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sabato 20 dicembre 2014

A Sud del Sud – il Sud visto da sotto (230)

Giuseppe Leuzzi

La mafia dei Parioli
Nell’operazione Roma Mafia si confondono i ruoli. Per primo quello tra cittadini e malfattori.
La mafia, ognuno lo vede, è negli uffici capitolini, dove i concussori e i corruttori sono diffusi. Non con la violenza, ma col potere di decidere della spesa pubblica – la spesa sociale, che lo Stato (amministrazione centrale, Regioni, Comuni) non sa gestire in proprio e dà in appalto: immigrati, tossicodipendenti, rom, senzatetto, ex carcerati, carcerati, malati psichici. È per loro che, fra le tante, la cooperativa 29 giugno è stata fondata da Di Liegro (Caritas) e Laura Ingrao, col doppio obiettivo di assistere i deboli e reinserire al lavoro i detenuti. Ma non c’è altro criterio per l’appalto pubblico, anche piccolo e piccolissimo, che le “utilità”: tangenti, regali, comodati, assunzioni. Gli ex carcerati che sanno come barcamenarsi in questa mafia, indenni e anzi con qualche vantaggio, sarebbero da considerare imprenditori capaci.
È invalso invece l’uso sbirresco di confondere i ruoli: le vittime di mafia trasformare in concorrenti esterni e perfino associati, comunque farne dei mafiosi. È una confusione che viene comoda agli inquirenti, sia agenti che giudici, per accrescere i volumi. Più persone si denunziano maggiore sarebbe l’efficienza dei militari. Più si estende il volume degli affari inquisiti, migliore è la tardiva opportunistica coscienza classista dei Procuratori – che rischiano ora però di non diventare senatori: è per questo che ce l’hanno con Renzi?
Confusa anch’essa, ma solo in apparenza, è la ricezione. Non tanto tra fascisti e no, come dicono i giornali, che invece non esiste. Ma tra indignati e apatici, o perplessi. Vivace ai Parioli, indifferente nelle periferie, che normalmente sono il teatro delle turpi gesta, e nella città di mezzo. Risentita è l’indignazione ai Parioli dove tutti i protagonisti vivono e bazzicano: corrotti, croniste giudiziarie, direttori dei giornali, avvocati, ufficiali dei Carabinieri, e gli stessi ex carcerati che si vogliono protagonisti del malaffare. Nelle radio, in tv e sui giornali, con dichiarazioni e lettere. Nessuno si sente invece defraudato nelle periferie, dove non c’è la buona coscienza da inalberare, e anzi i collettori facevano affluire belle risorse, con le famose cooperative, in salari, servizi, forniture.
Una parentesi è utile. Andreotti vinse le politiche del 1983 anche a Roma, città governata da sindaci comunisti popolarissimi presso i media, Petroselli e Vetere, e poi anche le comunali del 1985, con le cooperative. Aveva favorito l’insediamento nella capitale (università, ospedali) delle cooperative di servizi della Compagnia delle Opere di Comunione e Liberazione, per crearsi una base partitica anche a Nord. Il suo fidato Sbardella le introdusse poi nelle periferie, per “dare lavoro” come diceva orgoglioso, e lì vinse le elezioni: le urne delle sezioni elettorali si aprirono con grande sorpresa. La Lega delle cooperative tentò successivamente il recupero aprendosi agli emarginati: ex carcerati,  tossicodipendenti, ragazze madri, gli ultimi delle allora liste di collocamento.
La confusione è solo apparente perché da un venticinquennio, dalla prima giunta Rutelli, l’unica forma di impegno politico che si pratica, a sinistra a Roma, è il benpensantismo. Dei Parioli, perché è lì che vive e prospera il partito degli Architetti e degli Ingeneri, che ora si scontra con quello povero degli ex carcerati, concorrenti per gli appalti pubblici. Il problema reale è: chi ha defraudato i Parioli e di che.
L’indignazione per questo è grande. Con la voluttà di dirsi antifascisti, ai Parioli, contro i proletari della Lega delle cooperative. E contro i ladri, anche se segretari di Veltroni e onorevoli del Pd.

La processione
In una delle lettere al domenicano padre Perrin, una sorta di padre spirituale dei suoi ultimi mesi, nel 1942, a guerra perduta, e con essa la speranza, Simone Weil si consola col ricordo delle prime “esperienze” religiose, di contatto col cristianesimo. La prima fu una processione di paese, uno qualunque che non nomina, nel corso di una vacanza coi genitori in Portogallo nel 1935:  “Era al bordo del mare. Le donne dei pescatori facevano il giro delle barche, in processione, portando dei ceri, e cantavano dei canti certamente molto antichi, di una tristezza straziante”.
La conclusione non è edificante - non lo sembra: “Là ho avuto d’improvviso la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che degli schiavi non possono non aderirvi, e io tra gli altri”. Ma è solo un modo di dire, della religione come la intendeva la filosofa – del Cristo come servitore. I vescovi che le hanno proibite hanno confuso il tipo di servitù?

Sicilia
È stata a lungo luogo di piaceri, e lo è tuttora. A lungo di piaceri anche proibiti, a Taormina e altrove. Nadia Fusini lo documenta su “Repubblica” giovedì, pubblicando una lettera finora inedita di Wilde all’amico e complice Robert Ross - il “San Roberto tentatore” dello scrittore, che da lui fresco diciassettenne era stato indotto a provare a trentadue anni i piaceri omosessuali. Wilde è reduce dal carcere, dopo la condanna per sodomia, e in teoria impoverito, ma a Palermo è felice spendaccione: riempie di mance i ragazzini che gli fanno da vetturino, e un seminarista quindicenne, che sorprende “ogni giorno” dietro l’altare maggiore.

È tuttora luogo di molti piaceri: della cucina, dei dolci, dell’accoglienza, da qualche anno anche dei vini, che non sapeva di avere. Dei mari e dei monti. Della protezione e dell’uso dei beni culturali. Ma più di tutto ama parlare male di se stessa. È pettegola? È forse per questo che si trova bene a Milano.

Oscar Wilde le attribuisce la commedia (“Il ritratto di Mr.W.H.”): “Il riso leggero della Commedia, con la sua gaiezza spensierata e le sue repliche vivaci, non è nato sulle labbra dei vignaiuoli siciliani?”

Il senatore Schifani a Palermo è scagionato dai giudici e dalla stessa Procura inquirente, dopo quindici anni, da ogni sospetto di mafia. Senza scuse.

La lotta è sempre furibonda, da quarant’anni almeno, per la poltrona di Procuratore Capo a Palermo. Che pure dovrebbe essere una posizione rischiosa.

43 su 90 deputati alla Regione Sicilia hanno già cambiato casacca, a due anni dalle elezioni, un paio fino a quattro volte nei due anni. Tutti convergono verso il presidente della Regione Crocetta.
Nella precedente legislatura avevano cambiato casacca 34 deputati su 90, in cinque anni. C’è un progresso.

La filosofa Pina “Giusi” Furnari, insediata a fine aprile, manda subito la Finanza nella villa al mare di Maria Rita Sgarlata. Anna Rosa Corsello smonta tra i lazzi il Piano Giovani di Nelli Scilabra. Sono tutte assessori dell’innocente – è gay – Crocetta in Sicilia.
L’unico uomo nella tenzone, il presidente della Commissione Formazione Marcello Greco, sviene.

Giusi Furnari, assessore ai Beni Culturali e all’Identità Siciliana (sic!), è sotto accusa da parte di Marika Cirone Di Marco perché vuole mettere alle Soprintendenze architetti in qualche modo familiari. Marika Cirone Di Marco non è assessore, ma deputato regionale del Pd, il partito della filosofa, e presidente regionale di Legambiente.

Nelli Scilabra, assessore alla Formazione di Croce-Crocetta, è studentessa fuori corso a 31 anni.  Le donne al potere meriterebbero un Aristofane.

Sono tutte belle donne, Scilabra, Furnari, Sgarlata eccetera, ma perché la Sicilia si vuole maschilista? Oppure sì, è vero?

Geraldine Ferraro nel 1983 maturò l’idea di candidarsi alla vicepresidenza degli Stati Uniti l’anno successivo in ticket col candidato democratico di sinistra Walter Mondale. Subito un investigatore fu inviato dal partito Democratico a Messina e sui Peloritani, per cercare tra i parenti di Geraldine un qualche mafioso. La famiglia di Geraldine risultava originaria di Marcianise, in provincia di Caserta, ma un suo parente prossimo, pare uno zio, forse materno, risultava essere o essere stato nel messinese. O così si premurava di far sapere l’investigatore subito mandato dagli Usa, anche alla “Gazzetta del Sud”, il quotidiano locale: l’amerikano non si nascondeva, e anzi si premurò di far sapere che era lì per quello.
Non ebbe da faticare, la lauta parcella anzi se la guadagnò con gaudio: tutti furono felici di raccontargli che Geraldine aveva un zio pregiudicato. Che lei non ne sapesse l’esistenza non voleva dire nulla. Una lezione per i Carabinieri, che sempre lamentano l’omertà.

L’investigatore anti-Ferraro voleva “sapere” tutto, a prescindere dal fatto che lo zio ci fosse, o ci fosse una parentela riconosciuta. Aveva il compito d’indagare, disse, su tutto: sulla cartella penale ma anche sulle cartelle fiscali, su quelle mediche, se l’uomo non aveva barato con le assicurazioni o la sicurezza sociale, se aveva pagato i contributi delle sue colf e baby-sitter, etc. Costruiva con elementi sicuri un colpevole. Di cui gli sarebbe rimasto da provare – se necessario (non lo fu, il ticket Mondale-Ferraro si scontrò male col Reagan bis) - un qualche legame familiare con la vice-presidente candidata.

È un metodo più serio o meno serio delle intercettazioni? Benché sia dichiaratamente di parte, e non a fini di giustizia, è una metodologia più seria, e quindi più equa. È basata su dati di fatto. Mentre le intercettazioni sono la vecchia berlina, il ludibrio. 
ata su dati di fatto. Mentre le intercettazioni sono la vecchia berlina, il ludibrio.

leuzzi@antiit.eu 

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