Londra
festeggia il Natale ma evita di collegarlo per nessun segno all’Incarnazione,
favola o vangelo che sia. L’Italia si pregia di non festeggiarlo, le città per
queste notti natalizie oscurando o ingrigendo. Una convergenza di opposte
esigenze, che si vogliono ispirate e razionali, il culmine della buona volontà,
e ne denudano l’angustia, se non la stupidità.
Per
contro, il senso del Natale si moltiplica e imbellisce negli Usa, la cultura
forse più materialistica in corso. Senza ridursi ai fini utilitari delle sue
poche manifestazioni residue in Italia, la culla del cristianesimo, allo
scambio cioè dei doni, anche se indigesti: l’Incarnazione vi è un’occasione per
suoni, canti, poesia, colori, leggende, gentilezze. O nei paesi non cristiani, in
India per esempio, dove molte scuole fanno il presepe, con la Madonna, il
Bambinello, san Giuseppe, i Magi – scuole indù e islamiche. O in Cina, che pure
è sempre comunista. Solo la concorrenza semita si astiene, ma per ragioni
appunto di concorrenza.
Il
rifiuto del Natale è triste non in sé. Ci può stare, le feste non sono
obbligatorie. Ma per il ragionamento che sta dietro, specie negli educatori,
che ormai sono soltanto educatrici. Un falso senso dei doveri, dei diritti. Dei
diritti che sono da inculcare. Esito di generazioni di un linguaggio falso, fazioso
al fondo, anche se non sapeva – non sa – di che, e tartufesco in superficie, che
non muore e anzi imperversa più che mai.
Una
ragione stitica cui la chiesa di Roma si è adeguata con l’aggiornamento
conciliare, abbandonando e anzi stigmatizzando il rito, la preghiera, la festa.
Qualche anno fa alla “Franceschi” di Roma, asilo-scuola materna per un duecento
bambini, il presepe non si faceva per non urtare la suscettibilità dei bambini
mussulmani. Che erano due, di genitori assenti, e magari avrebbero volentieri
fatto una festa a scuola. A Bergamo invece sappiamo la sorpresa dei genitori mussulmani,
a vedere i bambini privati di una festa che si attendevano - anche perché l’assimilazione in questa fase aiuta.
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