È il populismo, è l’antiberlusconismo
Oppure
l’antipolitica si contrabbanda col populismo. Che però non si sa cos’è e comunque
merita una trattazione a parte – si fa troppo spesso confusione: l’opinione
pubblica è confusa, viene confusa. Se ne può dare uno schema in relazione al
fenomeno Berlusconi.
Sia
il “popolare” la “cultura di massa”. Non ce n’è altro: la campagna? la magia?
la taranta? i dannati della terra? Retorica, neppure più bene intenzionata. E
le masse (della cultura, della comunicazione) sono sempre quell’agglomerato
amorfo e contraddittorio che le forze egemoni informano. Questo è scuola di
Francoforte, invecchiata quanto si voglia e altezzosa, ma è la verità. Tutto è
già del resto nelle “Mitologie” di Barthes, che sono vecchie di quasi sessant’anni.
O nella “Società dello spettacolo”, dieci anni dopo. Gramsci, che nella
subalternità prefigurava, o forse solo auspicava, forme di resistenza alle
culture (interessi) dominanti, non avrebbe difficoltà a riconoscerlo. Come
chiunque viva nel mondo nel suo tempo.
L’antiberlusconismo
questo è: un adattamento volgare della stessa scuola, gli occhi chiusi davanti alla
realtà. Creandosi un paese deluso, o confuso, o narcotizzato, o farfallone, o
corrotto. Una professione di aristocraticismo che avrebbe fatto inorridire
Horkheimer e Adorno, plebeo ritenendo anche il “che fare?”, un po’ d’impegno
politico. Mentre volgare è l’inarcare le ciglia, da zia offesa. Il paese
restando la sola cosa solida di questo interminabile post-sovietismo-cum-Dc,
arguto, rapido, agile, anche se non lo facciamo parlare, giusto il piagnisteo,
o linguaggio Rai, e quindi si concentra sul voto. Quanta vitalità non deve
avere il paese per sopravvivere in tanta dolente ipocrisia?
Ancora prima, volendo essere troppo seri, l’urbanità unificava. Nel senso proprio, della città. Che si fa risalire, in questo senso, alla città di Haussmann, uniformemente borghese, e cioè Secondo Impero francese. Ma la storia è nata prima della Francia, e della città già Quintiliano lamenta che la scelta delle parole, la loro pronuncia, e i linguaggi fossero quelli derivati a cascata dai maggiorenti e le persone colte, “tutto il contrario della rusticità”, che ancora si portava a segno di autenticità – non detta, Quintiliano non si avventurava come Heidegger in parole vuote di senso e di senno come l’autenticità.
Ancora prima, volendo essere troppo seri, l’urbanità unificava. Nel senso proprio, della città. Che si fa risalire, in questo senso, alla città di Haussmann, uniformemente borghese, e cioè Secondo Impero francese. Ma la storia è nata prima della Francia, e della città già Quintiliano lamenta che la scelta delle parole, la loro pronuncia, e i linguaggi fossero quelli derivati a cascata dai maggiorenti e le persone colte, “tutto il contrario della rusticità”, che ancora si portava a segno di autenticità – non detta, Quintiliano non si avventurava come Heidegger in parole vuote di senso e di senno come l’autenticità.
Al
tempo di Marx, senza scuole, senza giornali e senza altri mezzi di
comunicazione di massa, c’era una certa spontaneità popolare, comunque non
borghese, o piccolo borghese. Ora “il linguaggio «popolare» non è altro che il
linguaggio borghese imbastardito, generalizzato volgarizzato, imbalsamato in
una specie di «senso comune»”, come scriveva Barthes quarant’anni fa, “un
purgatorio”, che sarebbe “rivoluzionario” evitare. Ora comunque - la semiologa
Kristeva l’ha accertato, “la comunicazione è una merce” - fatta apposta insomma
per Berlusconi, il Grande Venditore. Che, scacciato dalla porta, rientra dalla
finestra, ma è così che dovrebbe.
Di questa cultura di massa Berlusconi è il sintomo e non la causa. Non ha creato un linguaggio, lo ha sfruttato. Non ha creato il circo mediatico, ci si è inserito. Non ha creato il teatrino politico, ci si è inserito al meglio. È il segno (questa gli piacerebbe…) non la malattia. Ha saputo sfruttare la sovversione perché meglio degli altri ha letto il senso dell’antipolitica, della rivolta contro i partiti. Con la “discesa in campo”, “forza Italia”, il “partito della libertà”, a tratti perfino dell’“amore”- sa anche che il messaggio dev’essere semplice. Da sempre ci se ne attende la fine, prima con la Boccassini, la paladina di De Benedetti nell’affare Sme, poi con Bossi, col cancro, con l’incapacità di governo, con la moglie, con Fini, ora di nuovo con la Boccassini. Ha resistito perché ha interpretato meglio degli avversari il senso delle cose: il successo di Berlusconi non è stato quello del tiranno, o del moghul dei media. È – è stato - lo specchio dell’opposizione, una lettura della realtà molto più efficace di quella dei suoi supponenti nemici.
Di questa cultura di massa Berlusconi è il sintomo e non la causa. Non ha creato un linguaggio, lo ha sfruttato. Non ha creato il circo mediatico, ci si è inserito. Non ha creato il teatrino politico, ci si è inserito al meglio. È il segno (questa gli piacerebbe…) non la malattia. Ha saputo sfruttare la sovversione perché meglio degli altri ha letto il senso dell’antipolitica, della rivolta contro i partiti. Con la “discesa in campo”, “forza Italia”, il “partito della libertà”, a tratti perfino dell’“amore”- sa anche che il messaggio dev’essere semplice. Da sempre ci se ne attende la fine, prima con la Boccassini, la paladina di De Benedetti nell’affare Sme, poi con Bossi, col cancro, con l’incapacità di governo, con la moglie, con Fini, ora di nuovo con la Boccassini. Ha resistito perché ha interpretato meglio degli avversari il senso delle cose: il successo di Berlusconi non è stato quello del tiranno, o del moghul dei media. È – è stato - lo specchio dell’opposizione, una lettura della realtà molto più efficace di quella dei suoi supponenti nemici.
Qui
si può innescare il discorso del paese confuso, o narcotizzato, ma dopo aver
capito la propria pochezza, si nobiliti pure con Proust o le zie, e il naso
arricciato per lo sdegno. “La doxa,
l’opinione pubblica, costitutiva delle nostre società democratiche, potentemente
aiutata dalle comunicazioni di massa, non è definita dai suoi limiti, dalla sua
energia di esclusione, dalla sua censura”?
Questo sapeva Barthes già quarant'anni fa - ma è meglio non esagerare.
La politica della giustizia
La politica della giustizia
È
la politica del più forte. La politica è la leva della giustizia, naturalmente
democratica, l’antipolitica è la giustizia della forza.
Coltivata in Italia per decenni in ambito liberale e radicale come critica della partitocrazia (Maranini, Scalfari, Ronchey), è diventata negli anni Ottanta scudo e punta di lancia dei “padroni”. Cefis ha aperto la strada solitario negli anni Settanta, Romiti (Agnelli), De Benedetti e poi Berlusconi hanno fatto la corsa e infine l’hanno vinta. Con i media, e il sottile controllo degli apparati della legalità. All’insegna della semplificazione della politica (bipolarismo) e della governabilità. In realtà al solo fine di “occupare la politica”, non di renderla efficiente – e anzi sempre contrastando ogni autonomia della politica.
Successivamente, dissolvendosi la critica laica nel compromesso storico, vi ha inoculato il veleno dell’antipolitica. Per cui il partito Comunista, che aveva un terzo degli amministratori pubblici in Italia, li ha abbandonati al discredito preconcetto, lieto come un qualsiasi partito d’opinione di fare la lezione di morale alla storia. Gli amministratori pubblici comunisti, un esercito, si trovarono esposti al discredito non per colpe specifiche ma in quanto professionisti della politica – a opera del loro stesso partito, dei compiaciuti “salotti (?) romani (?)” del loro partito.
Rapidamente ha poi elaborato un’antipolitica di secondo grado, quella delle caste, non dipendenti dalla politica ma ad essa non estranee. che denuncia nel mentre che le pratica, in una sorta di gioco dell’oca.
E la faziosità
Antipolitica è anche la faziosità, che connota tutta la storia della Repubblica. Renzo De Felice la addebitava all’antifascismo. Non in quanto fenomeno storico, della Resistenza al fascismo e in guerra, ma in quanto categoria costituzionale, della Costituzione materiale del dopoguerra: la demonizzazione dell’avversario politico, la conflittualità sociale esasperata, sempre e comunque, l’assemblearismo inconcludente, che si soddisfa nel rendere impossibile il governo (il “governo attraverso la crisi”). Ma essa è comune, si può aggiungere, oltre che alla galassia ex comunista, anche a quella ex confessionale. Di cui sono espressione i gestori dell’opinione pubblica, la Rai e i grandi giornali. Che in Italia sono tutti padronali, e quindi estendono la faziosità - l’impossibilità di governare - a un fronte non più antifascista ma di interessi costituiti. Interessi economici e – chiudendo il cerchio con De Felice – anche politici, i cosiddetti feudi confessionali e postcomunisti.
Coltivata in Italia per decenni in ambito liberale e radicale come critica della partitocrazia (Maranini, Scalfari, Ronchey), è diventata negli anni Ottanta scudo e punta di lancia dei “padroni”. Cefis ha aperto la strada solitario negli anni Settanta, Romiti (Agnelli), De Benedetti e poi Berlusconi hanno fatto la corsa e infine l’hanno vinta. Con i media, e il sottile controllo degli apparati della legalità. All’insegna della semplificazione della politica (bipolarismo) e della governabilità. In realtà al solo fine di “occupare la politica”, non di renderla efficiente – e anzi sempre contrastando ogni autonomia della politica.
Successivamente, dissolvendosi la critica laica nel compromesso storico, vi ha inoculato il veleno dell’antipolitica. Per cui il partito Comunista, che aveva un terzo degli amministratori pubblici in Italia, li ha abbandonati al discredito preconcetto, lieto come un qualsiasi partito d’opinione di fare la lezione di morale alla storia. Gli amministratori pubblici comunisti, un esercito, si trovarono esposti al discredito non per colpe specifiche ma in quanto professionisti della politica – a opera del loro stesso partito, dei compiaciuti “salotti (?) romani (?)” del loro partito.
Rapidamente ha poi elaborato un’antipolitica di secondo grado, quella delle caste, non dipendenti dalla politica ma ad essa non estranee. che denuncia nel mentre che le pratica, in una sorta di gioco dell’oca.
E la faziosità
Antipolitica è anche la faziosità, che connota tutta la storia della Repubblica. Renzo De Felice la addebitava all’antifascismo. Non in quanto fenomeno storico, della Resistenza al fascismo e in guerra, ma in quanto categoria costituzionale, della Costituzione materiale del dopoguerra: la demonizzazione dell’avversario politico, la conflittualità sociale esasperata, sempre e comunque, l’assemblearismo inconcludente, che si soddisfa nel rendere impossibile il governo (il “governo attraverso la crisi”). Ma essa è comune, si può aggiungere, oltre che alla galassia ex comunista, anche a quella ex confessionale. Di cui sono espressione i gestori dell’opinione pubblica, la Rai e i grandi giornali. Che in Italia sono tutti padronali, e quindi estendono la faziosità - l’impossibilità di governare - a un fronte non più antifascista ma di interessi costituiti. Interessi economici e – chiudendo il cerchio con De Felice – anche politici, i cosiddetti feudi confessionali e postcomunisti.
Al
coperto del linguaggio rituale, e assolutamente vuoto. Come l’intransigenza. Ora
anche del politicamente corretto, l’eloquio dell’indistinzione, di generi,
culture, confessioni, che s’impose alla fine del secondo millennio nel
quadrante nord-occidentale del mondo, Usa-Europa. In contemporanea con la
globalizzazione, che è l’assetto ben più solido e conseguente dell’economia,
imposto invece dal quadrante nord-orientale, Usa-Cina. Ma per un riflesso
interno allo stesso Occidente: come difesa, debole, della politica nell’età
dell’antipolitica. Segnandone il disfacimento, dopo la delegittimazione dell’Auctoritas al tempo del Vietnam e di
Praga, per poi tentarne il recupero limitatamente alle forme esteriori. In
linea con la parallela falsificazione del sapere e della storia – ora nelle
forme del relativismo e del revisionismo. È un surplace della politica, uno standstill, un segnare il
passo, non ininfluente: la difende nel mentre che ne persegue e sancisce
l’irrilevanza, è cioè la politica dell’antipolitica - indecisione,
indistinzione, e quindi la forza invece dell’equilibrio (giustizia). Ma
torniamo all’Italia.
È l’antitaliano, borghese
È la
politica dell’antitaliano. Tema antico. Soprattutto toscano ma
non solo. A partire da Dante, che nel quadro dell’antipolitica molti vogliono
tedesco – lui che pure era distintamente italiano, cultore di ogni memoria
anche locale e remota, da Pozzallo al Grossklochner. Dallo steso Petrarca. Fino
naturalmente ai toscani del Novecento, da Papini a Montanelli. Ma escluso
Malaparte, toscano antipatizzante come nessun altro e tuttavia uomo di mondo.
È un tema che ha
debuttato presto come genere letterario: “Roma” è corrotta e spregiudicata già
nel 1883, anno di uscita di “L’eredità Ferramonti”, di Gaetano Chelli. Due anni
dopo Matilde Serao recidivava, con “La conquista di Roma”. Presto imitati da
molti, compreso il siculo-napoletano De Roberto, “I viceré”, 1891-4, forse il
più cattivo. Fino a “I vecchi e i giovani” di Pirandello, una sorta di
anteprima del “Gattopardo”. Questo si può dire dunque genere meridionale.
Il Risorgimento
letterario finì presto. Con non molte opere. Anzi, solo con una: le
“Confessioni di un ottuagenario”, pubblicato tardi, come un residuato, e
tuttavia a ogni rilettura vivo. Preceduto – non granché - dalle “Mie prigioni”.
E seguito da qualche – non granché – epopea garibaldina.
Ma anche l’antipolitica è genere
letterario povero, non granché. È esercitazione borghese – le imputazioni a
Dante comprese – e provinciale, di chi s’immagina un mondo meraviglioso là
fuori. E il cerchio si chiude: l’antipolitica, l’antitaliano e il borghese si
sovrappongono e anzi coincidono.
È un laboratorio
Se ne può dire
anche bene, fino a un certo punto. Grillo dopo Berlusconi, e ora Renzi: si
può dire l’Italia il laboratorio della nuova politica, la politica del
millennio. Dopo il parlamentarismo del Novecento, e la politica borghese, delle
borghesie nazionali, con gli irredentismi e i risorgimenti, nell’Ottocento.
O
anche no, l’Italia è il battistrada europeo di una forma politica già avviata
negli Usa. Obama è egli stesso un antipartito. Come già, a suo modo, Clinton. E
prima di lui Reagan. Personalità neppure eccelse che tuttavia si sono imposte
al partito.
L’elettore
vuole un volto, un nome, e un linguaggio cui dare fiducia, non un’assemblea. La
riforma elettorale in Italia in senso plebiscitario, per tutti gli organi
elettivi (sindaco, presidente della provincia, presidente della regione)
eccetto che per il capo del governo, è stata fatta volutamente sulla traccia
americana. A lungo predicata e predisposta dalla scienza giuridica e politica
sull’orma del decisionismo di Gaetano Mosca e Pareto, o di Carl Schmitt mediato
da Gianfranco Miglio, che avevano trovato un varco politico in Craxi.
La funzione di governo è il problema centrale dalla
Grande Riforma - il progetto di Craxi - in poi, quindi da venticinque anni (http://www.antiit.com/2009/04/democrazia-plebiscitaria.html). Avversata dai partiti minori, perché ne riduce il peso. E a suo tempo dal
Pci, che pure ne condivideva l’impianto
(chi vince le elezioni governa) e il principio democratico ispiratore
(l’alternanza delle maggioranze, la sostituibilità). Il Pci l’ha avversata
perché la patrocinava Craxi, suo primario avversario politico, anche post-mortem, e l’ha demonizzata coi suoi
potenti mezzi di comunicazione, come progetto Gelli o della Rinascita
nazionale, un progetto eversivo. Quando non l’ha acculata al fascismo, benché
vecchio ormai di settant’anni e sconfitto dalla guerra e dalla Resistenza.
Analogamente hanno agito gli interessi costituiti,
dei potentati economici, industriali e finanziari, che non vogliono un governo
che governi. Che potrebbe disboscare il sottogoverno, il mercato degli appalti
e degli interessi finanziari legati alle opere pubbliche, alla rendita urbana e
ai servizi pubblici (telefoni, energia, assicurazioni) , cioè ai profitti
facili e ai superprofitti, e della corruzione, grande e piccola, quotidiana.
Si
può considerare il plebiscitarismo la risposta anche all’antipolitica, degli
interessi costituiti attraverso i media, della cosiddetta opinione pubblica.
Una reazione a un’opinione pubblica sempre più privata, anche oltraggiosamente.
Ma è una forma politica debole, limitata al voto. La politica stessa peraltro
si riorganizza in forme allentate e deboli, attraverso i partiti del capo. Si
veda il flop del tesseramento del partito più tradizionale, il Pd, e l’adesione
fluttuante alle sue primarie, che al contrario del voto sono rituali e poco
decisive – i ripensamenti sono ormai numerosi sui vincitori delle primarie,
Marino, De Magistris, Crocetta, lo stesso Vendola.
In
un certo senso si ripete a un secolo di distanza, con le ambiguità della
questione morale, l’insorgenza della classe politica che Mosca aveva studiato e
classificato. Della politica delle élites,
in un quadro di riferimento frammentato e fragile, se non confuso. Per la crisi
economica e per l’invadenza dell’apparato repressivo, sotto la maschera della
giustizia.
(fine)
La comunicazione deviata
Dovendo
tirare le somme, si può dire l’antipolitica in Italia un fatto di comunicazione
deviata. D’incultura della comunicazione e di disinformazione – sì, proprio: la
disinformacija della guerra fredda.
Di interessi sovversivi e\o d’incapacità o ignoranza. Della comunicazione
allargata: estesa alla formazione accademica - dei tanti guru che occhieggiano
poi illustri dai fondi dei giornali, telegiornali e spettacolini “d’informazione”
- e alla storia politica, talmente indigente da superare il ridicolo.
Un
impoverimento a cui la politica volentieri si piega, anche se si disarticola e
si deprime: chiacchierare è comunque meglio che lavorare. E con un profilo lusinghiero
e un paio di twitter si fa a meno di applicarsi e produrre idee, o fare
politica. Si veda la commediola impressionante ogni giorno, ripetitiva,
inesauribile, della politica agitata per metà dei giornali e dei telegiornali,
diecine di pagine e eterni quarti dì’ora sul nulla. E settimanalmente di una
dozzina di “approfondimenti” o salotti televisivi. A nessun fine se non la
ricerca di un effetto deformante, dello “scandalo”. Succede per la politica
come per le ogni altra espressione associativa, che la comunicazione – l’opinione
pubblica – deve comunque sempre esporre in forme deviate, grottesche, corrotte,
eccetera.
Un
Grande Censore ci vorrebbe, che naturalmente non è un rimedio. E quindi la dissoluzione
è inarrestabile? I giornali hanno dimezzato (dimezzato!) le vendite. I politici
non hanno un filo di credibilità, nemmeno i più belli sullo schermo. Ma non si
vedono segni di ravvedimento. Ma se
antipolitica è la politica, il personale politico cioè e l’opinione pubblica,
non c’è rimedio possibile se non una rivolta. Che non si vede: l’antipolitica è
la grande bonaccia della comunicazione deviata.
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