Heidegger - Ce n’è uno cristiano,
e anzi cattolico – persuasivo (coerente). Un po’ pervertito dal litigioso –
razzista - luteranesimo della moglie-padrona, la matriarca che i figli, almeno
uno, gli fece fuori dal matrimonio, e lo impegnò sempre a tradirla. Ma tollerante
e aperto – del resto era stato chierichetto,
seminarista, quasi gesuita, e professore di scolastica. Compassionevole. Oltremondista:
l’Occidente, la cultura, è decadente, nichilista, per occultare la verità
privilegiando l’apparenza, sia pure nell’immaginifico di Nietzsche,
nell’asservimento e nell’affanno. Fine analista della condizione umana, delle parole
della condizione umana, e pure censore e quasi predicatore. Né si può obiettargli:
la sua “inautenticità” è un fatto, checché inautentico sia, che si manifesta
nel vaniloquio e il disimpegno, e si impersona nell’impersonale “si”, della
“vita del generalmente e per lo più”, irresponsabile inconcludente, alla
tecnica asservito e al consumo (bisogno).
La prima eco aveva avuto dai
teologi, i quali credettero “Essere e tempo” un appello a una relazione
autentica con la morte, e l’ontologia, con più fondamento, un altro nome per
metafisica. L’altra lettura fu quella fenomenologica: l’analitica
dell’esistere, il tempo, l’angoscia, il si dice, la cura. Ma l’antropologia
della coscienza, si disse, è proprio quello che Heidegger vuole rovesciare.
Essendo ripartito, fatte tutte le tare, da Aristotele e dal principio di non
contraddizione, dalla domanda che non è posta: “In quale modo dev’essere dimostrato
ciò per cui nessuna prova è possibile?”
A prima
vista è il pagano moderno, che non sa e non vuole uscire dal mondo, dove situa
pure Dio, che non nomina ma non rifiuta. È invece il chierichetto eterno – la
sua Cura è don Milani, seppure americanizzato, “I care”. Al primo
insegnamento a Marburg tenne un seminario su san Tommaso, De Ente et Essentia, in
latino, ancora non lo spregiava, utilizzando il commento di Tommaso de Vio, il
cardinale “Gaetano”. Le percezioni di Heidegger, disse Jaspers subito, sono
mistiche, presentate speculativamente in parabola, immagine e poesia.
Maestro - S.Agostino lo
dice una sorta di lettore, uno che legge insieme al discepolo. Un comunicatore (interprete)
di linguaggi. Ma è un ordinatore: la sua lettura è esemplare. In musica si vede meglio, o nello sport: il
maestro-allenatore è l’ordine anzitutto, in un patto di fedeltà reciproca di
cui è però l’interprete e il custode. Anche il maestro a scuola – ogni sperimentazione
egualitaria ha fallito, il lavoro di gruppo esige una guida, e anzi la esige più
sofisticata (più autorevole).
È
un caso dei ruoli, il più alto. Il maestro-allenatore-capo che non ha o non
esercita l’autorità è superfluo e dannoso.
Nome – “Perché il
proprio nome non dovrebbe essere sacro per l’essere umano?”, è quesito retorico
di Wittgenstein. Che lo rivendica in questi termini: “Se da un lato è lo strumento
più importante che gli viene dato, dall’altro è come un gioiello che gli viene
messo addosso”. Mentre è il segno dell’identità: il nome identifica e custodisce
l’identità. Anche prima o fuori dell’anagrafe. Anche prima del linguaggio. Per
il “miracolo” (ineffabile) della procreazione, l’atto più creativo che esista.
Ruoli –Sono scaduti,
nel fraintendimento generale dell’uguaglianza, senza benefici, molta
confusione, e qualche danno. In famiglia si vede. Che il padre faccia da madre
non solo è contro natura ma anche una necessaria automutilazione: è un
scadimento della sua identità, con danni per il figlio più che benefici. Con
insoddisfazione della madre, cui pure si deve quello scadimento per un
malinteso femminismo. Che l’alunno faccia il discente, il professore l’alunno.
L’adulto si ringiovanisca.
Suicidio – I giainisti dell’India si lascia(va)no morire, pare, per spregio
del corpo. Per i filosofi il suicidio viene con la malattia: Plotino nel “Libro
delle beatitudini”, Platone nel “Fedro” e le “Leggi”, i cinici, Epicuro. Gli
stoici, che tanta cura avevano di sé, si suicidavano, portando a esempio
Catone, Didone, Lucrezia e Lucrezio, Cleopatra, Seneca, la nota Sofonisba,
Annibale, Licurgo, Temistocle, Aristotele, Crisippo, Empedocle, Zenone, Rasia,
Saul, Gionata, Demostene, Sansone. E Annibale, se si uccise. Si uccidevano
molto i romani.
Compresi i due spiriti maggiori che Dio diede loro, Lucrezio e Seneca – benché
di Lucrezio san Girolamo sostenga ch’era pazzo. Uccidersi era a Roma pratica
sociale: Vibio Virio, Giunio Bruto, Tito Cornelio
Attico, Cornelio Rufo, Planco, Censorio, perfino un gruppo di senatori campani.
“Perché altrimenti in natura si troverebbero tanti veleni?”, chiede Plinio. È
la via della libertà per Seneca, “una vena qualsiasi del corpo” - ma di gusto teatrale
per Montesquieu: “Il suicidio veniva comodo per l’eroismo, ognuno facendo
finire la scena che rappresentava là dove voleva”. Publio Decio
Mure, padre e figlio, s’immolarono caricando da soli i nemici per la gloria di
Roma, quello i latini, questo i galli.
Ma
non si ebbero in tutto l’impero romano tanti suicidi quanti nella Germania del
kaiser sconfitto: in duecentomila si uccisero tra il ‘19 e il
‘22. Grande esercizio dunque dell’antica virtù tedesca, se il suicidio è
marchio di libertà, prima di consegnarsi a Hitler. Si uccidevano pure i cani.
Gli animali non si suicidano, ma un tipo di mastino tedesco sa farlo.
Wittgenstein, dei cui
quattro fratelli tre si suicidarono e uno, il primogenito molto amato, pianista
avviato, tornò dalla guerra senza un braccio, lo dice illecito: “Se è lecito il
suicidio, allora tutto è lecito. Se esiste qualcosa che non è lecito, allora il
suicidio non lo è”. Oppure no: “Oppure il suicidio in sé non è né buono né
cattivo”.
Il
fatto è oscuro per Wittgenstein in quanto “esso getta una luce sull’essenza
dell’etica. Poiché il suicidio è, per così dire, il peccato fondamentale. E
quando lo si interroga è come se si interrogasse il vapore di mercurio per
capire l’essenza dei vapori”. Sfugge.
Vuoto – Non c’è ne
pensiero – lo yoga è un esercizio. Si vuole impossibile in politica: ogni
spazio vuoto è subito occupato. E in fisica? Dirac lo trovò popolato da
infiniti elettroni con energia negativa – “il mare di Dirac”.
L’antimateria
Dirac certificò suo malgrado: lo riteneva un concetto privo di senso fisico.
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