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sabato 25 gennaio 2014

Ombre - 206

“La democrazia italiana è morta col governo Monti”, spiega Noam Chomsky in conferenza al Parco della Musica a Roma. Non con la fine, con l’inizio del governo Monti: “Un premier non eletto ma designato dai burocrati di Bruxelles. Il risultato di un’Europa che ha distrutto il welfare, orientata da banchieri e industriali capaci di orientare le scelte dei governi, indipendentemente dal loro colore politico. Mentre i giornali si occupano di scandali locali, sport e star del cinema”.

Letta, che ha fatto il governo con Berlusconi, e resta in carica col voto di fiducia di Berlusconi, chiede subito una legge sul conflitto d’interessi. Contro Berlusconi? No, contro Renzi. Per evitare la legge elettorale – finché non c’è la legge, non si va a votare, il governo dura, e tutto va bene. All’ombra dell’onestà.

“Ruby-ter, indagato Berlusconi”, titola “la Repubblica”: “Tra i pm non c’è Boccassini”. In effetti, è una notizia.

Senza più credito, Hollande lo cerca in Vaticano. Con l’aborto libero e il matrimonio gay, ma papa Francesco non si sottrae. Giusto per le tv. Un colloquio di 15 minuti, al netto dell’interprete. Per nessun motivo, giusto per le tv, da veline.

Ufficialmente, Hollande ha proposto al papa la benedizione degli ignoti nemici di Assad. Ma non ce n’era bisogno: Hollande è bigamo, è un passo avanti per l’unità delle fedi, a metà con le quattro mogli dell’islam.

Poi, il papa ha dovuto spiegare a Hollande che san Francesco d’Assisi è il loro santo comune. Il laicismo si vuole ignorante?

“I 5 Stelle votano per il ritorno al proporzionale. Trionfa il modello Prima Repubblica”. Il nuovo.

Vietti (Csm): La carriera sarà legata al rendimento”, “La corrente non può esser un ufficio di collocamento”, “Stiamo elaborando la riforma, bisogna sapere quanto e come lavorano”. Quando non si sa. Si sta parlando dei giudici, che si sa, non da ora, non ne vogliono sapere di lavorare. Soprattutto fra i più aspri censori della morale, Santacroce, Canzio e gli altri supremi della Cassazione.

Gioca la Roma martedì sera in chiaro alla Rai, e dalle 20.30 alle 22.30 non c’è un macchina per strada. Pizzerie e ristoranti vuoti, del tutto. Parcheggi immobili. Un’allucinazione? Un miraggio? Notturno?

“Pregiudicatellum”, “condannatellum”, non si sa coma bollare d’infamia la legge elettorale. La trovata non viene, l’ora è fuggita?

Un “agguato” politico. La cosa più curiosa dello “scherzo” delle Iene a Paola Ferrari, un tentato stupro all’ingresso della sede Rai milanese, è che la conduttrice è di destra. Anzi, proprio della Destra della sua amica Satanché. Ma si possono dire le Iene di sinistra, se lavorano a Mediaset? Saranno le berlusconiane colombe contro i falchi.

Panebianco chiede di dare la “giusta dimensione” alla disoccupazione giovanile, escludendo dal computo gli studenti delle superiori e gli universitari. Per non dare al fenomeno, già grave di suo, dimensioni catastrofiche – “che studio a fare se tanto non lavorerò?”
L’Istat lo taccia d’ignoranza: il professore non sa che ci sono le regole europee. Ma chi è più malato, l’Istat o l’Europa?

“Dei cinquemila dipendenti del San Camillo”, scrive “la Repubblica-Roma”, “919 hanno il certificato di inabilità”. Audaci? Ma uno stipendio fa comodo. San Camillo è il grande ospedale di Roma.

Fabio Picchi, simpatico titolare del “Cibreo”, ristorante nazionalpopolare di Firenze, lamenta le vessazioni di una vigilessa, che gli contestava un cm. di sporgenza di una vetrina, e la copertura di un buco del marciapiedi con uno zerbino. Con infinite cause perse dal Comune, ma con spese di tempo e soldi del Cibreo. Senza scandalo. Per esempio, Picchi non lamenta di aver dovuto anche pagare lo stipendio alla vigilessa.

“Berlusconi nella sede del Pd. La folla lo contesta”. Il messaggio corre, ipad, iphone, giornali online  in delirio. Dovendo passare, ignari, per via della Mercede all’ora X, non c’erano più di una ventina di persone, molte meno delle guardie, la maggior parte delle quali incuriosite. La contestazione era un uomo coi baffi, davanti a un compagno con un piccolo striscione, e un compare che li riprendeva. La contestazione è la rete.

Fa in effetti senso vedere un condannato, appena espulso dal Senato del giudice Grasso, protagonista e anzi ispiratore della politica. Tanto più che fra poco sarà in carcere, ri- e pluricondannato. Fa senso per i suoi giudici più che per lui.

Trierweiler, delusa nell’amore sovrano, si ritira a Versailles. Pompadour dell’epoca dei diritti.
Anche Pompadour era cagionevole, e piuttosto politicizzata.

Soprattutto, Vietti – chi era costui? – non parla degli appannaggi. Mediamente superiori a quello del presidente della Repubblica. Che è uno, mentre i giudici sono una forza lavoro, si fa per dire, non irrisoria, novemila. Per lavorare un giorno la settimana, accumulando dieci, o sono otto?, milioni di processi pendenti. Più che una corporazione, una pacchia. Goliardia spinta.
Senza che mai lo stesso presidente della Repubblica, “la più alta magistratura dello Stato”, protesti. Si diverte? Li teme?

L'immaginazione al virtuale

James Dean in versione Chris Lean, a cavallo e in moto (Jack Nicholson, “Easy Rider”), 1977, e i due ultimi capolavori di Manara, all’inizio del millennio, sulla generazione tv e la generazione 2.0, “Rivoluzione” e “Tre ragazze nella rete”. Riviste insieme, danno al fumettista dell’eros uno spessore antropologico. I nuovi Robespierre di “Rivoluzione” restaurano la ghigliottina per i divi strapagati e strafottenti della tv. Le “ragazze nella rete”, che si esibiscono cioè in webcam, sanciscono la “virtualità totale”.
Le ragazze della rete, Wilma, Wendi e Wanda, formano un “www”, a “un’esistenza da avatar parallela a quella vera senza farle collidere”. Della virtualità Manara ha avvertito subito il potenziale: “L’intangibilità”, spiega a Diego Malara, “dei personaggi che vivono nel mondo virtuale”. Senza bisogno di passare dal virtuale al reale, anzi per il bisogno opposto. Ma è un po’ di più o un po’ di meno della tv.ghigliottina? “In fondo, la tv e la ghigliottina hanno qualcosa in comune: impediscono alla gente di pensare con la propria testa”, è la filosofia di “Rivoluzione”. I cui eroi si fanno poi vip in tv.
Milo Manara, Potere alla tv, Corriere della sera, pp. 144. € 10,99

Il dividendo lo pagano i giornalisti

Stato di crisi con dividendo. Nel “corpo mistico” di “Repubblica” fa sorridere, ma il fatto è immorale, e anche traumatico. E non  è il primo caso – né il solo.
Repubblica-L’Espresso aveva appena chiuso in utile il 2012, malgrado il calo delle vendite, e un andamento 2013 negativo. Non molto, 22 milioni, ma l’unico della galassia De Benedetti – su tutto il resto va male e s’è già mangiata la rendita giudiziaria a spese di Berlusconi. Il quale dichiarava: “La creazione di posti di lavoro è la priorità che abbiamo davanti”. Il giorno dopo chiedeva lo stato di crisi e notificava 81 “esuberi” di  redattori. Scioperi, mozioni degli affetti, “corpo mistico”, superiorità morale, etc., etc, il governo Letta rimpingua il fondo di solidarietà, e dai licenziamenti si passa ai prepensionamenti. Con una procedura non proprio da agape: si è votato tra solidarietà e prepensionamenti, e la maggioranza di “Repubblica” ha deciso il prepensionamento dei più anziani. Che quindi si faranno, ogni anno alcune decine, a mano a mano che i redattori arrivano ai sessanta. Il senso di appartenenza salvando con contratti di collaborazione agli stessi. Come dire: continuate a lavorare, al costo di un decimo.
Non è il primo stato di crisi di un’azienda che paga dividendi milionari. Lo steSso De Benedetti aveva licenziato un’altra ottantina di redattori nel 2009-2010. Analoghe le procedure al “Corriere della sera”, altro giornale ricco. Si scaricano i costi in parte sulle strutture previdenziali e assistenziali di settore, Inpgi e Casagit, e in parte sul Fondo di stabilità costituito dalla legge per l’editoria, un paio di centinaia di milioni l’anno. I prepensionamenti non sono sgraditi, a questo punto, ai giornalisti,. E forse sono anche giusti. Ma che giornalismo è, sotto mannaia, e sia pure aziendalistico? Che impresa è?

venerdì 24 gennaio 2014

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (195)

Giuseppe Leuzzi

La giudice Boccassini parla all’improvviso a lungo della prima inchiesta di Caltanissetta sull’eccidio di cui fu vittima Borsellino, per dire falso il testimone Scarantino, che depistò le indagini per un quindicennio.  Che lei l’aveva capito subito e l’aveva segnalato.
Cioè, non ne parla ora, ne ha parlato alcuni anni fa in sede giudiziaria. Ma la segnalazione a Giovanni Bianconi arriva ora. C’è una novità? Sì, dire che Nino Di Matteo, ora giudice dello Stato-mafia, era uno di quelli a cui Boccassini aveva segnalato il depistaggio.

I monologhi di Riina, le esecuzioni di Cassano allo Jonio, come Duisburg o la testa mozzata di Cittanova, sono segno di disumanità. Che è il proprio del mafioso. Irriducibile alla psicologia e alla sociologia, inevitabilmente assolutrici, di cui le tante storie che si fanno delle mafie le ammantano. Trascurando proprio questo aspetto: certa asocialità (prepotenza, violenza, che sia crudele o “normale”) è solo inumana.

La Svezia, giornali, consumatori e governanti uniti, proibisce le caramelle alla liquirizia in quanto razziste. Il Nord è speciale in tutto, ma nella stupidità si vuole inarrivabile.

Le caramelle alla liquirizia che la Svezia proibisce sono tedesche. C’è sempre un Nord “più” superiore dell’altro.

Il vescovo antimafia non piaceva ai giudici
Mario Casaburi ha scritto un libro, “GianCarlo Maria Bregantini. Una luce nel giardino della Locride”, sul vescovo di Locri-Gerace che stava rivoluzionando il “territorio” ma non piaceva ai giudici. Il vescovo-operaio trentino, nominato da Giovanni Paolo II, non si accontentava delle liturgie, e poneva al centro i problemi centrali. Nella sua diocesi il lavoro giovanile e le mafie. Su un caposaldo perfino troppo semplice: “È aberrante l’idea di un destino ineluttabile per cui in Calabria tutto è sempre stato e sempre sarà così”. Contro le mafie rivolgendosi alle donne: “Fermate i vostri mariti e i vostri figli eventualmente coinvolti nel traffico o smercio della droga: pensate a quelle donne, mamme come voi, che versano lacrime vedendo i loro figli distruggersi”. Ai giovani offrì una serie di sbocchi con aziende cooperative, specie in agricoltura, e di volontariato. Per predicare meglio, sempre fuori della ritualità, teneva una rubrica settimanale sul “Quotidiano della Calabria”.
Era un rubrica molto letta, e questo precipitò l’astio degli avvocati contro il vescovo. E sulla loro taccia dei giudici. Le piccole cooperative di giovani venivano bollate, nei convegni della Legalità, imprese capitalistiche, e Bregantini “il vescovo dei conti in banca”. Gli accusatori forse non erano nemmeno massoni. Subito allora le mafie dinamitarono i capannoni e bruciarono o avvelenarono le coltivazioni delle cooperative e le associazioni volute dal vescovo. I giudici si adeguarono. Quando il nome del vescovo emerse in un’intercettazione non fortuita, e probabilmente concordata, il Vaticano di Benedetto XVI ne dispose la rimozione.
Nell’intercettazione, quattro pagine a spazio 1, gli esponenti della cosca Giuffré di Seminara, esprimendosi tra di loro in italiano perché non ci fossero equivoci, invece che in dialetto come tutti, alludevano al “brigantino” come a un “adepto” (nella sociologia da caserma la mafia è una setta, con giuramenti, rituali, formule)  – la vicenda è stata ricostruita in questo stesso sito due anni fa:
La registrazione non fu pubblicizzata, ma lo stesso “messa a disposizione” di chi doveva sapere. Rimosso Bregantini, la normalità è tornata mafiosa nella Locride. Che, non si può negare, resta malgrado tutto un giardino. Ma un giovinastro può nuovamente fermarvi per strada e chiedervi 200 euro, anche 300, per un’esigenza improvvisa, come prestito. Dopo che siete stato al bancomat. La mafia non nasce dal nulla.

L’uomo nuovo del Sud viene dal Nord
“L’uomo nuovo viene da Sud”, titola “Il Sole 24 Ore” domenica 19 la presentazione, da parte di Lara Ricci, di “tre potenti romanzi” che “arrivano dal Sudafrica””. Uno di Nadine Gordimer, premio Nobel inglese trapiantato in Sudafrica, uno di Cortzee, premio Nobel olandese trapiantato in Sudafrica, e uno di Tathamkhulu Afrika, pesudonismo adottato da uno scrittore sudafricano di madre turca e padre arabo – uno la cui biografia cosmopolita somiglia bizzarramente a quella di Petros Markaris, che il settimanale intervista nella pagina precedente, romanziere certamente greco, ma di ascendenza e cultura greco-turco-tedesca (a quest’ultima Markaris tiene soprattutto).
Ci rubano anche lo spazio per scrivere.

Il ritorno (o nostos)
Il ritorno è la ripresa di un cammino interrotto. Sia pure per una visita breve, di circostanza, un dovere. È un ritorno alla continuità. Anche in chi ha fatto la scelta contro ogni resistenza e richiamo di affetti, la madre, l’amata\o. Pippo Pollina ha “scelto” la Svizzera invece di Palermo. Dove ha realizzato, dopo vent’anni, con artisti svizzeri e tedeschi, il suo migliore disco. Con questa filosofia: “Ed io penso a mia madre e con lei i suoi sorrisi.\ Mi vedeva dottore nei suoi sogni ormai in crisi.\ Ed io penso alle sua carezze ed al suo pianto salato\ quando venne il giorno triste in cui me ne sono andato”.
Il disco ha intitolato “Suden” – un plurale cosmopolita ma con connotato preciso: la nostalgia. Condivisa dai suoi coautori per motivi estetici (luce, calore), ma pur sempre nostalgia. Ne ha i colori, dietro lo stereotipo del Sud nelle notti invernali del Nord :“A sud del mio cuore c’è una casa di campagna\ dove tutto è quiete e riposano i pensieri,\ dove il tempo si è fermato…”

Il cugino di Torino e l’odio-di-sé - Forza Lega!
“Mimmo Calopresti è nato a Polistena nel 1955, ma, bambino, si è trasferito con la famiglia a Torino”: osì esordisce la nota biografica del regista al suo volume di ricordi “Io e l’Avvocato”. Il “ma” serve alla metrica (la presentazione è un distico in rima). Ma è pur sempre un avversativo, che si ritrova qua e là nel testo. Anche se Calopresti si compiace delle tante medaglie istituzionali al merito, da buon calabrese di Bisanzio – Polistena è in Calabria, e anche Calopresti, i nomi purtroppo non tradiscono.
Il regista è il “cugino di Torino”, anche lui, del compianto Mario Bagalà, poeta faceto e musicista sensibile? Quello che ogni tanto ritorna, sbafa da amici e parenti, e ne sparla, del paese e dei parenti. O arriveremo i meridionali alla condizione degli ebrei assimilati, quando si cambiavano il nome?

Ma oggi gli ebrei il nome se lo cambiano al rovescio, lo levantinizzano. Ci sono cicli nella storia, magari arriverà la curva anche per il Sud. Forza Lega? Il cugino di Torino parte ogni volta insoddisfatto – di se stesso, non del luogo, se bene o male ci ritorna. Non da ora. Gli basterebbe acquisire un po’ di autostima.

leuzzi@antiit.eu

Poesia-poesia, e la guerra svanì

Una poesia che prende corpo in controluce. Di “gergo poetico” - di calchi classici e ermetici – su sfondi drammatici: la guerra, le tradotte, la prigionia, i bombardamenti. “Irrompe la storia”, disse Giacomo Debenedetti della plaquette all’uscita, nel 1947. Che Dante Isella concelebrerà: “Uno dei più bei libri di versi del Novecento”. Raboni ridimensiona la storia a “esperienza”. Ma è ancora troppo, il “gergo poetico” è fine a se stesso: rilette a distanza, le tre esili raccolte del libro non escono dall’impressione fugace, lo stato d’animo indistinto. Gli sfondi drammatici (in una, “Frontiera”, Sereni va a fare la guerra alla Grecia, nella seconda, il “Diario d’Algeria”, è prigioniero, la terza, “Il male d’Africa”, è la sconfitta) ce li deve mettere il lettore con la biografia.
Vittorio Sereni, Diario d’Algeria

giovedì 23 gennaio 2014

La zona grigia della Colpa

È uscita infine anche in Italia due anni fa, nel mentre che se ne preparava l’edizione in francese, l’“Intervista” che il 27 gennaio 1983 Primo Levi aveva avuto con Anna Bravo e Federico Cereja, due storici. Quattro anni prima della decisione di farla finita. Il titolo francese, “La zona grigia”, sembra anche più pertinente. Il testo Einaudi l’edizione francese fa precedere ad una prefazione di Carlo Ginzburg, “Calvino, Levi e la zona grigia”, in cui lo storico riprende “Un dialogo”, il suo libro di colloqui con Vittorio Foa dieci anni fa, della “zona grigia” che non è un giudizio, né un fatto etico, ma una categoria analitica, descrittiva, una rilevazione.
Fra i tanti aspetti di Levi scrittore, c’è questo, insiste Ginzburg: “La ricostruzione di Auschwitz come una gigantesca esperienza biologica e sociale”. In qualità di chimico, qui delle pulsioni, estraendone “ciò che può esserci di più rigoroso come campo di sperimentazione per determinare ciò che c’è d’innato e ciò che c’è di acquisito nel comportamento dell’uomo confrontato alla lotta per la vita”. Laboratorio di sperimentazione “rigoroso” forse no, ma non c’è bisogno di essere pilateschi: è vero che Levi era ed è restato un ricercatore, ma sulla vita nel lager da testimone del fatto, dopo esserne stato vittima. Tutto questo non è senza importanza per lo storico, non dovrebbe.
L’intervista è tutta da scoprire – è ben un inedito. È appesantita dagli interventi dei curatori, che intervistarono Levi nell’ambito di una  ricerca sulla memoria della deportazione, condotta in Piemonte a partire dal 1982. Ma Levi, benché pressato, se non contestato, non si sottrae. Nella ricerca, “oltre 10 mila cartelle raccolte”, confluiranno 220 testimonianze, che danno una realtà composita del fenomeno: “Una metà”, dice Cereja (lo storico nel frattempo è deceduto), erano “prigionieri politici, poi ci sono molti militari, sbandati, rastrellati anche”, per rastrellati intendendosi sopratutto operai al lavoro obbligatorio.
“Zona grigia” è un concetto di Primo Levi. Qui anticipato, verrà trattato ne “I sommersi e i salvati”, quindi nel 1986, un anno prima del suicidio - “La zona grigia” è il secondo capitolo del saggio-rrievocazione. Si riferisce ai prigionieri collaboratori: “La classe ibrida dei prigionieri-funzionari costituisce l’ossatura del Lager, e insieme il lineamento più inquietante”. Con un potere “sostanzialmente illimitato” sulle vite degli altri prigionieri. Non una nozione vaga di passività, rassegnazione, disimpegno, quale la zona grigia è passata frequentemente a denotare, ma un fatto preciso, di mors tua vita mea. E riguarda tutti gli internati, compresi gli ebrei, Kapò  o Sonderkommando, e i comunisti delle furerie e le infermerie. Il saggio di Anna Bravo che chiude la pubblicazione ne dà le coordinate. Basta ricordare che, come la precedente “banalità del male”, la “zona grigia” ebbe un’accoglienza largamente ostile, perché dirompente: rompeva le certezze rituali, di qua il bene di là il male. Anche nell’Olocausto. “Questo è un argomento veramente ustionate”, Levi ripete: “Io rimango atterrito davanti a questa faccenda”.
L’“Intervista”, due ore e mezza di conversazione, si chiude con la testimonianza più originale, anche per la storiografia, e meno rilevata: la “selezione” a opera talvolta degli stessi internati, in questo caso i “politici”, del partito Comunista: “E quindi credo che dovesse essere pure ammesso questo fatto, che potesse essere condannato a morte uno qualunque per salvare uno di loro. Non mi sembra più… non mi sembra una cosa così… così mostruosa”. Per trenta e più anni, però, sì, gli è sembrata mostruosa, si arguisce dal tono di rassegnazione. E anche da questa resipiscenza morale, questo adattamento: uno come Primo Levi non poteva che vergognarsene.
Il suicidio, a differenza delle sentenze, si può solo rispettare e non commentare. Ma Primo Levi non mancava di ragioni – a partire dal rifiuto che gli fu a lungo opposto di “Se questo è un uomo”, un capolavoro. Era del resto il non-eroe: non politico, non tragico, non storico, non filosofo. Un sopravvissuto. Un uomo pratico, e uno scrittore. Rileggendo la trascrizione a distanza di trent’anni, è il tono che insistente colpisce, specie di fronte alla semplicità, aggressiva, degli storici che lo intervistano. È onesto.
Anna Bravo-FedericoCereja (a cura di), Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, pp. 93 € 10
Primo Levi, La zone grise, Payot, pp. 160 € 16 

La sindrome B.

B. sorride con tutti i denti, come la natura di affarista gli comanda. Bucato di freccette. L’occhio destro tagliato, le guance a bozzi, il mento e la bocca inferiore di un giallo sospetto. Tanti B., variamente calpestati o accartocciati, strappati, rosi dall’umido, coprono il selciato dell’ex Mattatoio a Roma il giorno dopo la festa dell’Unione. Agli alberi resta qua e là affisso l’inno in morte di B. del Grande Scrittore di cui il B. editore ha decretato la fortuna – il solito siciliano prima fascistissimo e poi comunistissimo, ora popolarissimo pare nelle tv inglesi di cucina, con le ricette “pappanozza” e “pirciati bollenti”. La guardiana irsuta, fumata, gattara, guarda e chiude le imposte, ha freddo, e sempre borbotta – “‘sti lazzaroni, so’ compagni e lasciano ‘a monnezza”.

mercoledì 22 gennaio 2014

Ancora uno sforzo

Giunti al franco tiratore come migliore strumento e invincibile si è forse passato il limite: il voto segreto contro Prodi non fu un colpo di luna ma una prova generale. La politica “migliore” si vuole di passo, di agguati e cecchini, fantasticandosi Robin Hood, ma di cause perse, in realtà da briganti con la patente. Non si capisce cosa sta succedendo al Pd, ma quello che si capisce è orrido.
Renzi agisce come trickster dei Democratici. Il bambino di Andersen che dice quello che tutti vedono e non osano, che il re è nudo. È il ruolo che ha fatto il successo di Berlusconi e Renzi, giustamente, vuole uscire dalla sudditanza culturale. Sembra quindi un passo semplice e dovuto. E invece è una spoletta, un innesco esplosivo.
Sulla legge elettorale, la riforma delle Camere, i costi della funzione politica, tutte cose ovvie, gli altri Democratici non sanno cosa vogliono, ma sono “decisi a tutto”. Si può dirla la sindrome del suicidio collettivo,  muoia Sansone con tutti i filistei. Ma non è così: questi vogliono che noi moriamo, loro s’immortalano.
Il marchese di Sade, rivoluzionario rinchiuso alla Bastiglia, non si dava per vinto e incitava: “Francesi, ancora uno sforzo!” Il partito Democratico non ne avrebbe bisogno. Ha massimo garante della democrazia il suo esponente migliore, inamovibile al Quirinale per altri sei anni, un’eternità. Ma allo sforzo sembra ambire ugualmente, per il disfacimento.

Problemi di base - 166

spock

Se non ora, quando?

Se è l’ora del latinorum: cupio dissolvi? cui prodest? usque tandem?

È la religione l’oppio dei popoli, o è l’oppio la religione?

E la politica?

Perché predicare nel deserto?

E perché agitarsi, Grillo per esempio?

Che glielo avrebbe detto ai grillini che diventavano parlamentari?

Nove milioni di processi arretrati. No, forse sette. Fa differenza?

spock@antiit.eu

La scomparsa del centro-sinistra

Ospite da Fazio, Rodotà misura la miseria della politica di oggi con un esempio, il 1970: “In un solo anno, si fecero leggi, il sistema sanitario nazionale, lo statuto dei lavoratori, il divorzio, il diritto di famiglia, etc., che rivoluzionarono l’Italia”. Ma, socialista all’epoca, non  menziona il centro-sinistra che quelle leggi volle e riuscì a far approvare. Leggi più socialiste che democristiane, ma non importa. Era il centro-sinistra classico, la collaborazione tra Psi e Dc.
La damnatio memoriae continua totale, anche dopo lo sfacelo successivo, quarant’anni di disfacimento all’insegna del compromesso storico. Che non voleva dire nulla, null’altro che l’annientamento della cultura riformista, a favore delle subculture, come si definivano, cattolica e comunista. E ha annientato la sinistra politica e ha corrotto la Dc – anche se ora questa trionfa, nei contenuti e nei metodi.
Una scomparsa totale, non casuale. Non solo i politici, quale, malgrado tutto, è ancora Rodotà, fanno finta di nulla. Nella pur voluminosa “Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi” di Ginsborg che ancora fa testo, e nelle altre, a opera di storici anglossassoni come Ginsborg o anche italiani, il centro-sinistra c’è e non c’è. Il compromesso storico invece c’è – dice Ginsborg – dai tempi di Badoglio. Che storia. 

martedì 21 gennaio 2014

I generi letterari, che spettacolo

È quasi un classico, a un anno dall’uscita, il film sui generi dei fratelli Wachowski. Sui generi letterari. Roba da non credere: un canovaccio raccontato in parallelo in chiave storico-drammatica, comica, epica, romantica, fantascientifica, noir. Un film sui generi letterari, lungo tre ore. Raccontato anche in modo sofisticato, molto, per un grande pubblico. È infatti una grande produzione, costosa, in luoghi e tempi diversi quasi a ogni take. Impensabile altrove, per esempio in Europa. Decisamente, bisogna rivedere la storia della cultura, per esempio tra gli Usa e l’Europa – da cui molti americani sono per la verità fuggiti.
Lana e Andy Wachowski, Tom Tykwer, The Cloud Atlas

Il diritto al segreto

“Forse ogni rapporto a due – e per eccellenza quello di convivenza amorosa – ha bisogno, nei momenti di incomprensione e di scontro, di una dose non eccessiva di dissimulazione, piuttosto che degli sfoghi laceranti cui ci ha abituati tanta letteratura” – la psicoanalisi casereccia del dirsi la verità. Per un motivo: “La verità annidata nel cuore – o meglio quella rancorosa lontananza che si crede definitiva  e talora è invece solo provvisoria – si distorce si falsifica nella declamazione del risentimento, magari inconsistente ma, se sbandierato, ormai irreparabile”.
Magris fa una garbata divagazione sul segreto, tema di una sua conferenza, intitolata proprio “The secret”, di non si sa quando non si sa dove. Un segreto nel segreto dunque. Potremmo ipotizzarla – voluttà del segreto – come discorso di accettazione della nomina a duca di Segunda Mano del regno di Redonda, altra entità segreta, di cui è sovrano lo scrittore spagnolo Xavier Marìas – dopo Almodòvar, Francia Ford Coppola, Pietro Citati, duca di Remonstranza, e prima di Umberto Eco,  duca dell’Isola del Giorno Prima. Ma è una trattazione seria, sulle virtù del segreto. Al netto degli abusi del potere, il luogo del segreto autoritario, e dei servizi segreti. E contro gli abusi delle intercettazioni e del pettegolezzo, all’insegna fraudolenta della trasparenza.
Contro questi abusi Magris cita il segreto confessionale, la virtù meglio custodita dei sacerdoti, e il “Nuovo Dizionario di teologia morale”, a uso dei confessori, alla voce “Segreto”, redatta da Luciano Padovese. In cui, plaude Magris, “si esprime la preoccupazione più viva di tutelare il segreto non quale ineffabile mistero bensì quale difesa della dignità della persona e della sua intimità, della sua verità interiore”. E “si sottolinea come la sofistica crescita tecnologica dei mezzi di comunicazione consenta sempre più inquietanti violazioni dell’elementare vita quotidiana, in una spirale di comunicazione globale che diviene espropriazione della persona, voyeurismo travestito da scienza o da indagine sociologica, di denuncia politica, di gossip culturale”. Con una strana equivalenza-omologazione, tra voyeurismo, politica e gossip.
Una perorazione del “diritto all’opacità” di Édouard Glissant. Specie in materia di creazione letteraria. “Tanta grande letteratura”, aggiunge Magris, “consiste, nella sua stessa struttura, nell’incremento dell’oscurità e non nella sua chiarificazione”. Glissant, scrittore antillese, è una delle fonti cui Magris si rifà, con Claude Sulzer, lo scrittore svizzero del “Concerto”, David Vann, scrittore e navigatore dell’Alaska, e lo stesso Marìas, perlopiù sconosciute ai più. Evitando i riferimenti canonici, filosofici (“procedo mascherato”), tragici, poetici – l’unico classico è Graciàn, “La verità è pericolosa”..   
Claudio Magris, Segreti e no, Bompiani, pp. 58 €7

lunedì 20 gennaio 2014

Berlusconi fa vent’anni – 14

astolfo

“20 anni dopo\ Finzione e realtà”. “Il Fatto Quotidiano” celebra in grande, in rosso, i vent’anni de “L’Italia è il paese che amo”, il disvelamento di Forza Italia e la  “discesa in campo” di Berlusconi. Dicendo che l’evento era preparato da tempo, il che non può non essere vero. E che Berlusconi era investito da Craxi: questo invece non è vero, ma conferma che l’“uomo nero” dei disfattisti (in genere missini riciclati comunisti, il piccolo destra-sinistra della Seconda Repubblica) è sempre Craxi, anche se l’uomo è ben morto - cioè le riforme, che Craxi aveva fatto, o stava per fare e si devono ancora fare (per prima la giustizia, l’agente killer di tutte le Repubbliche).
Niente di più lontano da Craxi di Berlusconi. La capacità di decidere contro il rinvio. La capacità di fare contro l’inciucio permanente. Un’idea della politica contro nessuna idea. Il pluralismo radiotelevisivo Craxi volle in omaggio alla milanesità e contro il monopolio becero – che perdura – della Rai. Berlusconi del resto, quando veniva a Roma andava da De Mita, con un pacchettino sempre infiocchettato, accompagnato da Gianni Letta – così Stefano Brusadelli lo descriveva sul “Mondo”. Lo stesso De Mita del partito Scalfari-De Benedetti che a fine luglio 1990 “ritirerà” i “suoi ministri dal governo Andreotti VI che varava la legge Mammì, la liberalizzazione dell’etere - e continuerà a governare senza i ministri di De Mita, grandi nomi: Martinazzoli, Mattarella, Bianco, Piga, Fracanzani (che democrazia!). 
Il suo limite, poiché non si può provare che è un corruttore e un corrotto, e anzi probabilmente non lo è, benché sia l’unico finora ricercato e perseguito, sarà di esser stato “troppo buono” - tutto il contrario di Craxi. Niente teste tagliate, salvataggi e anzi promozioni di nullità quali Fini e Casini, e lo steso Bossi piccolo familista. Nessuno contro, nemmeno coi sindacati: la riforma delle pensioni nel 1994 avrebbe bissato quella della scala mobile dieci anni prima e avrebbe rilanciato potentemente l’Italia. Nessuna vera battaglia contro i suoi giudici politicanti, loro invece durissimi, insolenti, e i tanti suoi altri nemici, specie non “comunisti” – i suoi beneficati per esempio, da Mentana a Travaglio, per non dire di Montanelli. 
Ma è vero, c’è sempre da dire di Berlusconi. Che è di più della macchietta dei lanciatori di uova, sia pure giornalisti intemerati e storici di professione. E di meno di quanto lascia intendere. Confermando il personaggio del bravo venditore, persuasivo, da cui per questo bisogna guardarsi. Anche un po’ pazzo, e per questo pericolosamente simpatico – lo diceva Aznavour, in concerto a piazza del Duomo nel 2009 (a 85 anni…), che Berlusconi aveva sfidato a duettare: “Silvio mi piace perché è matto, e io ho sempre adorato i matti”.
Non per merito suo, ma a petto di troppi belli-e-buoni della Repubblica pieni di sé e ipocondriaci, la politica è comparativa. Migliore imprenditore che politico, poiché da politico si è lasciato ingabbiare in galera – e da chi poi, un giudice nepotista. Anche se ha vinto tante elezioni. Compresa l’ultima. Ma qui si è chiarito che vince per la forza della disperazione: gli italiani per un quarto si sono astenuti, per un quarto hanno votato Grillo, che è la stessa cosa, e per un quarto sono tornati a votare, contro gli scandali e le condanne, Berlusconi.
Doroteo d’opposizione
Che si può dire per i vent’anni? Che Berlusconi non era di plastica, come si diceva. Ma che il  berlusconiano partito dell’amore è, è stato, il vecchio partito doroteo, della mediazione a fini di non fare – l’opposto delle sue roboanti promesse. Con una differenza. Con comportamenti cioè curiosamente “incrociati”, tra il Berlusconi degli affari e quello della politica: doroteo sempre in affari, accomodante, contro ogni sfida e oltraggio, anche quando il Pci-Pds gli armava contro i referendum, mentre è stato ed è divisivo in politica. Alla ricerca costante, se non alla creazione, di nemici. A partire dai suoi figli e figliocci. Più a suo agio all’opposizione che al governo, che ha presieduto due o tre volte con grandi maggioranze parlamentari ma a nessun effetto. Una sindrome potrebbe essere di senile cupio dissolvi, ma poi a ogni elezione, compresa quella di febbraio, si dimostra che non è.
Non è una contraddizione, c’è un prima e un dopo. Berlusconi sapeva marciare come imprenditore senza nemici, mentre da politico non ha fatto che attizzare. Perché prima era colonizzato, suo malgrado, da Craxi, di cui non poteva fare a meno. Poi invece è finito in sacrestia, come da indole. Aveva perfino l’unica rete tv di sinistra in Italia, Italia Uno,con lo straripante intelligentissimo “Drive In”, dove dava lavoro, visibilità e lustro all’intellighentsia, anche ai Pci, a cominciare dai vignettisti di partito, ElleKappa, Vauro, Disegni, Staino. Ma l’uomo era fondamentalmente democristiano, e non seppe resistere a Comunione e Liberazione quando i preti lo scoprirono.
Il macellaio Draghi
Che altro dirne? Qualcosa ha fatto, come portare la pensione minima a 500 euro. O levare la patrimoniale sulla casa di abitazione. Anche tenere i conti in ordine - seppure con lantipatico Tremonti. Ma soprattutto si nota per essere, benché molto milanese, più corretto di “Milano”, e vittima dei monopoli. Della giustizia, della banca, dell’informazione – eh sì: non è il “re” dei media, ne è la vittima. E di Draghi. Vittima lui, in questo caso, ma ben di più l’Italia: Berlusconi ha perso il posto a palazzo Chigi, l’Italia è stata svenata da Draghi, letteralmente, come il maiale appeso al gancio. Carlo Carraro, l’economista, rettore di Ca’ Foscari, l’università di Venezia, è uno di quelli che lo dice – a Vittorio Zincone, su “Sette” del 10 gennaio: “La politica di Berlusconi non piaceva a chi detiene il potere economico in Italia. Banche, assicurazioni. Soggetti che non sono stati sfavoriti dagli interventi della Bce, che Bce e Bankitalia, invece, dovrebbero monitorare meglio”.
Sarà. Il fatto è che il governo Berlusconi-Tremonti è stato silurato da Draghi. Di fretta, ancora prima di arrivare al vertice della Bce, Draghi indusse il presidente cessante Trichet a inviare una lettera congiunta di licenziamento a Berlusconi-Tremonti, e la rese pubblica. Una procedura unica, talmente grave da portare Draghi all’imputazione di lesa maestà, se ci fosse ancora una politica in Italia - nonché di avere favorito una speculazione facile e assassina sull’Italia. Ma Draghi è intoccabile, anche a una semplice critica, perché è l’uomo delle banche. Dei centri del potere mediatico, che ha locupletato a costi estremamente bassi di “moneta” Bce, tali che le banche possono comodamente non fare nulla, giusto comprarsi dei titoli di Stato e lucrare la differenza.
Più corretto è Berlusconi di quello che è lo standard morale di Milano: non ha derubato nessuno, non ha rovinato nessuno, e anzi ha creato molte carriere, non ha licenziato nessuno. Il contrasto su tutti questi fronti è lapalissiano col suo arcinemico Carlo De Benedetti, che invece è un pilastro della sinistra politica. Sopratutto, non ha fatto arrestare né condannare nessuno. Che non è un merito o un’opera buona, ma a Milano sì: si denunciano tutti anche non anonimamente, chi non ha ottenuto un appalto, una consulenza, una vendita, un acquisto, un merger o una fusion, subito crea trabocchetti. Un milanese, si potrebbe definire, sobrio. Non lo è, ma i milanesi non lo sono, lui fa eccezione.
Nella crisi, a destra
Primo Levi, alla fine sul suo tormentarsi sul “perché” dello sterminio, pochi mesi prima di darsi la morte, non trovava altra ragione che la “pericolosità” delle “posizioni carismatiche”. Il problema con Berlusconi in politica è che non è carismatico. È ingessato, goffo, monotono, prolisso. Non è un capopopolo - un giudice in toga, un Grillo barbuto, un Le Pen (anzi, è il contrario: di Le Pen si ascoltavano i comizi pagando il biglietto nell’estate del 1987, e gli stadi erano pieni. Molti peraltro l’hanno votato a malincuore, non per turarsi il naso, ma perché non hanno altro. Ci saranno anche i berlusconiani puri e duri, ma i milioni di voti li ha presi suo malgrado. Era un simulacro. Adesso che lo mandano al gabbio ogni poche settimane si vede: i suoi fan non si disperano, solo ne avevano bisogno - per quanto: “era”? la domenica delle Palme è previsto che “Milano” gli impedisca i comizi in tv, e i poveri elettori saranno ricostretti a rivotarlo. 
Di colpevole c’è solo Berlusconi, comunque, e questo è già un merito. René Girard, il filosofo del capro espiatorio, direbbe che può bastare: forse ora i giudici ci lasceranno un po di libertà. In ogni caso esce di scena martire di una popolare resistenza: può anzi vantare un Tribunale Speciale, allestito appositamente per lui, in fretta, a Ferragosto, in Cassazione. Dopo la prova generale, sempre in Cassazione, con l’esproprio proletario del Berlusconi ricco tycoon in favore del bisognoso De Benedetti – a cui l’esproprio peraltro non è bastato, ha subito dovuto licenziare un altro centinaio di giornalisti.
Visto seriamente, al di là delle sue buffonate, e della boria dei suoi nemici, tutta gente di paradiso, anche i più fegatosi, e dei giudici di Milano col puttanesimo: nella crisi è più facile che il popolo si affidi ai conservatori. A Berlusconi come a Bush jr., Angela Merkel, Sarkozy, Cameron, e incluso il laburista Blair. Cioè a coloro che, se non ne sono gli autori, stanno però dal lato degli agenti-attori-mestatori della crisi. Presupposti di conoscerne i meccanismi, e quindi di poterci forse porre rimedio. A una crisi che in Italia dura ormai da 22 anni.
È un paradosso, e anzi un’incongruenza. È una debolezza, ma perché i nemici della crisi non hanno idee né energie. In questi sette anni di crisi finanziaria aggravata, dal 2006, questa parte è la sinistra politica. Che recita il rosario e per questo si salva. Ma nella “subordinazione culturale”, che Renzi ha ben percepito. Si ascolti Landini in tv, così severo e inconcludente: è l’“agente segreto” di Berlusconi.
Il re del nulla, a sinistra
C’è un Berlusconi d’assalto, da campagna elettorale, da venditore di se stesso, e un Berlusconi di governo, inetto, inerte. Nei confronti delle cose da fare, e nei confronti dei suoi stessi uomini – funzionari, pupilli, allievi, salvati. Com’è possibile che questa nullità vinca sempre, o quasi, ogni elezione? Con tutte le procure addosso, le spie, i benpensanti, e i muckracker dei media? Dovendone celebrare coi vent’anni anche, in qualche modo, l’epicedio, bisogna ribadire di fronte a tanta virtuosa-vittoriosa nullità che essa è il frutto della nullità della sinistra. Che non poteva immaginare un avversario più comodo e debole, e ne ha fatto un monumento – perenne, a quanto si vede (conduce i sondaggi….). La sinistra del compromesso storico, che ha spazzato via ogni altra sinistra e il territorio presiede totalitaria, con sbirri, specie nei media, e manette.
I vent’anni si celebrano dominanti di un personaggio debole, un avversario inesistente, come il cavaliere di Calvino. Si dice: è il padrone dei media, ma non è vero. Nove decimi dei media, Rai compresa, sono contro di lui, e il suo decimo non lo sa o non lo vuole usare. Ha contro tutti i servizi, di ogni genere: spioni, giudici, cronisti giudiziari, carabinieri e finanza. Non ha nessuna forza, a parte la vendita della pubblicità. E non si sa difendere: lo dicono furbo, e lo sarà, ma quanto ingenuo. Lavitola, Ruby, le fidanzate, i tanti avvocati, la stessa moglie Veronica, lo stalliere siciliano, per uno che si sa sotto i riflettori e superintercettato, sono ingenuità colossali. Che sia durato vent’anni, che abbia vinto e perfino stravinto, è solo segno della pochezza della sinistra.
Berlusconi tede ad accreditare l’idea che questo è stato il suo ventennio. Ma è una delle tante idee che la sinistra gli accolla di cui lui poi si ammanta. Il liberalismo è una, e pronto se n’è fatta una bandiera, lui che è illiberale, in azienda e in politica – non una sola legge liberale ha promosso o realizzato. Il sentimento della giustizia che il diritto e i tribunali calpestano è un’altra – l’onnipotenza e la risolutività del Diritto sarebbe il cardine del pensiero liberale. La bandiera del merito. La politica come carisma. E la politica come comunicazione, Tutti “valori” che la sinistra ha imposto e impone, con la sua intellettualità monopolistica, nei tg, i tak-show, le “ospitate”, i giornali, gli opinionisti compunti, tutti così politicamente corretti. La sua specialità è di fare il verso, ma un po’ contropelo, scorretto solo un po’, a tanta sapienza.

Dappertutto e su tutto brandendo l’impulso, la pervasività, e il senso del limite dell’imprenditore. Questo è vero, del tanto che dice di sé: gli animal instincts che lo animano – peraltro tanto più giusti, egualitari, produttivi, insomma, ci siamo intesi, “populisti”. Lui, di suo, quello è: un imprenditore, anzi un venditore, dal naso specialmente fino. In un paese in cui la sinistra non fosse stata così sciocca, non ci sarebbe stato un ventennio berlusconiano.
Cache-sex
Un capitolo a parte meriterebbe Berlusconi perseguitato. Su questo non si può argomentare, tutto è segreto. Magari è colpevole. Ma non ha dossier (quindi non ha usato le polizie, in questo sì, ripete Craxi: da capo del governo non  si è costituito dossier), non ha fatto leggi speciali, non ha conculcato nessuno. Montanelli, quando se ne separò dopo vent’anni di intimità per poi attaccarlo furiosamente, tra i riconoscimenti di lealtà e generosità, gli rimproverò la mancanza di “doppiezza” e di “cinismo”. Mentre è stato ed è vittima di tutti i giudici e gli sbirri d’Italia, legali e non. È rimasto in piedi, e anche questo dà da pensare, sulle colpe dell’apparato repressivo: la giustizia fallisce quando è del potere.
Berlusconi è anche il cache-sex della Procura di Milano ormai dai tempi di Borrelli, quindi sono vent’anni, e del Tribunale di Milano, per coprire le sicure malefatte di altri. Inchieste mai fatte, sabotate, emasculate, anche  insabbiate, senza vergogna, di colpe certe, con ogni evidenza: Penati, Pirelli-Telecom, Moratti-Saras, Rizzoli-Corriere della sera, Sme. 
Tante cose si possono dirne, quante frittate non si sono rimestate su questa anomalia? Ma la cosa sicuramente vera per la futura storia politica - ammesso che ci sarà storia e si farà politica - è che Berlusconi l’ha fatto vincere l’Ulivo-partito Democratico. Il compromesso storico di Berlinguer, quello dei governicchi di Andreotti. Che ha perso tre elezioni su sei, due le ha vinte per pochissimi voti, molti governi si è fatti attribuire non eletti da presidenti della Repubblica condiscendenti, e quando ha governato non c’è riuscito per più di due anni, sempre dividendosi e litigando, su non si sa che cosa. Anche ora, in otto mesi si è già baloccato con tre governi, due mesi con Bersani, alla scrivania con due ignoti parlamentari, sei con Letta, e ora prevedibilmente con Renzi.

Lo scrittore rende al cinema, negli Usa

Si può fare un film sui turbamenti dello scrittore? Un impegno finanziario corposo seppure a basso costo, ricreando Parigi a Montréal, riducendo le pose a scene teatrali, e magari con prestazioni di favore degli interpreti celebri, a elevato cachet, Jeremy Irons, Bradley Cooper (“Limitless”, specialista in scrittori in crisi), Dennis Quaid: un impegno comunque milionario. Sulla scrittura e la vita, l’essere e il non essere, la parola e la cosa? Evidentemente sì, ma non in Europa. Anzi per un pubblico americano – in Europa il film si può solo vedere sulla pay-tv, dopo il canonico anno o due. Bisogna riscrivere la storia culturale.
Brian Klugman, The Words

Bamboccioni anni Trenta

Doppia riedizione, sull’onda della crisi: è il romanzo del tracollo – dei trabocchetti e dei tracolli - della finanza negli anni tra le due guerre. Non l’unico, anzi uno dei filoni più ispirati della scrittrice, e quello che in vita le assicurò più successo, a partire dal “David Golder” e “La preda”, incluse le stesse narrazioni romantiche e familiari. Per una vena balzacchiana, che anch’essa favorisce la ripresa. Qui risolta però in chiave oblomoviama, dell’inappetenza.
Il figlio del grande speculatore ha un figlio che non è niente e non vuole niente e una moglie che si accontenta del niente. Essendo lui stesso un niente: indeciso a tutto, insoddisfatto, incerto, rassegnato, un bar, due, tre bar la sera per non tornare a casa, il dovere con la moglie il sabato, la domenica un gita solitaria fuori porta e una prostituta. Che ogni tanto si chiede: “Insomma, perché sono così infelice?” – magari rispondendosi: “L’abbandono nell’infanzia…”.
Il senso etico soverchia qui la narratrice. Ma è vero che l’effetto della crisi è l’inerzia (i “bamboccioni”) prima che la miseria.   
Irène Némirovsky, Una pedina sulla scacchiera, Editori Internazionali Riuniti, pp. 169 € 14,50
Adelphi, pp. 174 € 18

domenica 19 gennaio 2014

La scomparsa del centro-sinistra

Ospite da Fazio, Rodotà misura la miseria della politica di oggi con un esempio, il 1970: “In un solo anno, si fecero leggi, il sistema sanitario nazionale, lo statuto dei lavoratori, il divorzio, il diritto di famiglia, etc., che rivoluzionarono l’Italia”. Ma, socialista all’epoca, non  menziona il centro-sinistra che quelle leggi volle e riuscì a far approvare. Leggi più socialiste che democristiane, ma non importa. Era il centro-sinistra classico, la collaborazione tra Psi e Dc.
La damnatio memoriae continua totale, anche dopo lo sfacelo successivo, quarant’anni di disfacimento all’insegna del compromesso storico. Che non voleva dire nulla, null’altro che l’annientamento della cultura riformista, a favore delle subculture, come si definivano, cattolica e comunista. E ha annientato la sinistra politica e ha corrotto la Dc – anche se ora questa trionfa, nei contenuti e nei metodi.
Una scomparsa totale, non casuale. Non solo i politici, quale, malgrado tutto, è ancora Rodotà, fanno finta di nulla. Nella pur voluminosa “Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi” di Ginsborg che ancora fa testo, e nelle altre, a opera di storici anglossassoni come Ginsborg o anche italiani, il centro-sinistra c’è e non c’è. Il compromesso storico invece c’è – dice Ginsborg – dai tempi di Badoglio. Che storia.  

Il mondo com'è (160)

astolfo

Fascismo – “Celebrando” i vent’anni della Seconda Repubblica, un ciclo, a differenza del fascismo, del tutto rovinoso anche se non sanguinoso, la capacità di fare viene in rilievo, il contenimento della corruzione, la capacità di convinzione. Questa soprattutto. Oggi meno che mai, ma non c’è mai stata in altra epoca, minore diffidenza verso il potere che verso il fascismo. Per i motivi e nei modi che De Felice ha argomentato ne “Gli anni del consenso”. Ma anche prima e anche dopo. E soprattutto fra gli intellettuali. Zangrandi ha documentato il grado di adesione attraverso i Littoriali. Che però, coinvolgendo i più giovani, si potevano rdurre a peccati d’inesperienza. L’attività dell’Accademia d’Italia, di cui si sono indagati solo alcuni rivoli, in chiave di anti-antifascismo (Corrado Alvaro, Gadda, Vittorini) mostra invece, anche negli anni di Federzoni, dal 1938, e quindi della sua caratterizzazione “con sostanziali e ostentati criteri fascisti” (Sergio Raffaelli, che le carte dell’Accademia ha studiato in connessione con le vicende di Carlo Emilio Gadda), e fino dentro la guerra, a tutto il 1942, un’adesione molto ampia e anche convinta. Si vede dalla lingua delle (poche) scritture emerse dagli archivi, che autori e artisti adottavano nei loro contatti con l’istituzione. Quasi tutte propiziate da - o mirate a – premi e contributi, cui ambiva anche chi non ne aveva bisogno, Montale per esempio o Cecchi. E tuttavia fasciste, innecessariamente.

Giustizia – Quella politica non solo aggiunge e non toglie alla corruzione, ma potrebbe esserne il fattore di perpetuazione. La giustizia politica diventa l’innesco della nuova corruzione - il patronaggio politico, sia pure sotto le spoglie semplici dell’appartenenza, il meccanismo della corruzione rendendo a questo punto universale, oltre che impervio alle forse di contrato. Ammesso che ce ne siano – la corruzione corrompe.

Islam – Non si può dire sia vittima dell’Europa, dell’Occidente, del colonialismo. La storia direbbe il contrario, ma è così: la storia è per lo più scontata, e contraria all’evidenza. Il colonialismo è morto da sessant’anni, dopo aver prosperato non senza connivenze.
I due mondi è vero che sono diversi, benché contigui e sempre conviventi. Si vede nel luogo della prossimità più intima e anzi della sovrapposizione, il Libano. Gli ospedali cristiani servono anche gli islamici poveri, mentre non è possibile – non avviene – l’inverso. Cristiane sono anche le case di accoglienza per le ripudiate povere – spesso con le loro figlie. Non c’è uno scontro di civiltà nel senso che non c’è una guerra, non la si vuole, non sarebbe giusta.

Parità – Nei settimanali femminili – ma più esatto sarebbe dirli di “moda”, di consumi costosi - ora la metà dei servizi di moda e della pubblicità è per i maschi.
  
Roma – È uso parlarne male, Per primi i romani, Moravia su tutti: “Come si fa a voler bene a Roma, città socialmente spregevole, culturalmente nulla, storicamente sopravvissuta a furia di retorica e di turismo” (“L’Espresso”, 28 maggio 1971: avesse visto il turismo oggi). Un commento molto romano. Moravia stesso è l’essenza della romanità, nella neghittosità, l’operosità, la rusticità, la socievolezza.
Roma è la città col più alto tasso di immigrazione, e di autodenigrazione. E questa è la caratteristica della piccola borghesia – del borghese cioè insoddisfatto di se stesso. Più di Palermo o Napoli. Mentre non ci si sdegna al Nord, a Firenze, a Torino, a Milano, dove pure la materia ci sarebbe: la borghesia vi è contenta di sé.
Roma è anche la città meglio amministrata in Italia, fra le grandi città. In tutti i settori: asili, scuola, sanità, viabilità, trasporto pubblico, nettezza urbana, inclusi  servizi privati. Ed è una città, probabilmente la sola al mondo, con vocazione plurima. Che tutte riesce ad assolvere dignitosamente – “alla romana” - se non a livelli di eccellenza, e comunque tutte tiene vive: religiosa, monumentale, turistica, commerciale, industriale, di ricerca e innovazione, politica, amministrativa. Si fa pendolarismo su Roma da tutto l’Abruzzo, da mezza Toscana, e da Napoli.

Ha abolito il tempo. Non quello meteorologico, che anzi è varabile, seppure prevalentemente sul bello, anche quando è brutto – e può essere fantasmagorico: barocco, colore dell’aria, della rosa, della malva, e perfino blu di Prussia. No, quello cronologico. Uno spostamento può prendere a Roma venti minuti oppure un’ora e venti. Senza una causa specifica, che a Roma sono molte (il papa, i cortei, le proteste, gli scioperi spontanei), ma possono non esserci. Succede eprché la cosa – il ritardo – non interessa a nessuno, utenti inclusi.

Seconda Repubblica Una storia di rovine. Vent’anni, un ciclo di storia lungo più o meno come il fascismo. Ma tutto rovinoso. La comparazione col fascismo naturalmente non è lecita, poiché non c’è il totalitarismo e non ci sono state le guerre. Ma l’economia è in rovina e la sperequazione sociale si è ampliata invece di ridursi. Soprattutto, è svanita la Funzione Pubblica. Non nella forma dell’utopia, della cancellazione dello Stato, o della violenza imposta sui cittadini, ma della sopraffazione diffusa. Non dichiarata e anzi camuffata, con largo uso della protesta, del diniego di fare, della riserva di potere. Di gruppo e anche individuale - si ricorre al Tar per un voto in pagella del figlio.
Una condizione che si presenta, in interminabile chiacchiericcio televisivo, come anarcoide, ma di cui i più sono vittime. Nelle cose che contano: il reddito, la distribuzione del reddito, i servizi (sanità, trasporti). E il voto: in nessuna esperienza della storia dell’Italia costituzionale, neanche col voto per censo, l’indicazione politica è mai stata così vanificata come in questi venti anni. A discrezione (arbitrio) della giustizia, e dei gruppi di potere, dentro e fuori dei partiti attraverso i media.

Trasparenza – È feticcio Usa, a fini pubblicitari. Uno slogan gratuito, di grande presa. Facebook se ne fa ora una divisa, centrale nella sua strategia di diventare uno dei maggiori hub pubblicitari, se non il maggiore. Ripete, senza ipocrisie, la famosa trasparenza invocata dal presidente Wilson negli affari internazionali alla fine della prima guerra mondiale, per mettere in difficoltà le diplomazie europee. Allora ebbe l’effetto di riportare gli Usa subito all’isolazionismo – una delle concause della deriva totalitaria dell’Europa nei due decenni successivi.

astolfo@antiit.eu

La felicità ritrovata nelle origini

Un apologo, della felicità passeggera e la speranza duratura. Un canto d’amore anche alla natura, alla sua natura, dell’autore, i luoghi dell’infanzia e l’adolescenza.
È più potente la scena della vicenda che vi si svolge: la vita dei ragazzi d’estate in un paese del crotonese, tra bagni al mare, passeggiate sui monti, la sera al pub, la notte alla disco, lunghe dormite e madri provvide. Tutti “liberati” – nel gergo della Seconda Repubblica si direbbe “normali”: la ragazza “germanese” come il ragazzo “locale”. In una storia contemporanea, anzi di cronaca: le cosche mafiose a Nord, a danno dei conterranei che al Nord sono riusciti a creare, lavorando duro, qualcosa.
È l’apologo del male che sempre attenta al bene. Reso però memorabile dalla lievità, e dalla novità dell’approccio (la normalità). Su questo filo conduttore esile una serie d’immagini restano durature: il rito del pane, così ricostituente, la cicala “paccia”, l’amicizia, l’inconsapevolezza giovanile.
È anche una storia dei buoni che vanno via, lasciando padroni i cattivi. Non è così, non è questa la divisione sociale. Anche se è vero che il Sud è soprattutto impoverito di umanità: di energie, idee, perseveranza. Abate, che è narratore  costante delle origini, qui si libera pure lui, con beneficio del lettore.. Recupera anche il dialetto, con parsimonia e in forme riconoscibili, per un possibile arricchimento lessicale. Recupera le origini – l’adolescenza, i luoghi, i rapporti umani – in chiave per una volta non folklorica: poiché non ci se ne può liberare, sembra dire, godiamocele (sembra poco, ma per molti è una violenza: il rifiuto – il rifiuto di sé – è invincibile)..
Carmine Abate, Il bacio del pane, Mondadori, pp. 175 € 12