O del non poter morire: il tradimento di
queste poesie è il non poter morire. Da giuda della morte - o della vita? Oggi il
caso non si porrebbe, con la buona morte che tutti sono disposti a dare.
Non è per mancare di rispetto. Ma questo
tradimento, non potendo divertire, è pur sempre questione di morte, lascia
freddi. Landolfi ne fa un dramma, per sputare un po’ del veleno che lo ammorba.
E lo spurgo è notevole: una poesia scandisce da refoulé, un po’ fallito un po’ rifiutato, incattivito. Contro la possibilità di vivere naturalmente. Contro
gli affetti, si presume: “Seconda malvagità: matrimonio,\ Vita sordida,
mestruata,\ Che d’ogni regina fai serva,\ D’ogni sognata immagine terrore\ D’ogni
voce rimbombo d’ignominia\ e oltraggio…”.
Poesia eloquente, benché di scrittore
emblema dell’ermetismo, e perfino sentenziosa. Risentita: “Nulla finisce, o nulla\
Comincia, alla morte ormai: \ La morte è solo un caso\ D’una trama più vasta”.
Ma tra le agudezas: “È tanto velenosa\
Che mena a morte, la vita”. E disperatamente lieve, quando sembrerebbe tutto
detto: “Ahimé nell’universo\ Non ha luogo la morte, ora ben vedo:\ L’odiosa
vita regna in ogni dove\... All’esser nato non è più riparo”.
Si prenda più: cioè storicamente, a un dato momento, nella malattia? No sempre,
è condizione metafisica. La Struldbrugness,
l’immortalità gulliveriana, è il bersaglio. Di uno forse incontentabile: “Il
giorno che dovrai dire:\ «Dante, non ho la tua forza»\ Sarà il giorno più
triste\ Dell’anima tua”. Non persuasivo, come commuoversi? Suona falso anche il
seguito: “Non si può partire\ Se non certi di superare\ Il maggiore che ci
viene innanzi”. Partire si può sempre, come no. Certo non con la certezza – che
partire altrimenti sarebbe? E cos’è l’obbligo di superare? E come: a passo di marcia,
di corsa, di ambio, saltando, ruzzoloni?
Si rileggono queste raccolte di versi di
Landolfi con un triplice effetto. Che la sua vena sia poetica, lancinante, più
che prosaica. Ma irrisolta: tutto ciò che di promettente se ne leggeva in vita,
si accresce sempre incerto a distanza. Come di una promessa non mantenuta,
anche ambigua volutamente. Come di uno scrittore controvoglia, mentre la
scrittura è esercizio e applicazione, e volontà determinata. E che il tratto
villoniano, maledetto, qui dominante come nella precedente più famosa raccolta,
“Viola di morte”, sia posticcio. Di un Landolfi sofferente, e in lite col
mondo, ma sempre presente a se stesso: “Nulla finisce, o nulla\ Comincia, colla
morte ormai:\ La morte è solo un caso\ D’una trama più vasta”. E le tre
impressioni combaciano.
Il
disagio dev’essere stato forte, di solitudine e radicale misoginia, quand’anche
la si ipotizzasse indotta. “Per tutto è rima\ se ben guardi” e questo è il
problema – per rima, nel componimento, uno dei pochi titolati, intendendosi la “fenditura”
femminile: “Se al luogo ove tu rechi\ una fessura ignominiosa\ Avessi a mo’ di
statua greca\ Compatto delta”, la cosa si risolverebbe. Ma non è satira. Epperò
nemmeno sventura – le due raccolte sono state organizzate dai familiari. È un
disagio di vivere acquisito, contingente. Di maledettismo dannunziano, senza
gli orpelli.
Tommaso Landolfi, Il tradimento, Adelphi, pp. 156 € 16
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