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martedì 16 dicembre 2014

La scoperta dell'antipolitica - 2

È il populismo, è l’antiberlusconismo
Oppure l’antipolitica si contrabbanda col populismo. Che però non si sa cos’è e comunque merita una trattazione a parte – si fa troppo spesso confusione: l’opinione pubblica è confusa, viene confusa. Se ne può dare uno schema in relazione al fenomeno Berlusconi.
Sia il “popolare” la “cultura di massa”. Non ce n’è altro: la campagna? la magia? la taranta? i dannati della terra? Retorica, neppure più bene intenzionata. E le masse (della cultura, della comunicazione) sono sempre quell’agglomerato amorfo e contraddittorio che le forze egemoni informano. Questo è scuola di Francoforte, invecchiata quanto si voglia e altezzosa, ma è la verità. Tutto è già del resto nelle “Mitologie” di Barthes, che sono vecchie di quasi sessant’anni. O nella “Società dello spettacolo”, dieci anni dopo. Gramsci, che nella subalternità prefigurava, o forse solo auspicava, forme di resistenza alle culture (interessi) dominanti, non avrebbe difficoltà a riconoscerlo. Come chiunque viva nel mondo nel suo tempo.
L’antiberlusconismo questo è: un adattamento volgare della stessa scuola, gli occhi chiusi davanti alla realtà. Creandosi un paese deluso, o confuso, o narcotizzato, o farfallone, o corrotto. Una professione di aristocraticismo che avrebbe fatto inorridire Horkheimer e Adorno, plebeo ritenendo anche il “che fare?”, un po’ d’impegno politico. Mentre volgare è l’inarcare le ciglia, da zia offesa. Il paese restando la sola cosa solida di questo interminabile post-sovietismo-cum-Dc, arguto, rapido, agile, anche se non lo facciamo parlare, giusto il piagnisteo, o linguaggio Rai, e quindi si concentra sul voto. Quanta vitalità non deve avere il paese per sopravvivere in tanta dolente ipocrisia?
Ancora prima, volendo essere troppo seri, l’urbanità unificava. Nel senso proprio, della città. Che si fa risalire, in questo senso, alla città di Haussmann, uniformemente borghese, e cioè Secondo Impero francese. Ma la storia è nata prima della Francia, e della città già Quintiliano lamenta che la scelta delle parole, la loro pronuncia, e i linguaggi fossero quelli derivati a cascata dai maggiorenti e le persone colte, “tutto il contrario della rusticità”, che ancora si portava a segno di autenticità – non detta, Quintiliano non si avventurava come Heidegger in parole vuote di senso e di senno come l’autenticità.
Al tempo di Marx, senza scuole, senza giornali e senza altri mezzi di comunicazione di massa, c’era una certa spontaneità popolare, comunque non borghese, o piccolo borghese. Ora “il linguaggio «popolare» non è altro che il linguaggio borghese imbastardito, generalizzato volgarizzato, imbalsamato in una specie di «senso comune»”, come scriveva Barthes quarant’anni fa, “un purgatorio”, che sarebbe “rivoluzionario” evitare. Ora comunque - la semiologa Kristeva l’ha accertato, “la comunicazione è una merce” - fatta apposta insomma per Berlusconi, il Grande Venditore. Che, scacciato dalla porta, rientra dalla finestra, ma è così che dovrebbe.
Di questa cultura di massa Berlusconi è il sintomo e non la causa. Non ha creato un linguaggio, lo ha sfruttato. Non ha creato il circo mediatico, ci si è inserito. Non ha creato il teatrino politico, ci si è inserito al meglio. È il segno (questa gli piacerebbe…) non la malattia. Ha saputo sfruttare la sovversione perché meglio degli altri ha letto il senso dell’antipolitica, della rivolta contro i partiti. Con la “discesa in campo”, “forza Italia”, il “partito della libertà”, a tratti perfino dell’“amore”- sa anche che il messaggio dev’essere semplice. Da sempre ci se ne attende la fine, prima con la Boccassini, la paladina di De Benedetti nell’affare Sme, poi con Bossi, col cancro, con l’incapacità di governo, con la moglie, con Fini, ora di nuovo con la Boccassini. Ha resistito perché ha interpretato meglio degli avversari il senso delle cose: il successo di Berlusconi non è stato quello del tiranno, o del moghul dei media. È – è stato - lo specchio dell’opposizione, una lettura della realtà molto più efficace di quella dei suoi supponenti nemici.
Qui si può innescare il discorso del paese confuso, o narcotizzato, ma dopo aver capito la propria pochezza, si nobiliti pure con Proust o le zie, e il naso arricciato per lo sdegno. “La doxa, l’opinione pubblica, costitutiva delle nostre società democratiche, potentemente aiutata dalle comunicazioni di massa, non è definita dai suoi limiti, dalla sua energia di esclusione, dalla sua censura”? Questo sapeva Barthes già quarant'anni fa - ma è meglio non esagerare.
La politica della giustizia
È la politica del più forte. La politica è la leva della giustizia, naturalmente democratica, l’antipolitica è la giustizia della forza.
Coltivata in Italia per decenni in ambito liberale e radicale come critica della partitocrazia (Maranini, Scalfari, Ronchey), è diventata negli anni Ottanta scudo e punta di lancia dei “padroni”. Cefis ha aperto la strada solitario negli anni Settanta, Romiti (Agnelli), De Benedetti e poi Berlusconi hanno fatto la corsa e infine l’hanno vinta. Con i media, e il sottile controllo degli apparati della legalità. All’insegna della semplificazione della politica (bipolarismo) e della governabilità. In realtà al solo fine di “occupare la politica”, non di renderla efficiente – e anzi sempre contrastando ogni autonomia della politica.
Successivamente, dissolvendosi la critica laica nel compromesso storico, vi ha inoculato il veleno dell’antipolitica. Per cui il partito Comunista, che aveva un terzo degli amministratori pubblici in Italia, li ha abbandonati al discredito preconcetto, lieto come un qualsiasi partito d’opinione di fare la lezione di morale alla storia. Gli amministratori pubblici comunisti, un esercito, si trovarono esposti al discredito non per colpe specifiche ma in quanto professionisti della politica – a opera del loro stesso partito, dei compiaciuti “salotti (?) romani (?)” del loro partito.
Rapidamente ha poi elaborato un’antipolitica di secondo grado, quella delle caste, non dipendenti dalla politica ma ad essa non estranee. che denuncia nel mentre che le pratica, in una sorta di gioco dell
oca.
E la faziosità
Antipolitica è anche la faziosità, che connota tutta la storia della Repubblica. Renzo De Felice la addebitava all’antifascismo. Non in quanto fenomeno storico, della Resistenza al fascismo e in guerra, ma in quanto categoria costituzionale, della Costituzione materiale del dopoguerra: la demonizzazione dell’avversario politico, la conflittualità sociale esasperata, sempre e comunque, l’assemblearismo inconcludente, che si soddisfa nel rendere impossibile il governo (il “governo attraverso la crisi”). Ma essa è comune, si può aggiungere, oltre che alla galassia ex comunista, anche a quella ex confessionale. Di cui sono espressione i gestori dell’opinione pubblica, la Rai e i grandi giornali. Che in Italia sono tutti padronali, e quindi estendono la faziosità - l’impossibilità di governare - a un fronte non più antifascista ma di interessi costituiti. Interessi economici e – chiudendo il cerchio con De Felice – anche politici, i cosiddetti feudi confessionali e postcomunisti.
Al coperto del linguaggio rituale, e assolutamente vuoto. Come l’intransigenza. Ora anche del politicamente corretto, l’eloquio dell’indistinzione, di generi, culture, confessioni, che s’impose alla fine del secondo millennio nel quadrante nord-occidentale del mondo, Usa-Europa. In contemporanea con la globalizzazione, che è l’assetto ben più solido e conseguente dell’economia, imposto invece dal quadrante nord-orientale, Usa-Cina. Ma per un riflesso interno allo stesso Occidente: come difesa, debole, della politica nell’età dell’antipolitica. Segnandone il disfacimento, dopo la delegittimazione dell’Auctoritas al tempo del Vietnam e di Praga, per poi tentarne il recupero limitatamente alle forme esteriori. In linea con la parallela falsificazione del sapere e della storia – ora nelle forme del relativismo e del revisionismo. È un surplace della politica, uno standstill, un segnare il passo, non ininfluente: la difende nel mentre che ne persegue e sancisce l’irrilevanza, è cioè la politica dell’antipolitica - indecisione, indistinzione, e quindi la forza invece dell’equilibrio (giustizia). Ma torniamo all’Italia.
È l’antitaliano, borghese
È la politica dell’antitaliano. Tema antico. Soprattutto toscano ma non solo. A partire da Dante, che nel quadro dell’antipolitica molti vogliono tedesco – lui che pure era distintamente italiano, cultore di ogni memoria anche locale e remota, da Pozzallo al Grossklochner. Dallo steso Petrarca. Fino naturalmente ai toscani del Novecento, da Papini a Montanelli. Ma escluso Malaparte, toscano antipatizzante come nessun altro e tuttavia uomo di mondo.
È un tema che ha debuttato presto come genere letterario: “Roma” è corrotta e spregiudicata già nel 1883, anno di uscita di “L’eredità Ferramonti”, di Gaetano Chelli. Due anni dopo Matilde Serao recidivava, con “La conquista di Roma”. Presto imitati da molti, compreso il siculo-napoletano De Roberto, “I viceré”, 1891-4, forse il più cattivo. Fino a “I vecchi e i giovani” di Pirandello, una sorta di anteprima del “Gattopardo”. Questo si può dire dunque genere meridionale.
Il Risorgimento letterario finì presto. Con non molte opere. Anzi, solo con una: le “Confessioni di un ottuagenario”, pubblicato tardi, come un residuato, e tuttavia a ogni rilettura vivo. Preceduto – non granché - dalle “Mie prigioni”. E seguito da qualche – non granché – epopea garibaldina.
Ma anche l’antipolitica è genere letterario povero, non granché. È esercitazione borghese – le imputazioni a Dante comprese – e provinciale, di chi s’immagina un mondo meraviglioso là fuori. E il cerchio si chiude: l’antipolitica, l’antitaliano e il borghese si sovrappongono e anzi coincidono.
È un laboratorio
Se ne può dire anche bene, fino a un certo punto. Grillo dopo Berlusconi, e ora Renzi: si può dire l’Italia il laboratorio della nuova politica, la politica del millennio. Dopo il parlamentarismo del Novecento, e la politica borghese, delle borghesie nazionali, con gli irredentismi e i risorgimenti, nell’Ottocento.
O anche no, l’Italia è il battistrada europeo di una forma politica già avviata negli Usa. Obama è egli stesso un antipartito. Come già, a suo modo, Clinton. E prima di lui Reagan. Personalità neppure eccelse che tuttavia si sono imposte al partito.
L’elettore vuole un volto, un nome, e un linguaggio cui dare fiducia, non un’assemblea. La riforma elettorale in Italia in senso plebiscitario, per tutti gli organi elettivi (sindaco, presidente della provincia, presidente della regione) eccetto che per il capo del governo, è stata fatta volutamente sulla traccia americana. A lungo predicata e predisposta dalla scienza giuridica e politica sull’orma del decisionismo di Gaetano Mosca e Pareto, o di Carl Schmitt mediato da Gianfranco Miglio, che avevano trovato un varco politico in Craxi.
La funzione di governo è il problema centrale dalla Grande Riforma - il progetto di Craxi - in poi, quindi da venticinque anni (http://www.antiit.com/2009/04/democrazia-plebiscitaria.html). Avversata dai partiti minori, perché ne riduce il peso. E a suo tempo dal Pci, che pure ne condivideva  l’impianto (chi vince le elezioni governa) e il principio democratico ispiratore (l’alternanza delle maggioranze, la sostituibilità). Il Pci l’ha avversata perché la patrocinava Craxi, suo primario avversario politico, anche post-mortem, e l’ha demonizzata coi suoi potenti mezzi di comunicazione, come progetto Gelli o della Rinascita nazionale, un progetto eversivo. Quando non l’ha acculata al fascismo, benché vecchio ormai di settant’anni e sconfitto dalla guerra e dalla Resistenza.
Analogamente hanno agito gli interessi costituiti, dei potentati economici, industriali e finanziari, che non vogliono un governo che governi. Che potrebbe disboscare il sottogoverno, il mercato degli appalti e degli interessi finanziari legati alle opere pubbliche, alla rendita urbana e ai servizi pubblici (telefoni, energia, assicurazioni) , cioè ai profitti facili e ai superprofitti, e della corruzione, grande e piccola, quotidiana.
Si può considerare il plebiscitarismo la risposta anche all’antipolitica, degli interessi costituiti attraverso i media, della cosiddetta opinione pubblica. Una reazione a un’opinione pubblica sempre più privata, anche oltraggiosamente. Ma è una forma politica debole, limitata al voto. La politica stessa peraltro si riorganizza in forme allentate e deboli, attraverso i partiti del capo. Si veda il flop del tesseramento del partito più tradizionale, il Pd, e l’adesione fluttuante alle sue primarie, che al contrario del voto sono rituali e poco decisive – i ripensamenti sono ormai numerosi sui vincitori delle primarie, Marino, De Magistris, Crocetta, lo stesso Vendola.
In un certo senso si ripete a un secolo di distanza, con le ambiguità della questione morale, l’insorgenza della classe politica che Mosca aveva studiato e classificato. Della politica delle élites, in un quadro di riferimento frammentato e fragile, se non confuso. Per la crisi economica e per l’invadenza dell’apparato repressivo, sotto la maschera della giustizia.
La comunicazione deviata
Dovendo tirare le somme, si può dire l’antipolitica in Italia un fatto di comunicazione deviata. D’incultura della comunicazione e di disinformazione – sì, proprio: la disinformacija della guerra fredda. Di interessi sovversivi e\o d’incapacità o ignoranza. Della comunicazione allargata: estesa alla formazione accademica - dei tanti guru che occhieggiano poi illustri dai fondi dei giornali, telegiornali e spettacolini “d’informazione” - e alla storia politica, talmente indigente da superare il ridicolo.
Un impoverimento a cui la politica volentieri si piega, anche se si disarticola e si deprime: chiacchierare è comunque meglio che lavorare. E con un profilo lusinghiero e un paio di twitter si fa a meno di applicarsi e produrre idee, o fare politica. Si veda la commediola impressionante ogni giorno, ripetitiva, inesauribile, della politica agitata per metà dei giornali e dei telegiornali, diecine di pagine e eterni quarti dì’ora sul nulla. E settimanalmente di una dozzina di “approfondimenti” o salotti televisivi. A nessun fine se non la ricerca di un effetto deformante, dello “scandalo”. Succede per la politica come per le ogni altra espressione associativa, che la comunicazione – l’opinione pubblica – deve comunque sempre esporre in forme deviate, grottesche, corrotte, eccetera.  
Un Grande Censore ci vorrebbe, che naturalmente non è un rimedio. E quindi la dissoluzione è inarrestabile? I giornali hanno dimezzato (dimezzato!) le vendite. I politici non hanno un filo di credibilità, nemmeno i più belli sullo schermo. Ma non si vedono segni di ravvedimento.  Ma se antipolitica è la politica, il personale politico cioè e l’opinione pubblica, non c’è rimedio possibile se non una rivolta. Che non si vede: l’antipolitica è la grande bonaccia della comunicazione deviata. 
(fine)  

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