembra possibile. Come l’altro monopolista Freud, che molta buona psicologia ha oscurato, Marx ha per questo vezzo cassato molto socialismo, alle sue radici: la compassione.

Marx voleva un’altra cosa, e lo disse subito, stabilendo nella “Miseria della filosofia” che cosa non andava. Non era contro i borghesi per i proletari. Cioè sì, ma contro la stupidità di chi vuole produrre la ricchezza a mezzo della miseria, dei proletari e sua. “Negli stessi rapporti entro i quali si produce la ricchezza si produce altresì la miseria”, a opera degli stessi: “Questi rapporti producono la ricchezza borghese, ossia la ricchezza della classe borghese, solo a patto di annientare continuamente la ricchezza dei membri che integrano questa classe, e a patto di dar vita a un proletariato sempre crescente”. Grandi palle alzava Marx ai borghesi intelligenti, anche solo poco. A Ford, per dire, quand’era sobrio dall’antisemitismo. E non si può fargliene una colpa. Il gregge è il corpo del pastore, ne è l’estensione, il formicaio lo è delle formiche, l’alveare delle api: ne estende il corpo e la mente, per i pascoli e oltre, nella lunga giornata senza tempo, nella transumanza. La fabbrica lo è dell’operaio, l’azienda dell’impiegato, il lavoro del lavoratore. È una condizione antropologica, non una classe. Marx non lo sapeva perché non lavorava.

Riso – Prezzolini (“L’Italia finisce”, p. 67) opina che sia diabolico: “Un santo può sorridere ma il riso si addice solo al diavolo”.  Di intelligenza senza compassione, “in contrasto col Cristianesimo”. Nel quale, è vero, non si ride mai, dal Vangelo in poi.

Romanzo familiare - È genere letterario dominante ora che la famiglia è in disuso.

letterauotre@antiit.eu

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