“L’aria, l’acqua, la terra è d’amor
piena..”: la Resistenza, faticosa, rischiosa, solitaria, povera, contro i tedeschi
onnipotenti sotto l’occupazione, al suono del Petrarca, che Elsa elegge a metà
racconto sulla strada per Avignone, che sarà la “sua” città. Un racconto
elegiaco. Commosso e rassegnato, alla durezza comunque della vita. La
Resistenza come l’eroismo delle piccole virtù. Molto romantico anche, e quasi sentimentale.
Al confronto la nostra letteratura della Resistenza, seppure alluvionale, in ragione
inversa probabilmente alla pratica effettiva, rinvigorisce, per nitidezza e
forza di umori. E tuttavia più vero – oltre che, probabilmente, reale.
Non c’è nemmeno Aragon, il compagno-compagno
che avrebbe dovuto essere piuttosto lui il protagonista di una racconto della
Resistenza. Anzi, il merito di Elsa è di riconoscere che i partiti in armi
fecero poco, pur facendo qualcosa – altri non fece niente, Sartre a Parigi
eccetera. Rivendicherà in chiave partitica qualcosa in una tarda prefazione,
nel 1962. In particolare di aver varato per il partito Comunista, ora il suo partito,
in questo racconto del 1943 l’etichetta “partito dei Fucilati”, che il Pcf
adottò anonima nei manifesti e nei tesserini di iscrizione, nel 1944 e nel 1945,
“Aderite al Partito dei Fucilati”. Nella stessa prefazione spiegherà: “La
letteratura della resistenza sarà stata
una letteratura dettata da un’ossessione e non da una decisione fredda”.
Un’ossessione era l’impegno politico: “Era il contrario di ciò che si descrive
d’abitudine col termine impegno, era
la libera e difficile espressione d’una sola e unica preoccupazione: liberarsi
d’un intollerabile stato di cose”.
Pubblicata a Parigi illegalmente, nell’ottobre
1943, dalle Éditions de Minuit, è una storia d’amore di una persona normale,
una segretaria d’ufficio. Dell’amore sacrificato al dovere. Che è faticoso e grigio:
viaggiare su e giù senza riposo, in terze classi dove è difficile anche stare
in piedi, prendere camere sporche e fredde in pensioni sordide, e consegnare fogli e lettere del cui contenuto
si è tenuti all’oscuro, a persone anonime, che non si conoscono e non si manifesteranno.
Una storia d’amore e di stanchezza. Di una routine senza smalto senza fine. Con
una prolungata apologia di Avignone, città di Petrarca, e un’altrettanto lunga
esecrazione di Lione, in ragione delle piccole passioni vissute o negate.
Un’esperienza di piaghe e debiti, di vergogne,
la fame e il gelo compresi, non la solita marcia vittoriosa, dopo l’escursione
in montagna, verso il ballo popolare. La tarda prefazione Elsa intitolerà “Alla
clandestinità”, e sarà l’unica nostalgia. Una prova di racconto della
Resistenza tutta particolare. Premio Goncourt alla fine della guerra, nel 1945,
tradotto nel 1948 da Einaudi, uno dei primi “Coralli”, forse il dopoguerra era
diverso.
Elsa Triolet, Gli amanti d’Avignone
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