sabato 18 gennaio 2014

Secondi pensieri - 162

zeulig

Heidegger - Ce n’è uno cristiano, e anzi cattolico – persuasivo (coerente). Un po’ pervertito dal litigioso – razzista - luteranesimo della moglie-padrona, la matriarca che i figli, almeno uno, gli fece fuori dal matrimonio, e lo impegnò sempre a tradirla. Ma tollerante e aperto – del resto era stato chierichetto, seminarista, quasi gesuita, e professore di scolastica. Compassionevole. Oltremondista: l’Occidente, la cultura, è decadente, nichilista, per occultare la verità privilegiando l’apparenza, sia pure nell’immaginifico di Nietzsche, nell’asservimento e nell’affanno. Fine analista della condizione umana, delle parole della condizione umana, e pure censore e quasi predicatore. Né si può obiettargli: la sua “inautenticità” è un fatto, checché inautentico sia, che si manifesta nel vaniloquio e il disimpegno, e si impersona nell’impersonale “si”, della “vita del generalmente e per lo più”, irresponsabile inconcludente, alla tecnica asservito e al consumo (bisogno).

La prima eco aveva avuto dai teologi, i quali credettero “Essere e tempo” un appello a una relazione autentica con la morte, e l’ontologia, con più fondamento, un altro nome per metafisica. L’altra lettura fu quella fenomenologica: l’analitica dell’esistere, il tempo, l’angoscia, il si dice, la cura. Ma l’antropologia della coscienza, si disse, è proprio quello che Heidegger vuole rovesciare. Essendo ripartito, fatte tutte le tare, da Aristotele e dal principio di non contraddizione, dalla domanda che non è posta: “In quale modo dev’essere dimostrato ciò per cui nessuna prova è possibile?”
A prima vista è il pagano moderno, che non sa e non vuole uscire dal mondo, dove situa pure Dio, che non nomina ma non rifiuta. È invece il chierichetto eterno – la sua Cura è don Milani, seppure americanizzato, “I care”. Al primo insegnamento a Marburg tenne un seminario su san Tommaso, De Ente et Essentia, in latino, ancora non lo spregiava, utilizzando il commento di Tommaso de Vio, il cardinale “Gaetano”. Le percezioni di Heidegger, disse Jaspers subito, sono mistiche, presentate speculativamente in parabola, immagine e poesia.

Maestro - S.Agostino lo dice una sorta di lettore, uno che legge insieme al discepolo. Un comunicatore (interprete) di linguaggi. Ma è un ordinatore: la sua lettura è esemplare. In  musica si vede meglio, o nello sport: il maestro-allenatore è l’ordine anzitutto, in un patto di fedeltà reciproca di cui è però l’interprete e il custode. Anche il maestro a scuola – ogni sperimentazione egualitaria ha fallito, il lavoro di gruppo esige una guida, e anzi la esige più sofisticata (più autorevole).
È un caso dei ruoli, il più alto. Il maestro-allenatore-capo che non ha o non esercita l’autorità è superfluo e dannoso.

Nome – Perché il proprio nome non dovrebbe essere sacro per l’essere umano?”, è quesito retorico di Wittgenstein. Che lo rivendica in questi termini: “Se da un lato è lo strumento più importante che gli viene dato, dall’altro è come un gioiello che gli viene messo addosso”. Mentre è il segno dell’identità: il nome identifica e custodisce l’identità. Anche prima o fuori dell’anagrafe. Anche prima del linguaggio. Per il “miracolo” (ineffabile) della procreazione, l’atto più creativo che esista.

Ruoli –Sono scaduti, nel fraintendimento generale dell’uguaglianza, senza benefici, molta confusione, e qualche danno. In famiglia si vede. Che il padre faccia da madre non solo è contro natura ma anche una necessaria automutilazione: è un scadimento della sua identità, con danni per il figlio più che benefici. Con insoddisfazione della madre, cui pure si deve quello scadimento per un malinteso femminismo. Che l’alunno faccia il discente, il professore l’alunno. L’adulto si ringiovanisca.

SuicidioI giainisti dell’India si lascia(va)no morire, pare, per spregio del corpo. Per i filosofi il suicidio viene con la malattia: Plotino nel “Libro delle beatitudini”, Platone nel “Fedro” e le “Leggi”, i cinici, Epicuro. Gli stoici, che tanta cura avevano di sé, si suicidavano, portando a esempio Catone, Didone, Lucrezia e Lucrezio, Cleopatra, Seneca, la nota Sofonisba, Annibale, Licurgo, Temistocle, Aristotele, Crisippo, Empedocle, Zenone, Rasia, Saul, Gionata, Demostene, Sansone. E Annibale, se si uccise. Si uccidevano molto i romani. Compresi i due spiriti maggiori che Dio diede loro, Lucrezio e Seneca – benché di Lucrezio san Girolamo sostenga ch’era pazzo. Uccidersi era a Roma pratica sociale: Vibio Virio, Giunio Bruto, Tito Cornelio Attico, Cornelio Rufo, Planco, Censorio, perfino un gruppo di senatori campani. “Perché altrimenti in natura si troverebbero tanti veleni?”, chiede Plinio. È la via della libertà per Seneca, “una vena qualsiasi del corpo” - ma di gusto teatrale per Montesquieu: “Il suicidio veniva comodo per l’eroismo, ognuno facendo finire la scena che rappresentava là dove voleva”. Publio Decio Mure, padre e figlio, s’immolarono caricando da soli i nemici per la gloria di Roma, quello i latini, questo i galli.
Ma non si ebbero in tutto l’impero romano tanti suicidi quanti nella Germania del kaiser sconfitto: in duecentomila si uccisero tra il ‘19 e il ‘22. Grande esercizio dunque dell’antica virtù tedesca, se il suicidio è marchio di libertà, prima di consegnarsi a Hitler. Si uccidevano pure i cani. Gli animali non si suicidano, ma un tipo di mastino tedesco sa farlo.

Wittgenstein, dei cui quattro fratelli tre si suicidarono e uno, il primogenito molto amato, pianista avviato, tornò dalla guerra senza un braccio, lo dice illecito: “Se è lecito il suicidio, allora tutto è lecito. Se esiste qualcosa che non è lecito, allora il suicidio non lo è”. Oppure no: “Oppure il suicidio in sé non è né buono né cattivo”.
Il fatto è oscuro per Wittgenstein in quanto “esso getta una luce sull’essenza dell’etica. Poiché il suicidio è, per così dire, il peccato fondamentale. E quando lo si interroga è come se si interrogasse il vapore di mercurio per capire l’essenza dei vapori”. Sfugge.

Vuoto – Non c’è ne pensiero – lo yoga è un esercizio. Si vuole impossibile in politica: ogni spazio vuoto è subito occupato. E in fisica? Dirac lo trovò popolato da infiniti elettroni con energia negativa – “il mare di Dirac”.
L’antimateria Dirac certificò suo malgrado: lo riteneva un concetto privo di senso fisico.

zeulig@antiit.eu

A Torino, a Torino – o della dispersione

Titolo civetta. Per un’idea anche accattivante. È la storia di due padri – e dei loro figli: il sarto senza lavoro va a cercarlo a Torino, operaio alla Fiat, è il 1961, proprio mentre l’Avvocato Agnelli abbandona una vita di svaghi per entrare in azienda. Ma poi le vicende Fiat si dipanano, già note.  Non succede insomma molto. Fino a che, quarant’anni dopo, il figlio dell’avvocato non incontra il figlio del sarto, in un tentativo di uscire dalla solitudine e la droga.
Ai due capi la storia si tiene - il film è già fatto (che però evidentemente non si può fare, troppi lutti recenti). La narrazione invece difetta: la “realtà” torinese, e della stessa emigrazione interna, rimane estranea. La cronaca non supplisce, specie quella politica di cui siamo saturi. La scrittura ha bisogno di radici, linguistiche, semantiche, etiche, sociologiche, e di un punto di vista esterno. A cui Calopresti ha curiosamente rinunciato.
“Mimmo Calopresti”, dice il risvolto, “è nato a Polistena nel 1955, ma, bambino, si è trasferito con la famiglia a Torino”. Non basta: non è più calabrese, e non è torinese. Sradicarsi indebolisce. E poi non è più tempo di assimilazioni - non solo per il leghismo, che è più effetto che causa.
Mimmo Calopresti, Io e l’Avvocato, Mondadori, pp. 269 € 17

venerdì 17 gennaio 2014

Letture - 159

letterautore

Autocensura – Ci fu una gara per “Va’ dove ti porta il cuore”, racconta D’Orrico, che allora era direttore editoriale di Baldini & Castoldi, la casa editrice che poi se ne assicurò la pubblicazione, con un  anticipo – 1984 - di “un’ottantina di milioni”. Salvo lanciarla, continua D’Orrico, con una tiratura di settemila copie, più una riserva di ristampa per cinquemila copie. Niente. Un suicidio. Ma perché – D’Orrico non lo dice - intanto era subentrato in casa editrice Alessandro Dalai, che poi ne rimarrà titolare unico. Il futuro azionista-ponte per il salvataggio dell’“Unità”. E al Partito, il partito di Dalai, Susanna Tamaro non piaceva, perché borghese e non neo realistica. I letterati di Partito stroncarono subito il “librino”, Raboni, Cherchi, Lalla Romano. Il partito delle masse o delle messe? Se alcuni milioni comprarono il “librino”, e decine di milioni lo lessero.

Belli – È quello che si dice, il romano-romano. Pugnace e servile, blasfemo e bigotto, neghittoso e operoso, lagnoso e burbero. Ma sempre superproduttivo. In assoluto forse no, sembra anche lui apatico, ma al confronto sì. Più del milanese Porta, per esempio, operoso per definizione: con un sonetto al giorno per dieci anni di fila, tolte le feste.  

Commendatizie & Rifiuti – Enrico Mannucci pubblica su “Sette” ben sei lettere, qualcuna autografa, di primari dirigenti di primarie case editrici a Susanna Tamaro ventenne al suo primo libro, sia pure di rifiuto. Un prodigio.  Forse perché Susanna si apparenta(va) agli Schmitz-Veneziani-Svevo, figlioccia di Letizia Schmitz-Svevo Fonda Savio, “la figlia”. E in tale veste beneficiava di una presentazione benevola di Claudio Magris – il racconto, rimasto inedito, ora si pubbliche nelle Opere.

Dialetto - Non si può dire tutto in dialetto, arguisce Camilleri con Sciascia, non la filosofia. Nemmeno la scienza né la tecnica, queste soprattutto. Ma Belli, e anche Tempio (Porta, etc.), nel loro piccolo, fanno ben filosofia. Mentre anche in lingua si può non poter dire tutto. Si veda l’irruzione internettiana tutta americana. Anche in francese, la lingua che con più determinazione e più a lungo ne ha tentato a lungo l’adattamento.

Egotismo – Si lega a Stendhal, che ne ha fatto un titolo, adattandolo dall’inglese, dove l’aveva trovato. Per antifrasi? Il Merriam-Webster non ne dà un significato di cui menare vanto: “Un senso esagerato della propria importanza”. Non del proprio punto di vista, ma della proiezione o del ruolo nella società: “Il sentimento o la fede d essere migliore, più importante, più dotato, etc.”. O anche “l’abitudine a parlare troppo di se stessi” – che è la narrativa del millennio, di questo millennio, non dell’Ottocento.

È venuto prima di egoismo, di cui però non è sinonimo. Egoismo si ritrova nel 1755, detto del “soggetto pensante”. Egotismo risulta coniato da Addison nel 1714, che ne fa credito a Port-Royal. I giansenisti di Port-Royal lo avrebbero coniato a loro volta (ma il Robert non lo registra) criticamente, come eccessivo parlare di se stessi: “I signori di Port-Royal, che erano più eminenti per sapienza e umiltà di chiunque altro in Francia, bandirono il discorso in prima persona da tutti i loro lavori, come espressione di vanagloria e amor proprio. Per esprimere la loro particolare avversione, bollarono questo modo di scrivere col nome di egotism; una figura che non si trova nella retorica classica”.
Il saggio sull’uso di parlare di se stessi Addison pubblicò sullo “Spectator” il 2 luglio 1714: “Alcuni grandissimi scrittori sono stati rei di questa colpa. Si osserva di Tullio in particolare, che i suo scritti scorrono moltissimo alla prima persona, e che non si perde un’occasione di farsi giustizia da solo”. Tullio, cioè Cicerone, che per questo fa rima con chiacchierone e spaccone, mentre è scrittore squisito, e pieno di sorprese. Del resto, sempre per Addison, “il più eminente egotista mai apparso al mondo è Montaigne, l’autore dei celebri «Saggi»”.

Jean Paul – Il traduttore di Camilleri in tedesco, Moshe Khan, è ricorso, per “Il Re di Girgenti”, in cui la difficoltà di trasporre le forme dialettali è alla seconda potenza (il “Re” parla inizialmente un siciliano rétro, secentesco, inventato da Camilleri), a Jean Paul - spostando la vicenda di un secolo. A Jean Paul come scrittore “settecentesco”, ma più come inventore sintonico della lingua, armonizzato cioè con la lingua che vuole stravolgere.
Khan lo fa peraltro settecentesco abusivamente: Jean Paul è umorista, critico culturale, poeta e narratore del tempo del romanticismo ruggente, post-wertheriano. Però è vero, è uno che tenne testa all’alluvione del forte romanticismo tedesco, col culto wertheriano della morte.

Plagio- Si dà solo in musica, dove corrono molti soldi. E si dà più spesso a parti invertite, come “plagio legale”. Facendo valere in giudizio un accordo , sia pure “mascherato”. Il caso di “O sole mio” sancito dal tribunale di Firenze non è isolato – anche se a Napoli il giudizio sarebbe stato diverso. Il professor Massimo Pittau, massima autorità della linguistica sarda, ricorda in un’intervista con Rina Brundu il 20 ottobre 2012, che così aveva fatto anche il suo “predecessore” in materia,  l’eminente sardista tedesco-americano Max Leopold Wagner. S’era appropriato contro ogni verosimiglianza della canzone d’amore più celebrata nell’isola: “Quando il Wagner era ormai deceduto, dal noto e compianto cantautore sardo Andrea Parodi sono venuto a conoscenza che nel registro della Società degli Autori ed Editori il famoso canto sardo «Non potho riposare» risulta registrato a nome di Max Leopold Wagner. Evidentemente egli se n’era impossessato ad insaputa degli autori effettivi, l’avvocato Badore Sini di Sarule e il maestro di musica Giuseppe Rachel di Cagliari”.

Riso - La letteratura della Nuova Italia, avida di borghesia, anche quella “viziosa”, da Notari a D’Annunzio, lo bandiva. Lo diceva un insulto. Alla sofferenza, al bisogno, al dolore, che sono la vera etica. Lo dicevano specialmente i perbenisti, tra essi De Amicis, politicamente socialista, personalmente fedifrago, e cattivo padre. Ride nel “Cuore” solo Franti, il cattivo.
In un racconto poco noto, “Facce”, De Amicis ha un’intera pagina irata contro il riso “L’allegrezza soverchia disconviene alla miseria del nostro stato”, etc..E l’uomo diventa specialmente brutto quando ride: “Quando in una compagnia di persone che ridono sgangheratamente c’è un cane, egli ci pare in quel momento l’unico animale sensato”.

letterautore@antiit.eu

L’ateismo come religione

Si potrebbe dire il pamphlet un’altra “consolazione della filosofia”, se si può proporre un libro da banco, anzi da divulgazione, con lunghi estratti in latino non tradotto - più le ovvie citazioni dal tedesco, non tradotto. Oppure no: si pubblica per l’attualità, per un pubblico che non ha bisogno di leggere per convincersi – non riga per riga, parola per parola? Magari giocando sul paradosso. Questo libro è infatti sul “carattere manicomiale… proprio della credenza in Dio”. Per dire l’ateismo “la più alta e più pura delle religioni”.
La lettura si potrebbe chiudere subito qui. Ma l’argomentazione non è del tutto peregrina. A condizione di riuscire a superare, magari per la simpatia che Sciascia professava per Rensi, la prima pagina. Di una filosofia che si pretende di “sicurezza incrollabile e trionfale”, piena di “ragione” e di “logica”, “sviluppata e civile”, “corretta”, di “precisione e chiarezza”, di “inconcussa validità”, e “inamovibile certezza”, “un teorema di geometria elementare”, di contro alle “allucinazioni”, la “pazzia”, “la mentalità crepuscolare dei bambini e dei selvaggi” – cioè dei non pervertiti dal levitismo? Più in là Rensi esagererà, facendo  mettere a Kant la religione in una della sue Hirnngenspinster, chimere. L“Apologia” chiudendo, quanto a manicomi, col rifiuto estetico: “Lestetica della credenza è tipicamente oleografica” - estestico intendendosi in senso epidermico. 
Ma Rensi è meglio, anche di se stesso - di quello che voleva essere. Nulla Rensi concede a Dio, nemmeno la religione. E questo è un errore logico. Ma fine. L’esposizione della teologia negativa è più precisa e esauriente, pur in poche pagine, 57-65, che divertente. E sant’Agostino demolisce, insieme con Spinoza. Ancora meglio sgonfia i falsi Dio, opera della filosofia. Il Dio impersonale del panteismo, Spinoza di nuovo, la natura naturans, l’impulso o ordine morale di Fichte, l’idea, o intelligenza incosciente, di Schelling, Hegel, Hartmann.
Anche Kant ha il suo. Ma, s’indovina, nel dubbio. Rensi è del resto uno specialista. In anticipo, nel 1925, sul freudiano “L’avvenire di un’illusione”, sarà però autore successivamente di un “Le aporie della religione” e di testamentarie “Lettere spirituali”. Da “scettico credente” secondo Ernesto Bonaiuti – che lo assume, come pure farà Augusto Del Noce, a ricercatore “disperato di Dio”.
Nicola Emery, che ripropone l’“Apologia”, non è d’accordo. Ma cita in termini ambigui “la diplopia della formula finale del «Testamento filosofico” dello stesso filosofo: Atomi e Vuoto e il Divino in me”. Dopo aver eccepito che “difendere l’ateismo per lui significa ipso facto anche «difendere» la religione, disoccultarne l’essenza, ritrovarne l’origine”.
Emory salva Rensi come ermeneuta malgré soi, in anticipo, un precursore: “La critica del feticismo idolatrico… si sviluppa anche come critica della verità alla lettera, e porta alla pratica, plurale e pluralistica, dell’interpretazione”. Ma i primi ermeneuti sono in realtà i Padri della chiesa, cioè i fondatori della chiesa. Che per questo è mobile. Il Dio laico di Emory è il Dio cristiano romano, tolti i paramenti.
La questione Rensi sembra in realtà porre nei vecchi termini massonici. Che dice: “Le religioni sono false se si materializzano i loro dogmi, se si prendono questi in senso letterale, se ce ne formiamo dei feticci; vere, se quei loro dogmi si intendono nel loro senso simbolico profondo”. O Schiller, che Rensi cita all’ultima riga, prendendolo dalle “Votivtafeln”, immagini votive: “Quale religione professo? Nessuna di tutte quelle che tu nomini. E perché nessuna? Per religione.” Subito dopo aver stabilito, alla fine come già al principio della trattazione: Lateismo è la sola religione che bandisca completamente ogni egoismo, ogni immoralismo, ogni assurdità. Ma la ragione è più complessa della Ragione. Mentre l’Essere Rensi limita a “ciò che si può vedere, toccare, percepire” – quest’ultima funzione limitando al vedere e toccare, seppure in absentia.  
Giuseppe Rensi, Apologia dell’ateismo, Castelvecchi, pp. 117 € 12

Fisco, appalti, abusi (44)

La mini-Imu si paga sulla rendita rivalutata oppure non rivalutata? “Repubblica.it”, e un paio di avvocati fiscalisti online, la calcolano con la rendita non rivalutata, “Corriere.it”, e un altro paio di fiscalisti, con la rendita rivalutata, per 5 e poi per 65 per cento.
Si paga con la rendita rivalutata.

Poi, quando si va sull’F 24, un’altra incognita appare: detrazioni. Cosa metterci? Prima casa? E  come, con una cifra, una sigla?

Si paga la mini-Imu, con detrazioni di 50 euro per ogni figlio a carico. Poi, quando si va a calcolare, la detrazione per figlio è di cinquantina di centesimi. Ma non per ridere.

L’Imu prima casa, abolita, è invece viva e vegeta sotto altro nome, Tasi. Con la stesa aliquota, il 4 per mille. Oppure no, il nome sarà Trise. O forse Iuc. E l’aliquota forse raddoppia, fino all’8 per mille. Una sola è la certezza: “La mini-Imu è una misura di equità fiscale”, Saccomanni.

La Rca auto costa in Italia poco meno del doppio della media Ue, 526 euro contro 291 (per le moto 279 contro 150). Lo denuncia l’Ania, l’associazione delle società di assicurazione – non per sbeffeggiarci.

giovedì 16 gennaio 2014

Vero o falso – 10

Il papa è stato “person of the year” della rivista “Time” per un paio di voti su Edward Snowden, “the dark prophet”? Vero.

Moratti si fa il segno della croce prima della partita. Vero.

“Solo ai vigili 16 milioni l’anno” di straordinari per le manifestazioni a Roma. Vero.

1.437 manifestazioni a Roma nel 1013, da 4 a 5 al giorno, più 146 cortei. Vero.

Saccomanni non legge i decreti che firma. Vero.

François Hollande è il presidente della Repubblica francese. Vero.

C’è un mercato delle intercettazioni. Vero.

Ombre - 205

La vaporosa Gayet, alta borghesia, carattere forte, produttrice di cinema più che attrice, e in affari spietata, ha attaccato e sconfitto la erinni Trierweiler nel suo punto debole: ha fatto un figlio. Prime donne o prime troie? Un figlio per ricatto.

E chi ha sintonizzato il fotografo dello scandalo? Passando per caso da lì, a una certa ora, ha individuato le scarpe di Hollande? 
Le amanti a un certo punto si stufano dell’uomo accasato che dice sempre di volersi liberare e poi non lo fa.

Trierweiler, rottweiler: Hollande le cerca?

“Tasse Alte – Apri una LTD, una società nel Regno Unito. Vantaggi fiscali. Gestione completa”. Basta digitare uno degli innumerevoli rompicapi della mini-Imu per trovare l’annuncio.
Sembra una farsa ma non lo è.

Troppe ipocrisie sugli immigrati”, lamenta Angelo Panebianco sul “Corriere della sera”. L’ipocrisia non è sempre troppa?

Dopo aver trafficato con ogni balordo contro Assad in Siria, fornendo armi, logistica, e una martellante campagna d’immagine, gli 007 francesi e inglesi ora trafficano con Assad contro i ribelli. Ma l’America non li aveva soppiantati già nel 1956  - e poi, in Libano-Siria, nel 1958?

Facciamo la guerra per riciclare gli spioni?
Che altro fanno gli 007 francesi e britannici che ci hanno portati in guerra contro la Libia, e ora vorrebbero contro la Siria e contro l’Iran?

Per salvare il ridicolo Hollande, si dà la colpa a Berlusconi (Mondadori). Allora è proprio un dio, se è in ogni luogo.

Si vuole salvare Hollande, un presidente più sciocco che ridicolo. Si capisce che stia a cuore ai giornali francesi, è uno potente. Ma perché sarebbe di sinistra la sua difesa?

“In caso di necessità”, consigliano i nuovi Irisbus  delle linee urbane, “rompere il vetro!”. Il viaggiatore porti con sé il martello.

Il papa ci vende come una novità il battesimo del bimbo di una coppia non sposata (religiosamente). Ci prende in giro?

Lo stesso papa fa cardinale un novantottenne. Non era meglio una donna? Sophia Loren per esempio, moglie bigama redenta, avrebbe assicurato ricezione universale.

Il papa vuole venderci qualcosa, un pezzettino di cristianesimo? Vuole stupirci? Vuole esserci comunque? Poi si dice che le veline non sono filosofe.

Dunque, l’Aisi spiava Sabine Began. In parole chiare, il servizio segreto spiava l’amante (una delle amanti di letto) di Berlusconi. La spiava attraverso il suo commercialista, di lei. Al comando del generale Giorgio Piccirillo. Nominato da Berlusconi.
Dunque, è vero: Berlusconi voleva accreditarsi dannunziano, sempre a letto.

Carlo Carraro, rettore di Ca’ Foscari, pregiata università di Venezia per lingue e economia, ha tre figlie, dai 17 ai 25 anni, che studiano tutte all’estero. Anche la piccola, fa il liceo a Cambridge. Perché è più facile o è più difficile?

“Studiano all’estero e non torneranno in Italia”, dice il rettore a Vittorio Zincone. Ed è un male o è un bene?

Racconto inanimato di un feticcio

Come allungare il brodo. L’affabulatore principe arranca. Abbandonato da Alma Mahler, Kokoschka se ne fece costruire una di pezza, se la portò a letto, all’opera e ai ricevimenti, e poi la decapitò. Poteva essere una bella storia? Forse sì, ma non per Camilleri, Che solo lo alluzza l’idea del simulacro, da vecchio, colto teatrante, tra Eschilo, Stesicoro, Euripide, Pigmalione, e Tommaso Landolfi, “La moglie di Gogol’” – nove paginette su 130. Alma Mahler resta antipatica, una cacciatrice di geni – opima ma a caro prezzo: “Il mio corpo accoglie il tripudio degli uomini, la loro voglia balbettante che mi striscia attorno”, roba da ridurre all’impotenza un rinoceronte. Kokoschka un pazzo molto calcolato.
Sono libri di editore, è Eileen Romno che trova i soggetti e fornisce i materiali, per questi volumetti di “casi” sceneggiati. Con alcuni risultati eccellenti. Ma la formula non dev’essere nelle corde dei siciliani, di Camilleri come di Simonetta Agnello.
Andrea Camilleri, La creatura del desiderio, Skira, pp. 139 €14,50

mercoledì 15 gennaio 2014

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (194)

Giuseppe Leuzzi

Il primo “Vocabolario” della Crusca, nel 1612, non ha la voce “italiano”, né per la popolazione né per la lingua. C’è il concetto, “la lingua nostra”, il nostro idioma”,”sì dentro che fuora d’Italia”, ma non l’italiano. Perché la Crusca voleva l’italiano toscano? Nemmeno: “toscano” non è registrato. Non è nemmeno campanilismo toscano, anche “fiorentino” non è registrato come parlata, come lingua. Il vezzo di non dire è italico, che ora si addebita alla mafia.

“L’italiano vero non esiste. Siamo almeno 57”, titola del resto “La Stampa” il servizio di Stefano Rizzato sula mappa genetica del Belpaese realizzata dalle università di Roma La Sapienza, Bologna, Cagliari e Pisa: “Siamo il Paese con la biodiversità umana più estesa d’Europa”. Siamo diversi tra di noi “più di quanto lo siano uno spagnolo e un ungherese”.
E poi ci sono le sottospecie, per esempio il meridionale acerrimo leghista. Un specie non ancora certificata dal dna, ma attiva.

Per la Befana l’orchestra di Santa Cecilia dà un suo Concerto di Capodanno, da un paio d’anni affidato al maestro Manfred Honeck, viennese, specialista di musiche viennesi, gli Strauss, la “Danza ungherese n.5” di Brahms, il Ciajkovskij dello “Schiaccianoci”, Lehar, e l’Arditi del “Bacio”.  Agile, arguta, nervosa il giusto, e molto partecipe: divertita e divertente. Un non evento per i giornali, che ci spiegano invece in dettaglio cosa abbiamo ascoltato e visto nel Concerto di Capodanno viennese. Perché Santa cecilia non è i Wiener Philarmoniker, anche se suona “meglio”.

Stamina prospera nell’area più ricca del paese, al Nord dell’Appennino. Anche Di Bella, il taumaturgo del 1997, medico siciliano, era professore a Modena e illuse la Padania. Perché ci sono più soldi da sprecare? Ma con la coscienza di fare la cosa giusta.

Ai fuochi dell’indignazione
Si annuncia l’esercito a guardia della Terra dei fuochi in Campania. Che poi sono più terre dei fuochi. Senza dire che l’esercito non serve a nulla, giusto a giustificare la diaria: non fa opera di polizia, né preventiva né punitiva. E che i fuochi non sono della camorra ma delle discariche abusive, qualcuna perfino comunale, negli anfratti e nei valloni, che si fan bruciare in continuazione. Che si dovrebbero, e si potrebbero senza dispendio, bonificare.
Questi fuochi ci sono sempre stati nel casertano e nell’entroterra napoletano. Si denunciano ora, perché  l’ex boss Schiavone, pentito di vent’anni fa, s’è ricordato che la camorra seppelliva per conto terzi i rifiuti tossici – meno cara dello smaltimento. Questi rifiuti ora si cercano. Non si sono ancora trovati, dopo quattro o cinque mesi, ma si è speso molto, e molto si continua a spendere, in appalti. Sempre in alternativa alla bonifica dei suoli, che evidentemente è un appalto minore. Un business innescato dall’ex pentito. La mafia ci governa nella buona e nella cattiva sorte?

Il giudice Colicchia
Nell’estate del 1980 il giudice Francesco Colicchia, dirigente pro tempore del Tribunale di Reggio Calabria nella sessione feriale, mise in allarme i cassieri d’Italia. Imponendo che si registrassero tutti i versamenti o i ritiri in biglietti da centomila. Irriso unanimemente, il giudice Colicchia si difese con  semplicità: “Si sta per effettuare il pagamento di un riscatto e devo poter arrivare ai rapitori”.
Era a parlarci di spirito vivacissimo, il dottor Colicchia, e coraggioso. Nel gennaio 1978 aveva fatto condannare una ventina di ‘ndranghetisti teorizzando il delitto di associazione mafiosa, che trovava molti ostacoli al riconoscimento giuridico. Quell’anno i rapimenti di persona scesero da una media di 8-10 l’anno a 1.
L’associazione mafiosa fu introdotta poi nel 1982, con la legge La Torre-Rognoni, ed è costata la vita al suo proponente, il deputato siciliano del Pci.
Il giudice Colicchia morirà qualche anno dopo. Dicono di crepacuore. Una cosca di Seminara, il suo paese, sotto processo per un rapimento di persona, ottenne il trasferimento del giudizio da Palmi a Reggio, e Colicchia, cui toccò di giudicare il caso, li assolse. Poi morì.

I libri da pelliccia
Usavano nell’Italia Centrale, ma scendendo dagli Abruzzi fino al Tavoliere e alla Puglia, i “libri da pelliccia”. Dei pastori cioè, e dei fraticelli della questua, che transumavano anche loro attraverso gli Appennini. Libri tascabili, volumetti che entravano nella saccoccia della giacca, più spesso di pelle. Che venivano aperti anche quando il narratore era illetterato e andava a memoria.
Erano quasi sempre libri di avventure – con qualche agiografia. E i libri di avventure “erano i poemi cavallereschi”, spiega Tullio De Mauro a Andrea Camilleri in “La lingua batte dove il dente duole”, p. 33: “Più tasso che Ariosto…, e poi il «Guerin Meschino»”. Che chi sapeva leggeva agli altri. O rimembrava.
Una tradizione che si è perduta, ma era diffusa fino a un paio di generazioni fa. Molti siti dell’Aspromonte avevano incongruamente nomi derivati dal “Guerin Meschino”, di cui non figura tra i luoghi visitati, in nessuno dei suoi cicli Denominazioni che aiutavano a orientarsi.


Sicilia
Governa Roma, con Caltagirone e Marino. L’uno ha chiamato e “fatto” l’altro, campagna elettorale e tutto: l’etnicismo è forte malgrado l’odio-di-sé.

Joseph Francese, italianista all’università di Stato del Michigan, studioso di Sciascia, trova il fatalismo “il credo essenzialista” dello scrittore: la fede, più che la rassegnazione, in “un modo di vita siciliano atemporale”. E analizzando “L’antimonio”, il primo racconto pubblicato, ritrova il fatalismo costante in tutta l’attività di Sciascia, e nelle sue opere, narrative e non.
Di ascendenza araba, come il nome vorrebbe, oppure no, questo è vero di Sciascia.

Cuffaro si merita una pagina sul “Corriere della sera” per “vivamente” consigliare a Berlusconi di “scontare la condanna in carcere”. Nord e Sud uniti nella lotta? Destra e sinistra insieme? Mafia e antimafia?

Caterina Chinnici, giudice, figlia del procuratore Capo di Palermo Rocco, assassinato da Riina trent’anni fa, scrive dell’“essere siciliano” in un libro ricordo, “È così breve il tuo bacio sulla fronte”: “Ci consideriamo dei, eredi di una storia gloriosa, uomini superiori”, ma siamo “apatici”. Di una “imperturbabilità”, anzi “disimpegno”, di cui ci facciamo un alibi “tra noi e il nostro futuro”.

Davide Faraone, “renziano” a Palermo, è subito indagato per spese indebite – 3.300 euro, in cinque anni, di cui assicura che ha giustificato l’uso per attività politiche. Le faide Dc in Sicilia non sono sanguinose come quelle di Riina ma altrettanto violente.

Qualche volta sono pure violente. Chinnici, l’inventore del pool antimafia di Falcone e Borsellino, il giudice buono di Pif, “La mafia uccide solo d’estate”, si ebbe un’autobomba. Diffidava di Lo Forte e Scarpinato, due giudici della sua Procura, che in una sorta di “diario” definiva manutengoli, pressappoco, Dc.
Forse a torto, poiché Caselli affiderà praticamente a loro la Procura stessa.
È anche vero che Chinnici non era Dc.

leuzzi@antiit.eu

Lo speculatore è l’unico giusto

“La grande bellezza” ha “alzato il livello”, quindi le immagini sono infine non punitive. Siamo anche nella borghesia urbana, invece che nelle periferie e la piccola borghesia. Ma il filo è sempre quello della commedia all’italiana: gli innocenti sono colpevoli, i malvagi se la cavano comunque. Virzì se ne può dire il nuovo Monicelli, ma senza la canzonatura del maestro. Politicamente sempre corretto. Perciò con un errore qui di sceneggiatura (o vuol essere, surrettiziamente, reazionaria?): lo speculatore è l’unico “giusto”. È etico, equilibrato, controllato, fra tanto isterismo da abbondanza, e a ognuno dà il suo: un ceffone, una confidenza, una benevolenza.
Ma forse è molto di più, anzi lo è. È di fatto un remake di “La frode”, “film indipendente girato in 31 giorni” di Nicholas Jarecki, ma di tutte stelle (Richard Gere, Susan Sarandon, Tim Roth, Laetitia Casta) e hollywoodiano. Anche lì l’affarista è il più generoso, e perfino il più pulito, in affari, in tribunale, e in famiglia. Virzì è più asciutto e più veritiero, nei caratteri, i dialoghi, le recitazioni, le scenografie - sembra Francesco Rosi quando non faceva la predica. Invece della convenzione hollywoodiana degli affari tra boiseries, limousines, belle segretarie, amanti perdute e avvocati superlestofanti. Anche la schizofrenica (Valeria Bruni Tedeschi), che a un certo punto si perde in una passione divorante (il teatro), fa lieve. Un film, da questo punto di vista, degli equiibri narrativi, capolavoro. Tanto più per essere giocato sui toni dimessi, degli eventi come si producono, o del neo realismo non declamatorio – Rosi again.
Il realismo italiano, apparentemente dimesso e ordinario, di drammaturgia esile, quando non è convenzionale (politicamente corretto), rende molto meglio delle convenzioni americane. Che sono invece, esse, sempre convenzionali – classiste, scontate all’inverso. È reale, cioè vivo, di narrazione non scontata e quindi attraente.
La Brianza non centra. Cioè centra, ma senza scandalo. Concorre alla fotografia infine illuminata. E concorre anche alla storia, ma dalla parte giusta, legalitaria e compassionevole – è un immigrato, alla prima scena, il datore di lavoro del cameriere che morrà investito mentre torna in bicicletta a casa la notte nella neve. Lo “scandalo” sarà servito da pubblicità gratuita, la Lombardia è il più grosso bacino di utenza dei cinema.
Paolo Virzì, Il capitale umano

La Corte dei miracoli - “creativa”

“La Corte (Costituzionale) non esce bene da questa vicenda”, del rigetto delle legge elettorale, spiega a M. Antonietta Calabrò il professore Augusto Barbera, decano dei costituzionalisti, ex deputato Pci-Pds. Per due motivi: ha ammesso “un ricorso di dubbia ammissibilità”, e ha ampliato “oltre misura i suoi poteri di interveto creativo”. Più che “oltre misura”, li ha ampliati incostituzionalmente. I suoi torti non sono di poco conto, nell’elenco di Barbera. Ha reintrodotto le preferenze contro un referendum a vasta partecipazione popolare. “Non meno imbarazzante” è la facoltà data al governo di cambiare la legge elettorale per via regolamentare, scardinando l’obbligo di provvedere per legge, e cioè in Parlamento. Con una bestialità: “Persino – questo lascia sbigottiti – introduce le preferenze per il Senato. Che non ne ha mai avute, dalla fondazione della Repubblica”.
Sono giudici di destra? Sono di sinistra? Sono allegri filibustieri. C’è molta ignoranza in questa Consulta “creativa” , non solo nella sentenza sulla legge elettorale. Di giudici cioè impreparati e incompetenti. Almeno tanta ignoranza quanta è la iattanza: sono giudici spensierati. L’epitome del giudice italiano, strapagato, strafottente, legibus solutus, per primo dalla legge di gravità. Sono arrivati a statuire la non applicabilità ai giudici del blocco degli stipendi pubblici nel 2010: altre categorie “autonome”, gli universitari per esempio, si sono visti rigettare i ricorsi, quello dei giudici è stato accolto in poche settimane, per l’“indipendenza”.
Una iattanza, va però riconosciuto nel caso della Consulta, non infondata: tali e tante sono i privilegi cumulati da questa sporca quindicina. Che è pagata molto di più della più alta carica dello Stato, e ha immunità totali. Ogni giudice rimane in carica nove anni e prende 410 mila euro l’anno. Per un paio di orette, in media, di lavoro al giorno – quasi sempre un giorno la settimana. Più tre assistenti, tre addetti alla segreteria, auto con autista e scorta, viaggi e cellulare pagati. Il presidente della Repubblica ha un appannaggio di poco più della metà, 239 mila euro.
Non è tutto, i giudici si sono inventati la presidenza. Il presidente infatti incassa più del doppio del presidente della Repubblica, 490 mila euro. E come lui ha l’alloggio di servizio dentro il palazzo della Consulta in piazza del Quirinale, più quattro assistenti, una segreteria di cinque componenti, auto con autista e scorta. Col trucchetto di fare presidente il giudice più anziano, anche se solo, quindi, per due-tre mesi. In modo da mandarlo in quiescenza con una pensione raddoppiata.
I giudici costituzionali non sono i soli, ma l’iceberg di una professione. Loro assistenti e segretari sono infatti altri giudici, che si mettono fuori suolo per raddoppiare lo stipendio.

Il complotto dell’Aquila

“Una lettera a Napolitano per dire che la ricostruzione è bloccata, senza fondi, e la città allo stremo”, rivela “Il Messaggero” lunedì: “L'ha scritta Massimo Cialente a dicembre scorso, ipotizzando un disegno del governo per favorire la Curia nella ricostruzione”. Cialente, sindaco del’Aquila, vi esponeva un disegno che si è tentati e si sta tentando di inserire come norma di legge, che vedrebbe la Curia, la più grande immobiliarista della città, diventare soggetto attuatore per la ricostruzione di tutti i suoi edifici, compresi i luoghi di culto”. , scrive Cialente. E paventava che la mossa del ministro Bray (lo spostamento di un funzionario del ministero dei Beni Culturali) fosse “un tassello di un disegno, non considerato pienamente delle conseguenze, che potrebbe comportare addirittura che i fondi della ristrutturazione privata delle case andranno a ricostruire le Chiese”. Un complotto - il comolotto del vescovo.
Cialente poi si è dimesso. Forse per il ridicolo, più che per lo scandalo tangenti della sua amministrazione. Il vescovo dell’Aquila non ha avuto problemi a dirsi il primo sostenitore del funzionario mandato dall’Aquila a Pompei.
Il sindaco in realtà protestava contro le sole cose che si siano fatte nella sua città dopo il terremoto. Il restauro di san Giuseppe Artigiano, chiesa scoperchiata, l’enorme cantiere del Duomo e Santa Giusta, e soprattutto, una spettacolo che rincuora il visitatore, il ripristino della basilica di Collemaggio. Mentre lui non riesce nemmeno a evitare le esazioni fiscali a carico delle vittime della zona rossa. 

Landini all’Isola dei Famosi

Si sente parlare Landini e si trasecola. Deciso, preciso, irruento, quello che “buca lo schermo”, e anti-industrialista. Ancora, dopo sei anni di crisi, con la disoccupazione, i contratti bloccati, i redditi e i consumi in contrazione. Si dice anti-Fiat, perché il copione del reality vuole un antagonista, e lì c’è Marchionne, ma sentitamente anti-industriale. E esterofilo: tutti fanno meglio che in Italia. Naturalmente non è così, ma è come se facesse le parti della Volkswagen, della Renault-Nissan e della Toyota – che hanno tutte la flessibilità del lavoro al massimo e fino all’inimmaginabile.
Si pensa: è il gioco delle parti, il sindacalista attacca, l’azienda fa valere le sue ragioni. Ma La Fiom non difende i propri lavoratori. E, contro la tradizione del sindacalismo italiano, non difende il lavoro degli altri. Il “mercato” del lavoro non è l’Isola dei Famosi. Il sindacato di Detroit, dove la Fiat lavora onorata, è ben più tosto, e sa difendere i suoi lavoratori.

Il vasa vasa democratico

Molti giochi di parole con Crocetta non si possono fare, dato il nimbo di martirio di cui si aureola, ma è il vasa vasa della sinistra. Il nuovo zar della Sicilia ha fatto in fretta a rivelarsi il Cuffaro in salsa democratica. Altrettanto sbrigativo e personale. Negli appalti, nella gestione dei contributi a fondo perduto, alla ricerca, al patrimonio culturale, nelle nomine. Con ricorso costante ad amici e amici degli amici, col dirottamento dei fondi verso gli amici. Nell’impunità giudiziaria potendo contare su una magistratura di parte.
Non ha però l’impunità politica. Il Pd, il partito cui Crocetta è approdato dopo essere passato per Rifondazione e i Verdi, è inquieto sulla tenuta alle elezioni europee.  Se si votasse oggi, molte posizioni sarebbero recuperata dai berlusconiani. E dal partito di Alfano che si presenta terzo incomodo, della consistenza che ha oggi Grillo, ma con i voti di Casini e, in parte, dello stesso Crocetta.

martedì 14 gennaio 2014

La questione fiscale è la spesa

Fa trent’anni questo saggio inascoltato, che ora si può leggere online. Ma sembra oggi, già alle prime righe: “Ci si agita molto attorno all’Irpef”, e attorno all’“evasione, elusione, erosione”, il governo si agita ma non prende provvedimenti risolutivi, e il debito cresce, insieme con le tasse.
Non è un paradosso, è un errore e una colpa. Giorgo Fuà, uno degli economisti più innovativi, collaboratore di Gunnar Myrdal, Adriano Olivetti, Enrico Mattei, fondatore dell’Istao a Ancona, incubatore della managerialità “a cespuglio”, o modello marchigiano, proponeva allora una diversa modulazione del prelievo: meno imposta sul reddito, più imposte indirette, in linea con gli orientamenti socialisti europei degli anni 1970-1980. Coadiuvato da Emilio Rosini, professore di Scienza della Finanze e all’epoca consigliere di Stato. Di suo argomentava che “l’origine prima dei mali” era - è – “la eccessiva dimensione assunta dalla fnanza pubblica nel suo complesso”. Che non produce reddito e lo brucia sempre più.
A specchio, il presidente della Banca d’Italia, Visco, lo ribadiva qualche mese fa, a fine settembre, commemorando Luigi Spaventa:  “La crescita del debito pubblico fu il risultato dell’incapacità di rimuovere i gravi e crescenti squilibri fiscali determinatisi negli anni Settanta e Ottanta”. Determinatisi, cioè, per l’eccessiva imposizione fiscale. Che non è, anche se lo sembra, un problema dell’uovo e la gallina. Oggi – paradosso aggiunto al paradosso – lo Stato spende di più mentre taglia tutte le spese produttive, specie di servizi, la scuola, la sanità, i trasporti. Ma non si tratta di paradossi.
Fuà e Rosini, Troppe tasse sui rediti, free online

Problemi di base - 165

spock

Perché la Sanità ce la mette tutta per non funzionare?

Perché le auto prodotte fuori d’Italia costano meno: è dumping?

Le case che battono la crisi, Volkswagen e tutte le tedesche, Toyota, Ford, Renault-Nissan, investono in Germania, Inghilterra, Usa, paesi cari, e non in Italia, dove pure la meccanica è di eccellenza: ci sarà un complotto?

Hanno paura di Landini?

Perché il governo dice tante bugie?

Perché le dice tutte con le gambe corte?

Si dice terrorismo islamico, ma non sarà petrolifero?

spock@antiit.eu

La lezione della Francia

Ci sono molte lezioni da evidenziare nella farsa francese, ma la maggiore è che la Francia non ha alcuna lezione da dare. Non è più maestra delle nazioni, sotto nessun aspetto. Per la mancanza di ridicolo e non solo: l’indigenza politica si somma a quella, impressionante ultimamente, della cultura e del pensiero. Sembra la Francia del ’38-39, anche se nessun Hitler la minaccia: arroccata su neppure lei stessa sa che cosa. Parte non minore dell’indigenza dell’Europa. In quale altro paese il presidente fa una conferenza stampa con le domande concordate? E per 49 minuti e mezzo dei cinquanta minuti della conferenza stampa parla di Dieudonné, un comico?
E quanti pregiudizi nella vicenda Hollande. Capo dello Stato è un uomo politico del tutto incapace – mobilitò, da solo, contro la Siria. Letteralmente costruito dalla moglie. Che per essere donna, benché capace,  non può diventare presidente della Repubblica – tutti attribuirono la sconfitta di Ségolène Royal nel 2007 contro l’inetto Sarkozy al fatto di essere donna. Due amiche della moglie, benché più giovani di vent’anni, si rubano questo mollaccione perché è presidenziabile e poi presidente. Due donne estremamente toste e dure. Sembra Maupassant e lo è, nel 2014. Con in più la pretesa che tutto questo è privato.
Non si parla invece di Cécile Sarkozy, la prima (o seconda) moglie. Che aveva lasciato il marito imbelle benché primo ministro, è tornata per le foto della campagna presidenziale, e quando lui è arrivato alla presidenza se ne è tornata dal suo amore. Tutto l’opposto delle “amiche della moglie” che si contendono il titolo di Première Dame, ma non fa testo.

lunedì 13 gennaio 2014

Recessione – 13

Tutto quello che dovreste sapere ma non si dice:
La disoccupazione è al 13 per cento, poco meno: un record storico. Quella giovanile al 41-42 per cento.

Tre anni fa, quando la disoccupazione giovanile era al 29 per cento, c’era un colpevole, Berlusconi. Poi è scomparso.

Si suicidano ora anche i giovani frustrati, senza occupazione. I suicidi e i tentati suicidi di commercianti, artigiani, imprenditori e disoccupati sono circa 200 l’anno.

Nel 2013 i suicidi di persone minacciate dai debiti, la disoccupazione, la fame, sono stati quasi 150. Più un numero imprecisato di tentati suicidi, fra 60 e 70. Nel 2012 i suicidi erano stati calcolati in 89, i tentati suicidi in 48. C’è un’accelerazione.

Nei diciotto mesi del governo Monti, da fine dicembre 2011 a maggio 2013, ci sono stati 165 suicidi per motivi economici, 76 solo nel primi mesi del 1013.

In un saggio pubblicato sul “Journal of Epidemology and Community Research” un gruppo di studio Usa, di cui fa parte economista della Salute Roberto De Vogli, dà cifre doppie. Lo studio si ferma al 2010, ma rileva un raddoppio dei suicidi e tentati suicidi per motivi economici dal 2000 al 2010, rispetto ai primi cinque anni della decade: poco meno di 200 tentati suicidi nel 2010, di cui circa 190 riusciti, contro i 150 circa tentati nel 2005.

I suicidi della crisi potrebbero essere già 700. Scrive De Vogli: “Analogamente ad altri paesi europei, in Italia i suicidi complessivi sono diminuiti prima del 2008, per poi invertire rapidamente la loro tendenza all’insorgenza della crisi finanziaria. I suicidi e tentati suicidi sono cresciuti ad un tasso di 10,2 suicidi l’anno prima della crisi finanziaria, ma dopo questo periodo la percentuale è salita a 53,9 suicidi l'anno. Abbiamo così stimato un numero di 290 suicidi e tentati suicidi in eccesso imputabili alla Grande Recessione”. Fino al 2010.

L’amore è un’altra logica

L’amore non ha limiti. Ma anche l’idea di giustizia parte da un “interesse disinteressato” (Rawls). Pensatore per scorribande, da Kant alla psicoanalisi, al diritto di punire, e più al  “giusto”, alla giustizia, con una molteplicità di approcci, ermeneutico, letterario, di costume (la riedizione francese è assortita da due incursioni sull’“io”: “Le soi «mandaté»” e “Le soi dans le miroir des Écritures”), Ricoeur si propone di “gettare un  ponte tra la poetica dell’amore e la prosa della giustizia, tra l’inno e la regola formale”. Nella più ampia razionalità dell’“economia del dono”. Di cui il Nuovo Testamento è pieno: parabole, miracoli, poesie, e i comandamenti contro la Regola d’Oro.
L’amore è soprannumerario: anche quando evita l’esaltazione, si esprime con la lode (spesso nella forma del macarismo, i “beato”), l’inno, la benedizione, l’imperativo – qui nei limiti di Kant, come esortazione (“c’è una qualche stranezza a comandare l’amore, cioè un sentimento”). Tutt’altro mondo la giustizia. Ricoeur fa sue le conclusioni di Rawls, l’ultimo aggiornamento del “principio distributivo” (ugualitaristico) di Aristotele, dell’ “interesse disinteressato”, e di quello che chiama  “principio del massimino”: “massimizzare la parte minima”, non rappresentata, non riconosciuta dal giudice (errore, disinformazione, ignoranza, non rappresentatività). Ma di più non si può pretendere dalla giustizia.
Come si legano i due mondi? Ricoeur non lo spiega, soprafatto dal Cristo che non nomina – il trattatello è in realtà sull’amore, la giustizia ha poco spazio. Alla fine si limita a dire: “Poiché l’amore è sopra-morale, non entra nella sfera pratica e etica che sotto l’egida della giustizia”. Un inquisito obietterebbe.
Sulla Regola d’Oro Ricoeur ha un lapsus. Attento all’uditorio (“Amore e giustizia “ è l’allocuzione per il premio Lucas, nel 1989) a ogni passo, non spiega la Regola d’Oro quando infine la introduce, pur facendone largo uso – sintetizza la reciprocità,  il bilanciamento tra i diritti e i doveri di ognuno. Tanto è eversivo il precetto di amare il nemico. Dell’etica naturalmente, ma anche della precettistica dell’amore. Un passo più in là, e l’avventuroso filosofo si sarebbe trovata a chiedersi se la razionalità filosofica non sia economicistica, e cioè utilitarista, mentre l’umanità vive in un universo supererogatorio. Un universo che si può ridurre a “economia” del dono, a un’altra economia, poiché rifugge dal principio dello scambio, ma facendogli torto..
Paul Ricoeur, Amore e giustizia, Morcelliana, pp. 64 € 6
Amour et justice, Points, pp. 111 € 5,50

domenica 12 gennaio 2014

La gioia della dipendenza annienta

Tema ritornante, dopo De Quincey, le gioie della droga che annientano, oppio, morfina, eroina, cocaina, lsd, fumo, estasi. Poe, Baudelaire, Sherlock Holmes, W. Benjamin, Burroughs, Ginsberg e i beat tutti, Jünger, la lista è lunga, di nomi altisonanti. Gli effetti nulli, se non per il disagio – gli effetti della narrazione. Forse perché la dipendenza non è un paradiso artificiale.
Una coincidenza, un curioso controcanto ai salti i gioia con cui si discute del ddl Manconi per legalizzare la marijuana. Il “Breve trattato”, recuperato da Michael Hofmann nella vasta produzione postuma di Fallada, e presentato come “comicità nera”, è la cronaca della crisi di astinenza che ogni poche ore si riproduce. È assortito di un secondo racconto, dove in effetti si ride, sulla dipendenza dalla birra. Forse perché non tutte le droghe sono uguali, di alcune non si muore.
Fallada fu personalmente l’uno e l’altro. Impenitente alcolista con la prima moglie, morfinomane con la seconda - e nazista, non pentito, eccetto gli ultimi tre anni, vissuti a Berlino Est da comunista. Ma sempre infelice: morì nel 1947 lasciando 35 scatoloni di opere e duemila lettere inedite.
Il secondo racconto, “Tre anni di vita”, è attuale per un altro motivo: gli effetti della carcerazione preventiva, e della carcerazione. Un compagno di cella, che in libertà era un “ufficiale di giustizia”, propone vari sistemi per evitare il carcere preventivo (tra essi una sorta di braccialetto elettronico),  e ne diventa prigioniero, facendone una mania. Il carcere? Cambia gli uomini: dopo un anno sono “mentalmente malati”.
Hans Fallada, Short treatise on the joys of morphinism, Penguin, pp. 67 € 3,50

Lo scandalo è delle intercettazioni

All’Aquila uno scandalo sicuramente c’è. In attesa di sapere se il sindaco, il vice-sindaco e i funzionari si sono approfittati del terremoto (lo sapremo mai?), è scandaloso che fossero intercettati da anni. Con mandato di dubbia datazione. Comunque senza un procedimento aperto. Con esiti assunti e pubblicati a scopi di piccola politica o di carriera.
C’è un mercato delle intercettazioni. Si sa ma non si dice. Che si fanno a strascico. “Vendendo” poi le parti sensibili a questo o quel pubblico ministero interessato, per schieramento politico, per disegni di carriera. Il Genchi con cui lavorava il N.H.De Magistris per costituirsi la carriera politica non era il solo. Molti apparati, probabilmente più istituzionali che privati, di questo o quell’ufficiale comandante della Guardia di Finanza e dei Carabinieri, vi operano in continuazione.
L’ascolto della Juventus, culminato nello scandalo del 2006 a opera di due magistrati napoletani in carriera, resta emblematico, di intercettazioni avviate autonomamente dai Carabinieri. Ora i casi si moltiplicano, di intercettazione a tappeto e poi selezionate. Si sapeva di Berlusconi. Si conferma all’Aquila, dapprima contro la destra ora contro la sinistra politica. Si fa valere ora perché la giunta Cialente doveva cadere, o per motivi che non sappiamo, roba che risale a quattro e più anni fa.
Contro De Girolamo, altro esempio, si fanno valere intercettazioni che non sono state effettuate, seppure abusivamente, come si vuole, da un funzionario della Asl suo nemico. A questi, imputato per gravi reati, sono state “vendute” – ha accettato di assumersene la paternità - in cambio di sconti penali. Si fanno intercettazioni a tappeto e poi si sceverano, trascrivendole selettivamente e proponendole fuori contesto, per la carriera degli intercettatori, ufficiali e giudici. Solo l’uso strumentale di queste intercettazioni è attuale. 

Il golpe giudiziario

Liquidato Berlusconi, la giustizia ha alzato il tiro: mette sotto accusa il Parlamento, il presidente della Repubblica, e ora anche le libere elezioni. Un Tar, tribunale amministrativo, che decide le sue cause in poche settimane, liquida le elezioni in Piemonte dopo quattro anni non per un disguido, per un disegno. E sarà forse una decisione di sinistra contro la destra, come intende la Lega, ma è comunque un affondo contro le istituzioni.
L’Italia è sommersa dalle disfunzioni, e anzi le ruberie, della politica. Che è effettivamente incapace, ma per questo stesso fatto forse non tanto corrotta. Le mutande in conto ai Consigli regionali sono parte della decisione, introdotta a suo tempo da Violante dalla presidenza della Camera, di riconoscere comunque agli eletti un plafond mensile di rimborso spese, a prescindere dal giustificativo – basta “produrre ricevute” (scontrini, fatture) ai fini del fisco. È così che di ladri accertati c’è, finora solo Batman, e degli altri non sapremo forse mai se sono colpevoli.
La sfida del sistema giudiziario è invece sicuramente abnorme, e illegale. Non si può accertarlo perché la giustizia ha nel nostro ordinamento questo privilegio, di poter essere illegale. Ma è un fatto.