“Schiavitù o socialismo, altra
alternativa non v’è”: è il motto di Pisacane, bello e anche apodittico,
incontrovertibile. Che gli ha guadagnato il “giacobino” di Gramsci, e nel 1942 l’avocazione
al materialismo storico di Giaime Pintor E tuttavia che vuol dire? Leggendolo, la
domanda è costante.
Si può leggere Pisacane come il teorico
dei “fuochi” e della “guerra di popolo”, seppure tra molte parole inutili, antesignano del “Che” Guevara. E anche di Franz Fanon, del messianismo
contadino. Oppure come un giovane sentimentale e superficiale, da ultimo
patriota e rivoluzionario. Piscane fu entrambi Ma rileggerlo oggi porta solo a una conclusione:
che il Risorgimento andò come andò, cioè finì “piemontese”, per la
superficialità dei democratici, mai migliori del ribellismo carbonaro. Di
fronte al fallimento del 1930, e poi del 1848, i democratici si rifugiarono sempre
più nel velleitarismo, i sogni a occhi aperti, i liberali si accasarono a
Torino, sotto Cavour. Detto questo, però, non è detto tutto: in altra cultura
Pisacane sarebbe stato personaggio romanzesco, una miriade di trame proponendo.
Della sua rivoluzione è presto detto. È
una filippica antimazziniana. Molto proudhoniana, cioè socialista, ma a tratti
anche anti-proudhoniana. Si fa prima a dire cosa voleva: poco. Infilato
proditoriamente da Asor Rosa, nel canonico “Scrittori e popolo”, tra i risorgimentali
populisti, Pisacane4 ha al contrario una concezione severa, perfino attuale: di
un nazionalismo democratico e federalista. Apertamente critico, anzi, delle
mitizzazioni populiste, compreso l’interclassismo di Proudhon: gli interessi
sono meglio disgiunti. Purtroppo – forse per il blocco psicologico romantico –
è fieramente avverso anche alle riforme. Tra esse comprendendo anche il lavoro
industriale. Vuole la rivoluzione ma non sa come farla.
Una mentalità, bisogna dire, non datata.
E anzi evidentemente immortale: questa “Rivoluzione”, corposa e non
propriamente commestibile, è già alla seconda edizione”. Del resto, il mito del
“Che” è sempre fertile.
Una mentalità, bisogna dire, non datata.
E anzi evidentemente immortale: questa “Rivoluzione”, corposa e non
propriamente commestibile, è già alla seconda edizione”. Si può dunque dire in
altro modo: Pisacane è antesignano e emblema del romanticismo politico. Del
resto, il mito del “Che” è sempre fertile – benché non vivo.
Un napoletano, Carlo Pisacane, legato a
un calabrese, Raffaele Poerio. Entrambi ufficiali borbonici, entrambi caratteristicamente
ribelli senza causa. Entrambi per un periodo nella Legione Straniera. Ma non,
come si penserebbe, per i soprusi di polizia e la disperazione. Pisacane fu soprattutto gravato da un’altra
imprese molto romantica, l’infatuazione per Enrichetta Di Lorenzo, moglie di un
suo cugino e già madre di tre figli. Nel 1840, a 22 anni, coordinava la
costruzione della ferrovia Napoli-Caserta. Nel 1841, a 23, fu agli arresti
militari in fortezza su denuncia per adulterio. Nel 1846, quando si invaghì
della cugina acquisita Enrichetta, il cugino Dionisio Lazzari tentò di farlo
uccidere. Sopravvissuto all’agguato, qualche mese dopo fuggì con Enrichetta a Londra
e poi a Parigi, prima di finire in Algeria.
Il cambiamento in
questo esilio forzato fu radicale e rapido. Pisacane fu a Parigi ai primi moti
del 1848. Fu con Cattaneo nei moti milanesi, comandante di una compagnia di
volontari, ferito in battaglia. Fu volontario nell’esercito piemontese nella
prima guerra di liberazione. E fu a Roma con Mazzini e Garibaldi – ma piuttosto
contro di essi. Si batté sul Gianicolo contro le truppe francesi, con
Enrichetta nominata “direttrice delle ambulanze”. Arrestato alla caduta della
Repubblica, si fece poche settimane a Castel Sant’Angelo, poi fu libero di
ripartire per Londra. Non se n’è persa una.
L’anteprima dei Mille
Anche l’impresa
per la quale Pisacane è famoso – quella della “Spigolatrice di Sapri”: “Eran
trecento, giovani e forti, e sono morti” – è singolarmente anticipatrice, fin
nei dettagli, di quella dei Mille tre anni dopo, con la sola eccezione della
mancata copertura navale inglese. Anche se finì come un tentativo alla “Che” di
creare un fuoco rivoluzionario tra i contadini, nel suo caso del Cilento: anche
Pisacane arrivò da fuori, via mare, e fu braccato e colpito a morte dai soldati
borbonici e dai contadini che era andato a redimere. Il tradimento non escluso.
Ci fu una
preparazione complessa, di Pisacane con molti altri patrioti: due ex della
Repubblica Romana, Nicola Fabrizi e Giuseppe Fanelli, anarchico bakuniniano,
Giovanni Nicotera, Rosolino Pilo, Nicola Mignogna, attentatore di Pio IX nel
settembre 1849, e altri. Il primo progetto prevedeva lo sbarco in Sicilia, con
partenza da Genova. Poi si ripiegò su Ponza, praticamente indifesa, per
liberarvi i detenuti, e Sapri. Punto di partenza verso l’interno e verso
Napoli.
Il 25 giugno 1857 Pisacane
s’imbarcò a Genova su un piroscafo di linea della società Rubattino, il “Cagliari”,
con altri 24 rivoluzionari. Con armi e approvvigionamenti pagati dal banchiere
livornese Adriano Lemmi, gran maestro della massoneria. Una prima partenza, il
6 giugno, era fallita perché Rosolino Pilo si era perso il carico di armi per
il mare agitato. Nel frattempo, Pisacane aveva escogitato di sollevare il
popolo napoletano travestito da prete, ma i sondaggi furono deludenti. Anche
nella seconda spedizione Rosolino, che doveva portare le armi su alcuni
pescherecci e consegnarli al “Cagliari” abbordandolo di notte, mancò all’appuntamento.
Ma Pisacane s’impadronì lo stesso del “Cagliari”, con la complicità dei due
macchinisti, due inglesi. Il 26 sbarcò a Ponza, sventolando il tricolore,
liberò i carcerati, 323, i cui pochi i politici, e con essi il 28 sbarcò vicino
a Sapri. A Casalbuono il giorno dopo ebbe buona accoglienza. A Padula, sulla
via per Napoli, il 30 giugno no.
A Padula l’esercito
di liberazione degli ex carcerati, ai quali Pisacane aveva aggiunto quelli
della prigione di Padula, alcuni di essi briganti di cattivissima fama, attaccò
le case degli abbienti. Quando arrivarono i gendarmi borbonici il popolo di
scagliò contro i rivoltosi. Molti furono uccisi a colpi di roncole, falci,
badili, accette. I morti, tra essi Pisacane, furono 156, gli altri furono presi
prigionieri e condannati a morte – poi graziati. Per i macchinisti il governo
britannico ottenne la non perseguibilità, per “infermità mentale”. Nicotera,
ferito gravemente, fu condannato a morte, graziato, sempre per l’intervento
inglese, e tre anni dopo liberato. Garibaldi otterrà una pensione per
Enrichetta, della quale aveva adottato la figlia Silvia, da essa avuta tardivamente con
Pisacane, nel 1852.
Carlo Pisacane, La rivoluzione, Galzerano, pp. 432, ill. € 20
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