Inquietante.
Non “gelido” come lo voleva Magris – “gelido catasto dei giorni deserti e
dell’assurdità delle cose” – né desertico, e non un “diario dell’effimero e
della vanità”. O forse sì, vanitoso Hamsun lo è sempre stato, e di più
naturalmente invecchiando, ma non assurdo: è come era sempre stato, ha ragione
lui. Anche in questa memoria, scritta tra il 1945 e il 1948, quindi tra gli 86
e gli 88 anni, del confino in un ospedale in disuso, in una casa per anziani,
in una clinica psichiatrica, e poi di nuovo nella casa di riposo, in attesa di
un processo per collaborazionismo e apologia del nazismo che non si sa o non si
vuole fare e si rinvia di tre mesi in tre mesi – alla fine si farà, e per tutta
pena dell’accusa di tradimento Hamsun avrà un’ammenda, anche se salata. Una
prosa più che altro esilarata. E esilarante, c’è poco da dire – l’editore
spende Hemingway nella fascetta, “Knut Hamsun mi ha insegnato a scrivere”, e
non fa un abuso: un po' tutti nel Novecento hanno appreso da lui a raccontare
dialogando.
Hamsun
non si era macchiato di nessuna colpa specifica durante l’occupazione tedesca
della Norvegia. Ma si voleva un tedesco di provincia, e la Norvegia vedeva un
distaccamento nordico della Germania. Inoltre amava Hitler, credeva in lui.
Aveva approvato l’invasione. E sapeva della persecuzione degli oppositori,
carcere, torture, esecuzioni, benché non ne denunciasse nessuno. Non sapeva
dello sterminio degli ebrei, dice, ma era possibile non saperlo.
L’autodifesa
di Hamsun, quando infine la cosa fu dibattuta in tribunale, fu semplice, così
come qui la racconta con la trascrizione che ne fu fatta tra gli atti: “Non ho
fatto parte di Nasjonal Sambling”, il partito filonazista. Ma: “Io ci credevo”.
A che cosa? “Eravamo stati allettati dalla prospettiva che la Norvegia avrebbe
occupato una posizione elevata, predominante nella società mondiale pangermanica
che si stava preparando e nella quale tutti credevamo, in misura diversa, ma ci
credevamo tutti”. Che retrospettivamente è folle, ma così era – la cosa non si
contesta, semplicemente non se ne parla. E più “nella neutrale Svezia”, Hamsun aggiunge
che gli veniva fatto notare regolarmente da “certi tedeschi relativamente altolocati”.
Poteva emigrare, Hamsun insiste, non se la sarebbe passata male, ma ha voluto
servire la patria, “usando la mia penna per la Norvegia, che avrebbe occupato
una posizione di primo piano tra le nazioni germaniche. Fin dall’inizio mi
sentii attratto da quel pensiero. Di più, esso mi entusiasmava: ne ero
posseduto”. E non è finita: “Coloro che oggi godono della mia umiliazione,
poiché hanno vinto, hanno vinto esteriormente, in superficie”.
Hamsun
credette a Hitler anche dopo morto. Il 7 maggio 1945 volle rendergli pubblico
omaggio con un ditirambo, che inizia con un “non
sono degno di parlare solennemente di Adolf Hitler”: “Era un guerriero, un
pioniere dell’umanità e un apostolo del vangelo del diritto di tutte le
nazioni. Era una figura di riformatore di altissimo rango”. Qui riduce a
macchiette i suoi giudici, e quelli che incontrandolo si voltano dall’altra
parte. Un rivolgimento non da poco: giudice dei suoi giudici, di cui mette
senza remissione in berlina l’ipocrisia. Cabarettistici i tentativi di usare
contro di lui la moglie, la “seconda” moglie, che per questo tennero a lungo
chiusa in prigione. Con una giustificazione non da poco: “Silvio Pellico,
rinchiuso in un carcere austriaco, scriveva del piccolo topo che aveva
addomesticato. Il suo topo adottivo. Anch’io scrivo qualcosa del genere”. E si
scopre un gallo giovane, che non sa di essere gallo in mezzo alle galline, e
quando comincia a capirlo “una mano lo afferrò e nel buio lo
portò”. Avendo lamentato: “Ero una persona sana e mi hanno ridotto come
gelatina”. A sé unicamente rimproverando la pubblicazione di un libro di
poesie, un cedimento alla vanagloria. Sfacciato, ma simpatico. Forse perché
veritiero - la verità è che la guerra di Hitler fu bella per molti.
Knut Hamsun, Per
i sentieri dove cresce l’erba, Fazi, pp. 165 € 16
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