lunedì 1 dicembre 2014

I fuochi spenti della rivoluzione italiana

“Schiavitù o socialismo, altra alternativa non v’è”: è il motto di Pisacane, bello e anche apodittico, incontrovertibile. Che gli ha guadagnato il “giacobino” di Gramsci, e nel 1942 l’avocazione al materialismo storico di Giaime Pintor  E tuttavia che vuol dire? Leggendolo, la domanda è costante.
Si può leggere Pisacane come il teorico dei “fuochi” e della “guerra di popolo”,  seppure tra molte parole inutili, antesignano del “Che” Guevara. E anche di Franz Fanon, del messianismo contadino. Oppure come un giovane sentimentale e superficiale, da ultimo patriota e rivoluzionario. Piscane fu entrambi  Ma rileggerlo oggi porta solo a una conclusione: che il Risorgimento andò come andò, cioè finì “piemontese”, per la superficialità dei democratici, mai migliori del ribellismo carbonaro. Di fronte al fallimento del 1930, e poi del 1848, i democratici si rifugiarono sempre più nel velleitarismo, i sogni a occhi aperti, i liberali si accasarono a Torino, sotto Cavour. Detto questo, però, non è detto tutto: in altra cultura Pisacane sarebbe stato personaggio romanzesco, una miriade di trame proponendo.
Della sua rivoluzione è presto detto. È una filippica antimazziniana. Molto proudhoniana, cioè socialista, ma a tratti anche anti-proudhoniana. Si fa prima a dire cosa voleva: poco. Infilato proditoriamente da Asor Rosa, nel canonico “Scrittori e popolo”, tra i risorgimentali populisti, Pisacane4 ha al contrario una concezione severa, perfino attuale: di un nazionalismo democratico e federalista. Apertamente critico, anzi, delle mitizzazioni populiste, compreso l’interclassismo di Proudhon: gli interessi sono meglio disgiunti. Purtroppo – forse per il blocco psicologico romantico – è fieramente avverso anche alle riforme. Tra esse comprendendo anche il lavoro industriale. Vuole la rivoluzione ma non sa come farla.
Una mentalità, bisogna dire, non datata. E anzi evidentemente immortale: questa “Rivoluzione”, corposa e non propriamente commestibile, è già alla seconda edizione”. Del resto, il mito del “Che” è sempre fertile.
Una mentalità, bisogna dire, non datata. E anzi evidentemente immortale: questa “Rivoluzione”, corposa e non propriamente commestibile, è già alla seconda edizione”. Si può dunque dire in altro modo: Pisacane è antesignano e emblema del romanticismo politico. Del resto, il mito del “Che” è sempre fertile – benché non vivo.
Un napoletano, Carlo Pisacane, legato a un calabrese, Raffaele Poerio. Entrambi ufficiali borbonici, entrambi caratteristicamente ribelli senza causa. Entrambi per un periodo nella Legione Straniera. Ma non, come si penserebbe, per i soprusi di polizia e la disperazione.  Pisacane fu soprattutto gravato da un’altra imprese molto romantica, l’infatuazione per Enrichetta Di Lorenzo, moglie di un suo cugino e già madre di tre figli. Nel 1840, a 22 anni, coordinava la costruzione della ferrovia Napoli-Caserta. Nel 1841, a 23, fu agli arresti militari in fortezza su denuncia per adulterio. Nel 1846, quando si invaghì della cugina acquisita Enrichetta, il cugino Dionisio Lazzari tentò di farlo uccidere. Sopravvissuto all’agguato, qualche mese dopo fuggì con Enrichetta a Londra e poi a Parigi, prima di finire in Algeria.
Il cambiamento in questo esilio forzato fu radicale e rapido. Pisacane fu a Parigi ai primi moti del 1848. Fu con Cattaneo nei moti milanesi, comandante di una compagnia di volontari, ferito in battaglia. Fu volontario nell’esercito piemontese nella prima guerra di liberazione. E fu a Roma con Mazzini e Garibaldi – ma piuttosto contro di essi. Si batté sul Gianicolo contro le truppe francesi, con Enrichetta nominata “direttrice delle ambulanze”. Arrestato alla caduta della Repubblica, si fece poche settimane a Castel Sant’Angelo, poi fu libero di ripartire per Londra. Non se n’è persa una.
L’anteprima dei Mille
Anche l’impresa per la quale Pisacane è famoso – quella della “Spigolatrice di Sapri”: “Eran trecento, giovani e forti, e sono morti” – è singolarmente anticipatrice, fin nei dettagli, di quella dei Mille tre anni dopo, con la sola eccezione della mancata copertura navale inglese. Anche se finì come un tentativo alla “Che” di creare un fuoco rivoluzionario tra i contadini, nel suo caso del Cilento: anche Pisacane arrivò da fuori, via mare, e fu braccato e colpito a morte dai soldati borbonici e dai contadini che era andato a redimere. Il tradimento non escluso.
Ci fu una preparazione complessa, di Pisacane con molti altri patrioti: due ex della Repubblica Romana, Nicola Fabrizi e Giuseppe Fanelli, anarchico bakuniniano, Giovanni Nicotera, Rosolino Pilo, Nicola Mignogna, attentatore di Pio IX nel settembre 1849, e altri. Il primo progetto prevedeva lo sbarco in Sicilia, con partenza da Genova. Poi si ripiegò su Ponza, praticamente indifesa, per liberarvi i detenuti, e Sapri. Punto di partenza verso l’interno e verso Napoli.
Il 25 giugno 1857 Pisacane s’imbarcò a Genova su un piroscafo di linea della società Rubattino, il “Cagliari”, con altri 24 rivoluzionari. Con armi e approvvigionamenti pagati dal banchiere livornese Adriano Lemmi, gran maestro della massoneria. Una prima partenza, il 6 giugno, era fallita perché Rosolino Pilo si era perso il carico di armi per il mare agitato. Nel frattempo, Pisacane aveva escogitato di sollevare il popolo napoletano travestito da prete, ma i sondaggi furono deludenti. Anche nella seconda spedizione Rosolino, che doveva portare le armi su alcuni pescherecci e consegnarli al “Cagliari” abbordandolo di notte, mancò all’appuntamento. Ma Pisacane s’impadronì lo stesso del “Cagliari”, con la complicità dei due macchinisti, due inglesi. Il 26 sbarcò a Ponza, sventolando il tricolore, liberò i carcerati, 323, i cui pochi i politici, e con essi il 28 sbarcò vicino a Sapri. A Casalbuono il giorno dopo ebbe buona accoglienza. A Padula, sulla via per Napoli, il 30 giugno no.
A Padula l’esercito di liberazione degli ex carcerati, ai quali Pisacane aveva aggiunto quelli della prigione di Padula, alcuni di essi briganti di cattivissima fama, attaccò le case degli abbienti. Quando arrivarono i gendarmi borbonici il popolo di scagliò contro i rivoltosi. Molti furono uccisi a colpi di roncole, falci, badili, accette. I morti, tra essi Pisacane, furono 156, gli altri furono presi prigionieri e condannati a morte – poi graziati. Per i macchinisti il governo britannico ottenne la non perseguibilità, per “infermità mentale”. Nicotera, ferito gravemente, fu condannato a morte, graziato, sempre per l’intervento inglese, e tre anni dopo liberato. Garibaldi otterrà una pensione per Enrichetta, della quale aveva adottato la  figlia Silvia, da essa avuta tardivamente con Pisacane, nel 1852.
Carlo Pisacane, La rivoluzione, Galzerano, pp. 432, ill. € 20

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