“Sarebbe bello almeno per un giorno
avere tutti lo stesso pensiero: i sassi hanno un’anima?” E: “Bisognerebbe
morire e pi tornare al mondo un attimo per dire era vero. Se no, non importa che avvengano”. Sono testi brevi, che
però si rileggono sempre con sorprese, pieni di cose. Per esempio di “padri che
diventeranno polvere e non incontreranno mai un re”.
Non la parodia ma la rappresentazione –
è più malinconica che ilare – della vita ordinaria, quotidiana. In veste di
calco, di mimesi stinta, e invece piena di umori. Nella stessa improvvisazione o
casualità che ne è la sostanza: l’uscita da casa, o il rientro, il tram, la
fermata giusta, la fermata sbagliata, i capufficio, i colleghi di lavoro, che
invidiano, si assentano, muoiono o fanno l’amore, la moglie, il figlio.
Singolare
riedizione, che a ogni pagina della seconda parte rifila un refuso. Qualcuno
zavattiniano: “l’uomo che scostava un muto”,
“non possono spiegarmi perché non sano
le mie parole”… Zavattini sarà un altro sopravvissuto alle macerie del
Novecento, che con lentezza si scavano. Vittima del neo realismo, di cui ha
coniato il genere e creato la tradizione, presto però ridotta al fenotipo sovietico.
Questo è il secondo dei suoi “tre libri” degli anni 1930, altrettanto fortunato che il primo, “Parliamo tanto
di me”, 1931. Il terzo è “Io sono il diavolo”,
1941. “I poveri sono matti” è del 1937, e non riguarda i poveri. Zavattini
si diverte con gli uffici Rizzoli da cui stava per licenziarsi – ideatore del “Bertoldo”,
Rizzoli non volle affidarglielo. I personaggi riducendo a monosillabi, interiezioni fumettistiche.
Ma il fatto è inconseguente, se non per l’ambientazione. I racconti stessi del
resto sono brevi e brevissimi, accenni e lampi più che storie. In forma
elementare: di diari di scuola e temi in classe, di allievo dissociato. Dilettante di giochi. Di parole: slittamenti, omofonie, cacofonie. E di rovesciamenti: di
prospettiva o punto di vista, e di senso, di situazioni - il narratore narrato,
il tempo sostanziato, non più metronomo o tela di fondo, il donatore debitore.
Barilli evoca per lui nella presentazione lo “straniamento” poi teorizzato da
Brecht. Ma c’è qui anche il “teatro dell’assurdo” parigino del dopoguerra: la
formula del suo umorismo, e molte scene.
Sono rappresentazioni surreali, e forse
surrealiste – di Zavattini lo spessore culturale, che è notevolissimo, non è
stato indagato. Zavattini è narratore frammentario, visionario, onirico. E
variabile: gioca sempre, ama le sorprese, situazionali (il padre che si presenta
a casa da estraneo) e linguistiche. Uno sperimentatore, certamente, con o senza
surrealismo: del linguaggio al limite del dissolvimento.
Cesare Zavattini, I poveri sono matti, Bompiani, pp. XVI-94 € 10
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