Dunque si ripubblica, forse perché è il
monumento che Ginsberg voleva eretto a se stesso. Ma niente si salva – la
rilettura della rilettura, un anno e mezzo fa su questo sito, non aiuta: i cinquemila
versi scorrono come acqua.
È un bel libro, impreziosito
dall’originale. È anche una memoria grata, degli anni roventi, come bisogna
dire, che preparavano il 1968 – che negli Usa fu il 1967: vagabondaggi mitici,
sul mitico Volkswagen, tra mitiche sbronze, mitiche fumate, parlando al mitico
registratore Uher, regalato dal mitico
Bob Dylan. Un rifacimento in versi di Kerouac, “Sulla strada”, 1957, e un
anticipo di “Easy Rider, di Peter Fonda e Dennis Hopper, 1969, .ma stinto.
La caduta in oggetto è quella cronica
dell’America. Tornata all’ordine del giorno, ma stantia di un secolo, quasi. Di
caduta, fine, fallimento, scoppio inducono a parlare forse i sensi di colpa
puritani. Forse un furbo (diplomatico) essere-non essere. Ma è genere che non
emoziona. A parte il fatto che non si vede dove, né come. Inerti pure il sesso
e il Budda, temi più propriamente ginsberghiani, altrove vivi.
Si stenta a fare l’estratto di Ginsberg,
chi è stato e cosa ha fatto. Per lui in senso inverso a Pasolini, che ne fu
presto la copia, di vita e di programma: di Pasolini si presume troppo, di
Ginsberg niente. Senza peraltro “stringere” niente, neppure nel caso di
Pasolini dietro il culto. Mentre entrambi ci guadagnerebbero a essere riportati
fuori dall’eloquenza, alla vena esistenziale, un po’ ribelle un po’ decadente,
psicologicamente più confacente. Per la poesia civile andrebbero misurati su
Pound, cui entrambi si rifanno. Giusto per capire perché. Perché non funziona –
quella di Pound, per dirne una, è “lavorata” enormemente.
Allen Ginsberg, La caduta dell’America, con orig. a fronte, Il Saggiatore, pp. 544
€ 29
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