Curato da due studiosi, il filosofo
Nicola Zippel e lo storico internazionalista Arturo Varvelli, collazionando i
saggi sull’Italia che Anderson ha scritto per la “London Review of Books” negli
ultimo dodici anni, è un’ottima idea editoriale: uno sguardo dall’esterno, di
uno studioso della politica, che ha frequentazione e conoscenza diretta dell’Italia. Per una
volta fuori dalle insulse bibbie per accumulo che i giornali ci infliggono. Uno
sguardo anche per più aspetti vero, senza pregiudizi e fuori dalla
disinformazione, che può fare testo a futura memoria. Nei temi di lungo periodo
e nei particolari. L’implosione del Pci. Berlusconi come effetto
dell’implosione e del nuovo corso della politica, tutta immagine e
comunicazione. La deriva autoritaria della presidenza della Repubblica, da
Scalfaro a Napolitano. Il peso soverchiante (visto attraverso Mauro Calise,
“Fuorigioco”) della comunicazione nella nuova politica sull’organizzazione di partito.
Con pochi pregiudizi, effetto peraltro, probabilmente, della storia della
Repubblica alla Ginsborg, da travet
di partito - e del vezzo inglese di buttare la merda al piano di sotto.
Il principale è la sottovalutazione del
Psi, prima di Craxi e con lo stesso antipatico Craxi, nella modernizzazione
dell’Italia, fino al referendum contro la scala mobile – il partito Socialista
è tutto in una nota, di sei righe, meno che per Gianni Amelio. Un ruolo che
spiega l’accanimento della Procura dell’andreottiano - presto scalfariano - Borrelli contro lo stesso
Psi. Anderson fa di Craxi un arricchito e un corrotto: in cambio di una legge pro
Berlusconi “ricevette un bonifico di 12 milioni di dollari su un suo conto
estero”, “le rivelazioni di Tangentopoli mettevano in luce l’entità della sua
corruttela”. Cose non vere. E sceneggia un “passaggio delle consegne” da Craxi a
Berlusconi che è da commedia dell’arte da avanspettacolo – “vieni avanti,
cretino!”
A tratti fa peprfino subodorare il
sinistra-destra equivoco, del trozkista-fascista.
Travaglio lo affascina al punto da dichiararlo “il miglior giornalista
d’Europa”. Nessuna tara fa a un’opinione pubblica malsana e deviata, di
padroni surrettizi e di redattori “bene informati”. Quando l’onesto Ciampi
promulgò la legge di Berlusconi sulle immunità per le alte cariche dello Stato,
“degli angosciati appelli al lume di candela proveniente dalla strada lo
pregavano di non farlo”. A questo punto uno si aspetta i fax che Visco si mandava per inneggiare alle
sue tasse. Un marxista “travagliato” è quanto di più pernicioso possa occorrere. Anderson finisce
per non capire quello che dice: “Quando la Seconda Repubblica muoveva i suoi
primi passi, l’Italia godeva ancora del secondo più alto Pil pro capite a
parità di potere d’acquisto tra i
maggiori paesi Ue, dietro solo alla Germania: una qualità della vita in termini
reali superiore a quella di Francia o Regno Unito”.
Ma più che altro Anderson conferma che a certi buoni spiriti, ancorché studiosi del potere, si può vendere di tutto. Anche un girotondo con quel galant’uomo di Di Pietro. Anche di Andreotti, non solo di Travaglio, subisce la fascinazione che ne hanno subito Valentino Parlato e buona parte del “Manifesto”. Per poi lasciarsi sfuggire i processi, in contemporanea, a Milano e Palermo, seguiti con particolare cura dall’ambasciata americana a Roma, a Craxi e Andreotti, gli unici due uomini di governo che avessero azzardato un minimo di politica estera nazionale. Una coincidenza che a uno studioso del potere non doveva sfuggire. La stessa ambasciata che poi creerà il culto di Di Pietro negli Usa, con inviti, seminari, lauree, tutto quelo che ci vuole per una incoronazione.
Ma più che altro Anderson conferma che a certi buoni spiriti, ancorché studiosi del potere, si può vendere di tutto. Anche un girotondo con quel galant’uomo di Di Pietro. Anche di Andreotti, non solo di Travaglio, subisce la fascinazione che ne hanno subito Valentino Parlato e buona parte del “Manifesto”. Per poi lasciarsi sfuggire i processi, in contemporanea, a Milano e Palermo, seguiti con particolare cura dall’ambasciata americana a Roma, a Craxi e Andreotti, gli unici due uomini di governo che avessero azzardato un minimo di politica estera nazionale. Una coincidenza che a uno studioso del potere non doveva sfuggire. La stessa ambasciata che poi creerà il culto di Di Pietro negli Usa, con inviti, seminari, lauree, tutto quelo che ci vuole per una incoronazione.
Sul lavoro invece si siede, sulle vecchie trincee ormai abbandonate. Arriva alla conclusione di Arrighi, della
“indocilità del lavoro” in Italia, trascurando il referendum contro la scala mobile, e la
liberalizzazione selvaggia del lavoro, per la metà o poco meno in “nero”. Sopravvalutando
una protesta che è quasi tutta nella capacità organizzativa della Cgil, grazie
al finanziamento ricco del sindacato, fine a se stessa, con la mobilitazione di
masse anche di milioni, in gita a Roma, a nessun fine e senza effetto. L’amnesia
è totale sulla marcia dei Quarantamila a Torino, contro Berlinguer che incitava
all’occupazione della Fiat (Berlinguer incitava all’occupazione delle
fabbriche, nel 1980). Non c’è nemmeno il compromesso storico. C’è un parallelo
tra l’Italia e la Francia della Quarta Repubblica, cui l’Italia repubblicana
perennemente si ispira, ma non il compromesso. “Con gli anni Ottanta”, dice, il
Pci era entrato nel sottogoverno. No,
con gli anni Settanta, con Andreotti e Moro - Curzi a Telekabul, Zorzoli
all’Enel, etc. Fa differenza? Molta. Non c’è la crisi monetaria e economica del
1992 – per gli errori della politica monetaria stessa, della Banca d’Italia,
cioè di Ciampi, che aveva sopravvalutato la lira. Non c’è la valanga dei
licenziamenti, circa due milioni in un paio d’anni, che succedette alla crisi
del 1992 , per effetto anche della globalizzazione, imposta senza transizione.
Non ci sono i referendum, per la giustizia, contro la scala mobile appunto, per
le tv libere (di Berlusconi). Mentre ci sono curiose leggerezze. I conteggi di
Viroli, “La balla della lentezza (del Parlamento): una legge ogni dieci
giorni”. Che è una balla: ci sono voluti vent’anni per modificare il regime delle
pensioni, non sono bastati venti per definire i rapporti Stato-Regioni, ce ne
vorranno di più per modificare il mercato del lavoro (modificarlo legalmente,
perché il mercato è da tempo selvaggiamente non protetto, in nessun modo), si fanno da un ventennio leggi elettorali
abborracciate, all’ultimo minuto, per non saperne fare una giusta.
Opera non di storico dunque, né di filosofo. Ma sicuramente il reportage politico più
onesto del ventennio, meno prevenuto. A partire dalla questione centrale, che Anderson enuclea nel
capitolo finale, scritto per accompagnare la raccolta: la ricetta suicida
dell’Europa dell’euro, che vuole contrazione della spesa, pubblica e privata,
taglio del welfare, taglio della Funzione Pubblica, “e la riparazione dei debiti
sulle spalle degli Stati membri della periferia della Ue”. Una perversione
difficile da immaginare. A esito semplice: a metà 2014 il pil europeo è ancora
inferiore a quello del 2008 – l’unica area in crisi al mondo, si può
aggiungere. Manca quello che più ci si aspettava dall’animatore della “New Left
Review”: il significato della “ristrutturazione” europea, magari con un occhio
alla globalizzazione. Ma l’osservatore è sempre all’erta nei particolari. Draghi Kaisertreu, il banchiere del re – nel
suo caso regina, benché mediocre: Angela Merkel. La Procura di Milano agita da
un giudice Pci, D’Ambrosio (ma anche Colombo), e uno Msi, Davigo (ma anche Di
Pietro). E un singolarissimo panorama della corruzione al vertice della
politica europea, in Germania, Francia,
Gran Bretagna, Spagna peggio che in Italia: della corruzione in senso proprio,
compravendite del potere, per lucro personale. Oltre all’ovvia desolazione
della giustizia – che è sotto gli occhi di tutti, ma bisogna dirla.
Il primo capitolo, la ricostruzione dell’operazione Mani Pulite, col
crollo della Prima repubblica, è da antologia: la più informata e acuta. “La
caduta del sultano”, il quarto capitolo, è analizzata in controluce sulla
corruzione in Europa, appunto, e sulla deriva autoritaria del Quirinale. Un
capitolo affascinante, brechtiano: di presidenti e primi ministri stipendiati –
il presidente del consiglio italiano, che andava solo a puttane, coi soldi
propri, ci fa una meschina figura. Questo nella virtuosa Europa. Mentre in
Italia impazzano governi del presidente, governi non eletti, di banchieri,
uomini d’affari e tecnocrati, Camere sciolte d’autorità, giudici, banchieri e
giornalisti che licenziano i governi eletti.
La raccolta finisce male, purtroppo, col
capitolo scritto appositamente. Anderson annega Renzi sotto il solito sinistrismo
salvacoscienza, al profumo di britannico snobismo – sotto i luoghi comuni. Entrando in argomento con un errore rosso: lo
chiama primo ministro. Renzi è il presidente del consiglio. Non ha nessuna
autorità, se non quella della mediazione ininterrotta, sfiancante: non quella dei primi ministri della tradizione inglese, di decidere, e nemmeno
quella del cancelliere tedesco, di chiamare le elezioni. Non nomina i suoi
ministri, e non può dimetterli. Non governa la legislatura. È qui la
disfunzione dell’Italia: la debolezza della Funzione Pubblica, welfare
compreso, l’eccesso di corruzione, l’avventurismo a premio di giudici,
giornalisti e affaristi, talvolta in veste di editori e saggi della Repubblica.
Il governo in Italia è soggetto ai briganti di passo. La minaccia è sotto gli
occhi di tutti ma irrimediabile: sul rafforzamento dell’esecutivo una strana
unanimità si crea, dall’“Economist” a Rodotà, che lo accula a Mussolini, oppure
a Gelli. Non ha senso paragonare Renzi a De Gaulle, né a Margaret Thatcher. Non
ha senso condannare Renzi nel suo partito. Forse non sarà il De Gasperi della
terza Repubblica, ma nel suo partito ha fatto un miracolo, le sconfitte a
ripetizione trasformando in una vittoria, su cui magari costruire una forza. E
chi sono i suoi nemici nel partito, cosa propongono? Perry, ancora uno sforzo: l’amata Italia è veramente un quaderno aperto.
Perry Anderson, L’Italia dopo l’Italia, Castelvecchi, pp. Pp. 185 € 17,50
Perry Anderson, L’Italia dopo l’Italia, Castelvecchi, pp. Pp. 185 € 17,50
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