astolfo
È tema invernale, verrebbe da dire risalendo alla periodicità dell’antipolitica su questo sito. Ma è ben reale, non una metereopatia. “La politica di questi tempi non c’è”, dice Benigni sbarcando a Roma per “I dieci comandamenti”, ma anche questo non è vero.
È tema invernale, verrebbe da dire risalendo alla periodicità dell’antipolitica su questo sito. Ma è ben reale, non una metereopatia. “La politica di questi tempi non c’è”, dice Benigni sbarcando a Roma per “I dieci comandamenti”, ma anche questo non è vero.
Il presidente Napolitano la fa
risalire a “Mani Pulite”, l’aggressione dei giudici alla politica: scrivendo al
“Corriere della sera” oggi, in risposta ai rilievi di Galli della Loggia ieri, richiama
– come già in precedenti suoi scritti – la lettera a lui indirizzata dal
deputato socialista Moroni , che con essa prendeva congedo dalla vita. Con l’insofferenza
all’aggressione, senza peraltro difesa possibile.
“Mani Pulite” certamente c’entra,
la campagna del duo Borrelli-Di Pietro, con la complicità di molti giudici milanesi, Tarantola in testa. Ma c’entra
anche la presidenza della Repubblica, di Scalfaro e dello stesso Napolitano,
coi loro governi del presidente, più spesso di origine extraparlamentare, i
ministri graditi – tutti più o meno fallimentari - e quelli sgraditi, gli
scioglimenti a piacere delle Camere, i moniti a ripetizione, i gradimenti, i
veti, le consultazioni chilometriche, i preincarichi,
gli incarichi esplorativi. L’apice di questa connivenza se ne può dire il falso avviso di reato
fatto recapitare nel 1994 a Berlusconi da Borrelli e Scalfaro, sul giornale di
Milano, il “Corriere della sera”, per bloccare la riforma delle pensioni - che sarà
fatta vent’anni, quasi, più tardi, a costi ormai proibitivi, su impulso e per
volontà di un altro presidente, Napolitano.
Dopodiché, l’antipolitica non si può restringere alla lettera del povero Moroni. È anzi
pratica costante e diversificata. A opera dei corpi politici elitistici, non
elettivi: i media e i loro padroni, gli interessi costituiti, le istituzioni
non elettive. Tra esse il Quirinale settennale, un’anomalia nel panorama costituzionale
mondiale - che nessuna riforma si propone di correggere. Una buona
legge dev’essere buona politica, prima che proceduralmente corretta. Il
Quirinale e la Corte Costituzionale, la cui composizione peraltro – e quindi il
suo orientamento – è quirinalizia, si surrogano un potere che la Costituzione
non dà loro, se si sovrappongono al legislatore.
Come l’antimafia
Come
l’antimafia, l’antipolitica è specchio del suo oggetto. Deformante, anche se
sembra impossibile: è la passione eccessiva, invadente, opportunistica,
violenta, applicata alla politica. È una politica, deteriore.
S’intende
per antipolitica l’insoddisfazione verso la politica, la disaffezione, e
perfino la lotta contro. Ma in questa chiave è una forma della politica. Questo
è in Italia evidente nei movimenti più antipolitici, quello di Di Pietro, del
comico Grillo, e della giustizia politica – il “partito” dei giudici. È invece,
propriamente, un aspetto della più generale concezione della politica come
guerra civile, di tutti contro tutti. Che fu delle ideologie escatologiche e
permane come arma politica.
Moralmente –
psicologicamente – è una forma di
misantropia, di narcisismo deviato: tutto è marcio non per un criterio di legge
ma all’“infuori di me”. Politicamente è antidemocratica. La politica, per
quanto corrotta, per quanto totalitaria, passione esclusiva, è sempre
democratica – purché non tirannica. Ma sempre è anche un aggiustamento, la scelta
del male minore, al meglio una riparazione. Sia essa la guerra, che può essere
necessaria, come dice Orwell, “ma non può essere né buona né sensata”, o
l’appalto delle fognature. Per questo l’antipolitica è sospetta. La politica è debole e arrendevole all’antipolitica per effetto della democrazia. Forse
malintesa, ma è la democrazia che ha indebolito la funzione principale della
politica, di coagulo rispetto al dissenso – la capacità di scelta e di
leadership. Sia perché la politica è ideologica (massimalista, assolutista), e
sia perché è riduttiva (minimalista), sfiancandosi nell’assorbimento di ogni
forma di dissenso. Che naturalmente è sempre di massa, anche se marginale: in
democrazia ogni fenomeno è di massa.
Ma antidemocratica
è sempre l’antipolitica: intellettuale, elitaria o professionale - il governo
dei tecnici. È sempre stata la leva
dell’assolutismo in politica: è giudice insindacabile. Emerge tra Cinque e
Seicento con l’uso di Tacito (moralista si spera sincero e ineccepibile) contro
Machiavelli, da parte di gesuiti e protestanti insieme, risolvendo la politica
nel potere e stroncando per lungo tempo l’autonomia del politico (diritti di
libertà, diritti di possesso, patti).
Con la Repubblica, l’antipolitica è diventata una specialità
italiana. Dapprima in ceti ristretti, liberalradicali, poi come protesta di
massa. L’Italia liberale non ha mai amato i partiti politici, ma più nella
Repubblica. Sempre a opera degli stessi, i liberali, che al fondo sono
anarchici – talvolta “repubblicani”, cioè del Pri, un partito, a volte
radicali, e da ultimo, come sembra, Democratici. I liberali “non esistono” in
Italia, ma per questo si pretendono “assolutisti”: non si è mai abbastanza
liberali né liberi. Da qui l’invocazione del “tecnico” della politica. Un
equivoco, che si trasforma in fucina dell’antipartito, dell’antipolitica,
dell’antidemocrazia.
Il tecnico platonico
È
lo stesso equivoco della “società civile”, quella dell’“Italia paese di merda”.
Che non ha alcun titolo per dirlo, volendosi essa ammanicata e superiore. Avida.
In piccolo certo, ma diffusamente. L’inchiesta romana individua solo un rivolo
in un mare. E caratteristicamente si vuole restringere a due imprenditori ex
carcerati, mentre ne è pregna la società civile, del
partito degli appalti, gravido di architetti e ingegneri, dei dottori,
commercialisti e medici, delle segreterie degli stessi censori pontifica tori,
delle loro fondazioni, delle loro onlus.
Il
tecnico è la personificazione del governo platonico degli intellettuali. E
dell’insofferenza di una storia senza stacchi. Senza cambiamento. Senza nemmeno
processi o tagli netti nella guerra civile che pure c’è stata, solo vendette.
Del trasformismo fin dall’inizio con Rattazzi. Di una liberazione che fu solo
militare, opera degli Alleati. Di una Resistenza che fu politica e non
militare, un adattamento alla sconfitta e all’8 settembre, e anzi accentuò i
caratteri perversi, la vendetta, la faida, la violenza sregolata.
L’antipolitica
è una politica. La politica dell’antipolitica è già in Salvemini, in “Cocò
all’università di Napoli o la scuola della mala vita”, il saggio satirico col
quale inaugurò la collaborazione a “La Voce “di Papini e Prezzolini il 31
dicembre 1908 (ma i temi della satira sono già tutti nelle “Lettere
meridionali” di Pasquale Villari del 1862). “L’azione politica degli spostati
ha una grandissima importanza nella società moderne, perché, non avendo nulla
da fare, fanno per tutto il giorno della politica: sono giornalisti,
libellisti, galoppini elettorali,
conferenzieri, propagandisti”. E, sempre non avendo nulla da fare, fanno subito
carriera, ci tentano, atteggiandosi a “capipopolo” e “guardiani dei segreti”. Gli
“spostati”, termine che avrebbe fatto fortuna nella redazione americana, “misfits”, Salvemini dice “il cosiddetto
proletariato dell’intelligenza”, e intende quelli che vogliono tutto subito ma
non sanno che.
Quando Napolitano reagì infastidito a Della Valle, che faceva una
campagna pubblicitaria contro i politici, disse una cosa giusta: “Si impreca
contro la politica ma la politica siamo tutti noi”. L’antipolitica è una
politica, estremamente insidiosa. La più brutta perché perversa: si finge
infatti perseguitata mentre è la politica dei padroni: imprenditori, mercanti,
professori, vescovi.
La decadenza, l'ignoranza
Guardando
oltralpe, è anche il segno dell’epoca, perlomeno in Europa. È il segno
dell’Europa, in Germania, in Olanda, in Gran Bretagna, Francia, della sua
“decadenza”. È una deriva anzi di un dibattito ormai vecchio di quarant’anni,
nel seno della Trilaterale del capitale. Della democrazia ingovernabile e della
ricostituzione del potere – questione peraltro inafferrabile: la politica non è
il potere, il potere è una sua espressione, sempre labile.
Anche
la storia si fa nel segno dell’antipolitica. Quella dell’Italia nel centocinquantenario,
per esempio, tre anni fa. O del Sud da due o tre decenni. O della Libia, per
dire, e degli altri paesi confinanti. L’antipolitica è anche l’esito di un’incultura,
e di un analfabetismo di ritorno, specie nei media. Non
sappiamo più cosa succede nemmeno a Chiasso o a Capodistria – e a Passariano
del Friuli non sanno più nulla di Roma. Non siamo interessati, una forma d’ignoranza
caratteristica delle fasi depressive: la chiusura in se stessi, una chiusura
confusa in un se stesso confuso. Neppure alle guerre di sterminio dei nostri
vicini arabi. Nulla sappiamo di come sono arrivati dalla Libia 50 mila
clandestini quest’anno, e nula naturalmente dei 3.600 morti sui gommoni (i
morti noti). Niente sembra interessre a nessuno, se non dosi sempre più
massicce di indiscrezioni, scandali, intercettazioni r buchi della serratura.
Succede alla “Domenica Sportiva” come alle cronache giudiziarie, alla cronaca
nera, alla cronaca rosa, mentre altre cronache, gli esteri, la cultura, sono
cancellate. Analogamente con la cronaca politica, che un solo modulo ha:
abbattere Craxi, abbattere Berlsuconi, abbattere Prodi, ora abbattere Renzi - e
anche Grillo, a favore di Salvini…
All’ignoranza conduce anche la prova del nove: il rifiuto impolitico della politica non è “intelligente”, nemmeno nella forma dell’opportunismo. Neppure nel nome dell’umanitarismo, della giustizia, e delle tante innovazioni che si vorrebbero beneauguranti (eu-) e sono assassine: eugenetica, eutanasia, eunomia, e l’eucrasia chimica. È l’incapacità d’immedesimarsi, di suscitare identità, legami. E l’inutilità intellettuale – dell’opinione comune (pubblica) e dei maîtres-à-penser. La sterilità: del saperne di più, della perfezione, dell’albagia.
All’ignoranza conduce anche la prova del nove: il rifiuto impolitico della politica non è “intelligente”, nemmeno nella forma dell’opportunismo. Neppure nel nome dell’umanitarismo, della giustizia, e delle tante innovazioni che si vorrebbero beneauguranti (eu-) e sono assassine: eugenetica, eutanasia, eunomia, e l’eucrasia chimica. È l’incapacità d’immedesimarsi, di suscitare identità, legami. E l’inutilità intellettuale – dell’opinione comune (pubblica) e dei maîtres-à-penser. La sterilità: del saperne di più, della perfezione, dell’albagia.
È la trovata migliore – più vasta, più furba – del disusato
totalitarismo. I capi sono capetti, e tuttavia ancora maestri, guide, padroni.
E fuori del potere nulla, solo buoni sentimenti e buona coscienza.
La politica di scorta
Ma più propriamente parliamo dell’Italia. L’antipolitica è la
politica dell’Italia da circa vent’anni: gestita da interessi più o meno
dichiarati contro la politica classica dei partiti che fa riferimento alle
elezioni periodiche. Gestita da molti magistrati e dai grandi giornali,
padronali. E da una sinistra confusa (autolesionista): “organizzare” cinque o
sei cortei a Roma attorno al Parlamento attorno ai voti di fiducia, portandovi
come massa d’urto i disoccupati napoletani, o i veterosindacalisti in gita
premio a Roma, è un disegno, anche se controproducente.
In
nessun paese al mondo, Afghanistan
escluso, e forse l’Iraq, la politica necessita di tante scorte al suo
personale, anche minore, anche non più attivo. Qualunque ministro o ex
ministro, o sottosegretario, o parlamentare, e molti ex parlamentari, i
presidenti di Regione e delle Province, i sindaci, gli assessori, molte spesso
anche solo ex, si aggirano tra guardie pubbliche e private. Senza nessuna
minaccia terroristica organizzata, giusto per la diffusa ostilità alla politica
che la Rai, l’Ansa, i giornali, i telegiornali e i talk show diffondono a dosi
ogni giorno massicce, costanti.
Fuori tempo
E
se l’antipolitica avesse fatto il suo tempo? Tutto lo indica, dopo vent’anni
inconcludenti. E del resto, se molte politiche sono deboli, altre sono forti, dei
cristiano-democratici merkeliani per esempio, o della Russia di Putin. Se era
il segno di un’epoca, del mercato (il consumismo, la disattenzione, il
marketing) ha fallito. O allora l’epoca non è del mercato. Ma lo è, il consumismo
è ben vivo e durevole, è l’antipolitica italiana che non è niente.
Fa ancora senso rivedere nella
memoria gli streaming di Bersani, segretario e leader del Pd, vittorioso alle
elezioni, che contratta il governo con una Lombardi per conto di Grillo. Non
con Grillo, che si rifiutava. Con una che rideva, il cui unico precedente in
carriera era il neo fascismo - il genere
fasciocomunista che tanto piace agli (ex) Pci, ma questo è un altro argomento. Fa
senso per Bersani, onest’uomo, ma più per Grillo. Che poteva fare il Reagan della
situazione, il centromediano e il centravanti, e forse anche l’arbitro: un
comico che in un’elezione diventa il secondo partito e a cui subito la presidenza
della Repubblica e il presidente del consiglio incaricato offrono il governo. E
si rifiuta – destinandosi allo sgonfiamento. Un’antipolitica che, se non ha
fatto il suo tempo, è solo un pernacchio.
La
vecchia politica si era anchilosata al morso stretto di giganteschi apparati di
partito, nazionali e locali (i federali…). I segretari di partito contavano più
dei capi di governo, e i segretari di federazione ben più dei parlamentari e
dei ministri espressi localmente. L’ha sostituita la politica dei talk show. Un
teatrino sorridente, ghignante, beato di sé, sempre dal lato giusto della
faccia, ma ripetitivo, inconcludente, e anche insulso, di attori di
terz’ordine. Agli ordini di piccoli mattatori di cui il prototipo e il principe
è Santoro, che non è il mignolo di un Gassmann o di un Sordi. Tutti peraltro
fatti con lo stampino, Fazio, Floris, Santoro, Lerner – mentre Vespa è relegato
verso la mezzanotte, e gli altri all’alba. Per non dire dei loro comici,
stupefacenti: tutti da centralismo democratico, ma di tipo brezneviano, se la
Rai li mandasse al mercato andrebbero a ruba, come il berretto verde con la
stella rossa del presidente Mao. Il loro pubblico è lo stesso, che ogni sera
trasmigra da un condottiero all’altro: erano quattro-cinque milioni, quanto
bastavano a far pesare l’auditel, ora sono dimezzati, e questo è tutto. Sono
fra il 5 e il 10 per cento degli elettori, ma non spostano, cioè sono sempre
gli stessi – buona parte sono peraltro di destra, stanno lì per indignarsi. E
da qualche tempo forse nemmeno votano, giocano agli indignados.
I
segni di stanchezza, se non di un rovesciamento, sono numerosi. La legge
elettorale che si tenta rimette al centro i partiti. Che però non sanno essere
altro che centralismo democratico, malgrado le primarie. Come correttivo si ripropone
la preferenza, per salvare qualcosa dell’uninominale, della scelta diretta del
rappresentante parlamentare col voto. Ma più potrebbe pesare la rivolta
generazionale. Mentre si “vede” sempre più il bluff dell’informazione, in questi anni al di sotto di ogni minima
deontologia: si vede nel calo persistente delle vendite prima che della
credibilità.
L’opinione pubblica finita a Milano
L’antipolitica
contrabbanda la fine (l’abbattimento) dell’opinione pubblica. È il segno della
rivoluzione italiana in corso dal 1992, che è in realtà una controrivoluzione e
per molti aspetti (le carcerazioni di massa, la dissoluzione dei Parlamenti) un
vero e proprio golpe, in senso tecnico: l’aggiramento, la negazione di ogni
spazio alla sfera pubblica della politica. Quello che l’inglese sinteticamente
chiama l’opinione pubblica perché sommariamente s’identifica con la libertà di
stampa. La libertà di stampa in Italia si applica a circonvenire l’opinione. A
deviarla, a comprimerla, a svuotarla quando si fosse formata, nel nome di
niente – una falsa questione morale, una agitata cioè da uomini di potere
oscuri, editori, giudici, sbirri. Che si attegiano a destra pura, e a sinistra altrettanto pura - il fasciocomunismo non è una invenzione.
Senza reazione, bisogna dire: né di massa né d’élite. La classe dirigente c’è, è anzi troppo solida in italia, ma non si agita per non avere voce – ce l’ha a suo modo, prescindendo dall’opinione. Oppure si può dire l’opinione all’ora di Milano. Dove l’antipolitica è nata e si radica. Nacque con la Lega, col patrocinio di Milano 1, la crema della nazione, ed è forse il proprio della borghesia, la sua inclinazione naturale. L’opinione pubblica è nata ed è borghese, ma non in Italia, dove presto ha tralignato. Sotto le vesti dell’antipartitismo: l’antipolitica viene dalla cultura liberale, laica (azionista, repubblicana), degli anni Cinquanta e Sessanta, man mano che, restando fortemente minoritaria, fu esclusa dalla politica nazionale. Un rifiuto di cui già il “Corriere” di Panfilo Gentile e Libero Lenti era il veicolo, fino alla direzione dello stesso appassionato politico Spadolini a fine anni Sessanta: l’esecrazione della politica è comune alla borghesia lombarda.
Il potere politico (democratico) è un
nucleo impermeabile alla cultura europea del Novecento, alla cultura liberale.
Non alla migliore cultura liberale: a Einaudi, andando a ritroso, Tocqueville,
Montesquieu, Grozio, Hobbes, Machiavelli. Ma sì, totalmente impervio, ai laici
italiani, da Salvemini a Scalfari, e al “Corriere della sera”. Che è quanto di più
estraneo al liberalismo.Senza reazione, bisogna dire: né di massa né d’élite. La classe dirigente c’è, è anzi troppo solida in italia, ma non si agita per non avere voce – ce l’ha a suo modo, prescindendo dall’opinione. Oppure si può dire l’opinione all’ora di Milano. Dove l’antipolitica è nata e si radica. Nacque con la Lega, col patrocinio di Milano 1, la crema della nazione, ed è forse il proprio della borghesia, la sua inclinazione naturale. L’opinione pubblica è nata ed è borghese, ma non in Italia, dove presto ha tralignato. Sotto le vesti dell’antipartitismo: l’antipolitica viene dalla cultura liberale, laica (azionista, repubblicana), degli anni Cinquanta e Sessanta, man mano che, restando fortemente minoritaria, fu esclusa dalla politica nazionale. Un rifiuto di cui già il “Corriere” di Panfilo Gentile e Libero Lenti era il veicolo, fino alla direzione dello stesso appassionato politico Spadolini a fine anni Sessanta: l’esecrazione della politica è comune alla borghesia lombarda.
(continua)
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