Boschi, Madia, Guidi,
Mogherini,
coi noti Lupi,
Alfano e Lorenzin,
è Floris al
governo o Renzi a Ballarò?
sabato 22 febbraio 2014
La prigionia fa bene all’anima
“Stile, ricerca, sintassi… che buffe parole
quando tutto proclama che «la parola è oggi al cannone», si dice il poeta
soldato prigioniero di guerra. E invece è, nella realtà, il contrario: il poeta
se ne meraviglia, ma gli istinti vitali sovrastano la cattività.
La raccolta comprende dieci
frammenti di memoria, scritti quindici-venti anni dopo il 1944, che il soldato
Sereni passò in prigionia in Algeria. Forse nel dicembre 1956, sicuramente
prima del 1962, quando confluirono in “Immediati dintorni”, la raccolta di
prose che Giacomo Debenedetti aveva convinto Sereni a pubblicare, per le sue
“Silerchie” del Saggiatore. Immagini sorprendenti, per capacità di adattamento,
euforie incontrollabili, resurrezioni, che Dante Isella ha riassemblato in memoriam per questa edizioncina
numerata di Via del Vento a Natale del 2000. Arricchendole del frammento più
lungo, “Il male del reticolato”, redatto a caldo nel 1945, prodromo alle
liriche del “Diario d’Algeria”, 1947. Nel quale il poeta-ufficiale,
impersonandosi nell’ufficiale poeta morto al campo, dopo aver riempito il
giornale murale dei prigionieri delle sue liriche, si chiede appunto cosa fa la
poesia. È un’epoca (la guerra) e una condizione (la prigionia) di fatti che
s’impongono alle immagini, di “quattro o cinque sentimenti elementari”, da
sussistenza, da sopravvivenza. E tuttavia miracolosi.
Sono prose che al lettore
parlano più e meglio delle prime impressioni confidate ai versi del “Diario”. Del
poeta che infine non è più isolato. Nel campo è anzi richiesto e in qualche
modo venerato come l’artista, o il filosofo – “qui tutti leggono, scrivono,
prendono appunti”. La prigionia come un ritorno al paradiso terrestre, di
operosa inattività e cieca fede nel mondo. Una singolare sostituzione tra prosa
e poesia: la prigionia fa bene all’anima, e viene meglio in prosa.
Vittorio Sereni, Taccuino d’Algeria (1944)
venerdì 21 febbraio 2014
Il governo del presidente, Andreotti
Sembra, dopo tanto novismo, un
vecchio copione. Con i giovani al posto dei vecchi, ma altrettanto inutili
idioti. E allo stesso modo farsesco: il Renzi 1 sembra uno dei tanti governi
che Andreotti imponeva a Berlinguer nella stagione del compromesso storico, 1976-1979.
Andreotti faceva i governi con vegliardi
senza nome. Renzi ci ha messo delle belle donne, ma senza altri vezzi. Anche
questo è il governo - Renzi intende come il formidabile predecessore - del presidente del
consiglio.
Ma singolarmente coincidente è pure la premonizione. Che questo, come quelli di Andreotti, sia un governo “di
consunzione”. Anche allora c’era una crisi formidabile da affrontare: l’Italia
si dovette fare imprestare i dollari dalla Germania per pagare il petrolio. E
in più c’era il terrorismo, molto aggressivo. Ma Andreotti impose lo stesso all’Italia
dei governi per modo di dire.
Resta un dubbio. Andreotti doveva
sconfiggere il suo fedele sostenitore Berlinguer, e alla fine della legislatura
– improvvidamente accorciata dal segretario comunista con la farsa Leone – ci riuscì:
il Pci perse per la prima volta un’elezione, meno 4 per cento nel 1979, l’inizio
della frana, dieci anni prima del Muro. Renzi non vorrà anticipare la fine a breve? Di chi?Ombre - 209
Napolitano esce, dopo tre ore di
colloquio con Renzi, e ai giornalisti per prima cosa spiega: “La formazione del
governo e la scelta dei ministri compete, secondo la Costituzione, al presidente
del consiglio incaricato”. Non è esattamente così: L’art. 92 è stringato, “Il Presidente
della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta
di questo, i ministri”, e la prassi non è conforme. Ma Napolitano condivide
lo sconcerto di tutti.
Al festival di Fazio serioso l’unico in
grado di accendere il pubblico è stato il “napoletano” Arbore. Che ha fatto il “napoletano”
eccessivo, del peggior colore: una provocazione. A cui i padani paganti hanno
reagito entusiasti, in un delirio d’allegria. Si capisce la fine del leghismo:
è triste e malinconico, rancoroso.
Grillo al tavolo con Renzi si dice teatro.
Ma allora cattivo teatro: non è dramma, non è commedia. A Grillo si ha solo
voglia di mandare un vaffa e spegnere. Ma non alla fine, già subito indispone: come
si butta sul tavolo, come strilla. I suoi come lo sopportano?
Si capisce anche, dai capigruppo convocati
al tavolo Renzi-Grillo, che i “pentastellati” siano devoti al capo, devotissimi:
sono fortunati al Gratta e Vinci. Ma a un Gratta e Vinci pilotato? E dove sono
gli ex voto?
In sei anni, dal 2008 al 2013, giudizio “negativo”
per 31 giudici, “non positivo” per altri 114. Sono molti? A fronte dei 9-10
milioni di cause arretrate, non sono niente.
Il giudizio negativo implica il salto
della promozione quadriennale di carriera, che tutti i giudici hanno. Quello
non positivo l’obbligo di un corso di riqualificazione.
Il giudizio “negativo” scatta nella
carriera dei giudici per carenze in uno dei tre “cardini” della professione: indipendenza,
imparzialità, equilibrio. O in due dei “parametri” produttivi: capacità,
laboriosità, diligenza, impegno. Il giudizio “non positivo” per carenze in uno
dei “parametri”.
Tutti i “negativo” sono dovuti a insufficienze
su due di tre “parametri”: laboriosità, diligenza, impegno. Tutti i giudici
italiani sono indipendenti, imparziali ed equilibrati, e sono anche capaci.
Raffaele Lombardo, l’ex presidente della
Regione Sicilia, non è il primo che da destra si è messo a sinistra. Nel 2006 fece
perdere le elezioni a Berlusconi con i suoi 60 mila voti. Viene ora condannato
per le sue colpe di destra o di sinistra? Si dice: la giustizia è equanime. Ma
la giustizia sa che non è vero.
Lombardo viene condannato a Catania da
solo. Viene condannato per atti di governo alla Regione Sicilia, dove governava
con alcuni altri partiti - il suo era il più piccolo, il più grande il Pd. Ma
lui solo è colpevole. Lui e suo fratello.
“Se
si deve ricorrere al proibizionismo”, argomenta su “la Repubblica” il
professore Veronesi a proposito della cannabis, “significa che abbiamo fallito
la nostra educazione educativa”. E il
furto allora perché proibirlo, o l’assassinio? Bisogna insegnare ai professori
anche la logica.
Il Pd vince le elezioni regionali in
Sardegna, ma perde 82.403 voti rispetto alle politiche dodici mesi fa, il 35,4
per cento. Berlusconi, sconfitto alle regionali, ne perde 62.163, il 33 per
cento.
Non è la sola “verità non rilevata”
delle elezioni in Sardegna. Berlusconi perde perché uno dei suoi “delfini”, Pili,
si è candidato in proprio. Non è stato eletto ma ha fatto perdere a Berlusconi
quel 4-5 per cento necessario alla sconfitta. La vendetta come strategia?
Nel dirottamento dell’aereo delle
Ethiopian Airlines si scopre un altro nazionalismo: nelle ore non d’ufficio la
Svizzera delega la difesa aerea alla Francia.
Il giallo esoterico di Dante
Guénon ha
ragione, Dante non può che essere stato un “fedele d’amore”: ogni storia esoterica
è inoppugnabile. Guénon, che lo sa, procede con certezze. Come Sherlock Holmes,
come Poirot, accumulando schegge di verità, secondo lo schema del giallo
indiziario. Avvincente, vertiginoso, in poche pagine trasporta dentro la
gnosi, la cabala, i misteri, lo stesso occultismo che non apprezza, a ogni
tappa avvincente e in certo modo convincente. Ma eliminando quasi tutto Dante.
Come in
ogni storia segreta, le pezze d’appoggio non mancano. Intanto, Dante stesso lo
dice: “Mirate la dottrina che s’asconde\ sotto il velame delli versi strani”.
Poi, non c’è che da scegliere. “È
singolare che le tre parti del poema terminano tutte con la parola stelle” - in effetti lo è. E la
numerologia? La divisione ternaria, il 7, il 9 di Beatrice, le gerarchie
celesti, i cieli, i cerchi infernali, ma anche il 22 (“il numero delle lettere
dell’alfabeto ebraico” – cabala?), il 515 (DUX – non un po’ tirato?) e il 666,
il “numero della bestia” dell’Apocalisse. Tutto è esoterico per l’esoterismo.
Guénon propende per il Dante templare. Perché, fra tutti, san Bernardo? Perché “stabilì le regole dell’Ordine del Tempio”. Dante, come i Templari, era per l’impero. Ma dovette rifare l’“Inferno”, secondo Guénon, per tenere conto degli “avvenimenti che accaddero tra il 1300 e il 1314, vale a dire la distruzione dell’Ordine del Tempio”, da parte del re Filippo il Bello e del papa Clemente, che muoiono nel 1314 nel mentre che si svolge “il supplizio dei Templari” da loro ordinato. E non è tutto. Il Sacro Impero ha un significato simbolico: “Ancora oggi, nella Massoneria scozzese, i membri dei supremi consigli sono qualificati dignitari del Sacro Impero”. E la Fede Santa del tempo di Dante non presenta “analogie con ciò che più tardi fu la «Fraternita della Rosa-Croce»”? Eccetera.
Guénon propende per il Dante templare. Perché, fra tutti, san Bernardo? Perché “stabilì le regole dell’Ordine del Tempio”. Dante, come i Templari, era per l’impero. Ma dovette rifare l’“Inferno”, secondo Guénon, per tenere conto degli “avvenimenti che accaddero tra il 1300 e il 1314, vale a dire la distruzione dell’Ordine del Tempio”, da parte del re Filippo il Bello e del papa Clemente, che muoiono nel 1314 nel mentre che si svolge “il supplizio dei Templari” da loro ordinato. E non è tutto. Il Sacro Impero ha un significato simbolico: “Ancora oggi, nella Massoneria scozzese, i membri dei supremi consigli sono qualificati dignitari del Sacro Impero”. E la Fede Santa del tempo di Dante non presenta “analogie con ciò che più tardi fu la «Fraternita della Rosa-Croce»”? Eccetera.
Dopodiché c’è
solo da mettere qualche argine, da giocarsi la partita con altri esoteristi.
Qui con Eugène Arnoux, che il ghibellino Dante voleva repubblicano e
socialista, e un càtaro. Insomma un eretico, albigese: la sua “Clef de la
Comédie anti-catholique de Dante Alighieri”, 1856, ripubblicato non tradotto da
Arktos a Carmagnola nel 1981, lo qualifica di “pastore della chiesa albigese
nella città di Firenze, affiliato al’Ordine del Tempio”. O addirittura un pagano
– non senza argomenti naturalmente (in un libro, “Dante hérétique,
révolutionnaire et socialiste”, che non si è tradotto e non si è pubblicato in Italia). E con Eliphas Levi, che
nella sua “Storia della magia” fa largo spazio a Dante iniziato, templare,
cabalista, occultista. Quanto al simbolismo, Guénon spiega che a Dante basta e
avanza quello della Passione. Con la discesa del Cristo Morto agli Inferi, la
Resurrezione, l’Ascensione (“è precisamente il lunedì santo che comincia il
racconto di Dante”, che culminerà nella Pasqua di Resurrezione). E che le
dottrine esoteriche germinarono, quasi tutte, sulla “dissoluzione dell’Ordine
del Tempio”.
Formidabilmente
concentrata, in polemica col divagazionismo del genere, la ricostruzione di
Guénon è però limitata, limitatissima: al didentro, al testo. Come se Dante
non avesse vissuto e operato fuori del testo, uno dei tanti protagonisti di un
contesto complesso in mutamento rapido. Il giallo indiziario è diverso del
paradigma indiziario di Ginzburg, la collocazione di ogni pezzo nel puzzle. È anzi l’opposto, l’isolamento di alcuni
indizi, quelli che portano alla conclusione. Grazie a un uso accorto (emotivo,
incalzante) dell’arte retorica – della presentazione. Non a caso Umberto Eco
anagrammerà i fedeli d’amore venticinque anni fa, con l’ausilio di Stefano
Bartezzaghi, in “L’idea deforme”, l’antologia delle letture esoteriche di
Dante.
René
Guénon, L’esoterismo di Dante
giovedì 20 febbraio 2014
Fisco, appalti, abusi (45)
Per assumere un apprendista, un
artigiano deve fare dodici pratiche diverse.
Per essere in regola, un artigiano
dovrebbe fare una pratica amministrativa ogni tre giorni lavorativi.
La RcAuto aumenta dell’inflazione, dice l’Ania, l’associazione
degli assicuratori. Mentre è aumentata dell’8 per cento: una classe di merito che passa dal CU 2 al CU
1 ha la Rca aumentata, prima delle tasse, da 560 a 603 euro – per una
cilindrata 1.400 benzina.
Il governo dice la Rc Auto
immutata. Mentre ha aumentato le tasse dal 12 al16 per cento
Ogni romano
(ogni residente a Roma) contribuisce all’Atac, l’azienda comunale trasporti,
360 euro l’anno. Per un servizio inesistente – 1.080 euro l’anno per un nucleo
familiare di tre.
E sempre è vero quello che impone
la Bossi-Fini: che per avere un permesso di soggiorno bisogna avere un lavoro,
e per avere un lavoro bisogna avere un permesso di soggiorno.
E non un paradosso una tantum: ogni
anno. Ogni anno molte famiglie devono passare alcuni mesi fuori legge.
Vita inutile di spia, o l’Inghilterra vanesia
“Gli egoisti non capiscono l’ironia”, scriveva qui Banville prima
di farsi “Benjamin Black”, e concorrere al Nobel coi gialli così firmati, unico
prosatore, così assicura nell’autoritratto su wikipedia, nella linea
Joyce-Nabokov - o in quella James-Nabokov (o meglio ancora in quella
Joyce-Beckett, tutta irlandese). Avendo rinunciato al genere trilogie con cui
s’era fatto un nome. Grande narratore, bisogna dire, poiché avvince sul nulla.
Sulla vita – bugiarda – di una spia per posa, sir Anthony Blunt, con gli
amichetti di Oxford e Cambridge tutti spie gratuite di Stalin, nelle pause
dagli orinatoi pubblici, nell’“aria coitale”, sotto cieli “color glande”. Ma non più di tanto, non fa qui il romanzo “straordinario” di Citati che ha coinvolto alla lettura, “forse il più bel romanzo europeo degli ultimi cinquant’anni”.
Anzi: un romanzo noioso, se uno non ha il prurito dell’amore gaio. Anche
sbagliato, storicamente: “Le questioni più serie ci divertivano”, Banville fa
dire al suo personaggio, che espone mediocre come tutti, benché lo accrediti
come l’innovatore, anzi il creatore, dell’iconologia: “Le questioni più serie
ci divertivano”. Sir Anthony Blunt era persona e personaggio ben più poliforme
e diversamente abbordabile di questa narrazione, che lo appiattisce a due
dimensioni, la foia e il tradimento. Era omosessuale dichiarato, quando non si
poteva, e gli inglesi non perdonano, il moralismo gli piace troppo. E forse non
era nemmeno spia. Può aver preferito in guerra Lenin a Hitler o Mussolini, ma
era “un monarchico sincero” – è l’ovvia constatazione di chi lo frequentava,
come Alvar Gozáles-Palacios. E uno studioso, unicamente interessato ai suoi
studi – che in Sicilia e a Roma è rispettabile e rispettato.
Una storia molto inglese, come tutte le spy stories. A meno che non sia
una irlandese vindicatio, contro l’inglese
puzza al naso. È una rappresentazione massacrante della vanità inglese, col
Querrell-Graham Greene e altri personaggi a chiave compresi. Ma allora tanto più sarebbe vento utile rappresentare il caso di spionaggio così come si è svolto, come una campagna isterica contro quella manica di buggeratori cantabrigensi e oxoniensi, la sola prova dello spionaggio essendo stata infine la confessione di Blunt. Che disprezzava i compatrioti, la loro patriottica stampa
Resta che le spie, fuori dei thriller,
sono deludenti. Banville-Benjamin Black deve saperlo. “Ho sperperato la mia
vita raccogliendo informazioni inutili?”, si chiede l’eroe all’inizio della
storia. Eroe per modo di dire, giacché le spie di Cambridge
erano note alle spie della regina. E intoccabili per sentimento di casta
(furono ostracizzate su insistenza americana), in uno spionaggio inteso come
gioco di abilità. Sarebbe stato questo il vero romanzo, per un irlandese poi,
del dilettantismo di cui Londra si fa bandiera, o della forza dello snobismo.mercoledì 19 febbraio 2014
La raccolta indifferenziata
Passa
un rom corpulento, scuro, sudicio, con un carrello della spesa, apre col pedale
i cassonetti, li blocca aperti con un’asticella, che forse porta lungo il
braccio, e rovista rapido nella spazzatura. Fa tutto con una mano: la stessa
che porta il carrellino apre il cassonetto, lo blocca con l’asticella, rovista.
L’uno dopo l’altro, i cassonetti della indifferenziata.
Passa ogni giorno alla stessa ora, più o meno, venendo dal lato abisso della strada, seguirà un piano dettagliato di recupero dei rifiuti. Va eretto e parla al cellulare, che tiene all’orecchio con l’altra mano. Anche l’abbigliamento, a un secondo sguardo, non è sudicio, è solo trasandato.
Passa ogni giorno alla stessa ora, più o meno, venendo dal lato abisso della strada, seguirà un piano dettagliato di recupero dei rifiuti. Va eretto e parla al cellulare, che tiene all’orecchio con l’altra mano. Anche l’abbigliamento, a un secondo sguardo, non è sudicio, è solo trasandato.
Recessione – 15
Tutto quello che dovreste sapere ma non si dice:
Nel 2013, con tanto parlare di rilancio, e di rilancio europeo, è stato perduto in Italia mezzo milione di posti di lavoro – almeno mezzo milione. Malgrado un ricorso record alla cassa integrazione. Il dato più negativo dall’inizio della crisi nel 2007.
Il prodotto interno lordo dell’Italia si è ridotto di 9 punti percentuali nei cinque anni a fine 2013.
Il reddito pro capite si è ridotto nei cinque anni dell’11,1 per cento.
Nei cinque anni sono stati chiusi 2,2 milioni di posti di lavoro, ne sono stati aperti 800 mila nuovi. Con un saldo negativo di 1,3 milioni di posti di lavoro.
Nel Lazio, nei primi quarantacinque giorni del 2014, hanno chiuso 92 aziende in media al giorno.
A dicembre le sofferenze bancarie hanno superato i 150 miliardi (a 156 miliardi), secondo la Banca d’Italia. Sono i crediti non rimborsati alla scadenze. Sono pochi, sono molti? Sono il 10 per cento del pil, sono il doppio del 2010, sono aumentati nel 2013 del 25 per cento.
Nel 2013, con tanto parlare di rilancio, e di rilancio europeo, è stato perduto in Italia mezzo milione di posti di lavoro – almeno mezzo milione. Malgrado un ricorso record alla cassa integrazione. Il dato più negativo dall’inizio della crisi nel 2007.
Il prodotto interno lordo dell’Italia si è ridotto di 9 punti percentuali nei cinque anni a fine 2013.
Il reddito pro capite si è ridotto nei cinque anni dell’11,1 per cento.
Nei cinque anni sono stati chiusi 2,2 milioni di posti di lavoro, ne sono stati aperti 800 mila nuovi. Con un saldo negativo di 1,3 milioni di posti di lavoro.
Nel Lazio, nei primi quarantacinque giorni del 2014, hanno chiuso 92 aziende in media al giorno.
A dicembre le sofferenze bancarie hanno superato i 150 miliardi (a 156 miliardi), secondo la Banca d’Italia. Sono i crediti non rimborsati alla scadenze. Sono pochi, sono molti? Sono il 10 per cento del pil, sono il doppio del 2010, sono aumentati nel 2013 del 25 per cento.
Un terzo delle famiglie italiane
è al di sotto o sulla linea della povertà - “non arriva alla fine del mese”.
Quel caso Sme è quasi berlusconiano
“La vera
storia del caso Sme”, sottotitolo del libro, non è il processo Sme, che non si è
mai celebrato. Per “processo Sme” la Procura di Milano ha contrabbandato le
accuse di Stefania Ariosto, il teste Omega della Guardia di finanza, contro
Berlusconi. Per non fare il vero processo Sme, pur sapendo che più reati erano stati consumati nell’operazione poi
fallita. Con l’unico esito di questo libro: 450 pagine fitte, a distanza di
soli dieci anni, di nulla. Anzi, curiosamente berlusconiane, a volerle prendere
sul serio.
Gomez e Travaglio
propongono un Berlusconi Bin Laden e Saddam Hussein. Ma con l’aria di divertirsi
– forse non da goliardi. In copertina è Berlusconi, in “una rara immagine degli
anni Settanta”, con baffi e basettoni da mafioso, che è invece un falso, e già
depone male. Ma non è questa la cosa curiosa, la Procura di Milano si sa come
lavora. La cosa curiosa è che Gomez e Travaglio sono impuniti anche per Berlusconi.
Qui lo accusano di tutto, ma Berlusconi non ha reagito: chi si somiglia si
piglia?
Leggendolo,
quasi a ogni pagina il libro è a doppio taglio. Alla seconda si è autorizzati a
pensare che l’intercettazione al bar Tombini di Roma ai primi del 1996 fu disposta
da Boccassini contro la giudice Iannini e il suo capo Squillante perché due
anni prima avevano arrestato De Benedetti per corruzione alle Poste – corruzione
che c’era stata. Alla terza il giudice Greco, che dopo due estati di lavoro
asfissiante è in vacanza in Sardegna a metà luglio del 1995, torna a Milano per
verbalizzare una teste che non sa chi è e cosa vuole ma la Guardia di Finanza
gli garantisce che ha rivelazioni su Berlusconi (la teste per un paio di
settimane non parla, ma Greco resta a Milano in attesa paziente). Alla pagina
terza, o quarta, le confessioni ardue dell’agente Omega si evincono costruite
sulle foto di un viaggio di Craxi negli Usa nel 1988. E Omega? “Eccentrica ed
emotiva, coraggiosa ma fragile, con un eloquio tra l’immaginifico e l’onirico”.
Trascurando quello che non si può tacere, la ludopatia e i debiti. Tacendo il
suo poi conclamato vezzo di contrattare ogni “rivelazione”. Col dubbio se sia
una contessa, se abbia dei figli e dove, se ha avuto una vita avventurosa in
Africa – l’ha avuta: ma perché privare la storia di tanti particolari piccanti?
Alla quinta
o sesta pagina l’agente Omega va poi in vacanza col fidanzato che ha l’ha appena
usata per denunciare i suoi nemici – così dice lei a Greco. Va scortata da
“diversi uomini, baschi verdi della Guardia di finanza che la seguono anche per
mare”. Ufficialmente, dice la Guardia di finanza, per proteggerla dalle minacce degli usurai, mentre
Gomez e Travaglio dicono che la minaccia era di Berlusconi. Ma uno storico che
dovesse usare il corposo libro non avrebbe dubbi su cosa gli autori intendono. La
Guardia di finanza non ha perseguito gli usurai che minacciavano la teste. La stessa
prosa è confidenziale - “per la bisogna”, etc.
Il processo
parte in tromba quando a Greco subentra Ilda Boccassini. E si concluderà con
una serie di assoluzioni per Berlusconi, tutte a Milano – successive al libro
(ma è un male: Gomez e Travaglio non se ne sarebbero avvantaggiati?). E con una
serie di condanne, sempre a Milano, per i complici di Berlusconi, che però sono
giudici e avvocati romani – sentenze poi cassate per difetto di giurisdizione.
Tutto congiura alla congiura.
Peter
Gomez-Marco Travaglio, Lo chiamavano
impunità, remainders, pp. 444 € 4,95
martedì 18 febbraio 2014
Una sana economia sarebbe Downton Abbey
Tornare a un’economia Downton Abbey dovrebbe essere imperativo, pena il fallimento. A quando qualche figlio e nipote cominciò a lavorare, e i tanti servi si aumentarono le paghe e le protezioni sociali.
Aumentarsi le paghe oggi non è possibile, in concorrenza coi cinesi e gli indiani, e anzi bisogna spogliarsi anche degli aumenti di produttività (lavorare più e meglio e prendere meno), per non “andare fuori mercato”. Ma, operando sul lordo, e cioè sulle tasse e i contributi, bisogna ricostituire e accrescere il netto, per ridare slancio e carburante alla macchina – ai consumi, alla produzione e al risparmio.
Larry Summers argomentava ieri sul “Financial Times” che quella di oggi è l’economia Downton Abbey, e che sarebbe meglio smetterla. Coi profitti crescenti cioè, e col reddito da lavoro decrescente. “Una generazione fa si sarebbe potuto asserire che il tasso di crescita dell’economia era il miglior fattore di crescita della classe media e di progresso nella riduzione della povertà. Questo non è più plausibile”, inizia affermando l’ex ministro del Tesoro Usa, ex presidente di Harvard: “Una fetta crescente della produzione va ai profitti. I salari reali sono stagnanti. Il reddito delle famiglie non è cresciuto come la produttività”.
Larry Summers argomentava ieri sul “Financial Times” che quella di oggi è l’economia Downton Abbey, e che sarebbe meglio smetterla. Coi profitti crescenti cioè, e col reddito da lavoro decrescente. “Una generazione fa si sarebbe potuto asserire che il tasso di crescita dell’economia era il miglior fattore di crescita della classe media e di progresso nella riduzione della povertà. Questo non è più plausibile”, inizia affermando l’ex ministro del Tesoro Usa, ex presidente di Harvard: “Una fetta crescente della produzione va ai profitti. I salari reali sono stagnanti. Il reddito delle famiglie non è cresciuto come la produttività”.
La critica è giusta – ognuno vede il dato di fatto - ma non coglie lo snodo: la sterilizzazione accentuata del meccanismo dell’economia (riproduzione, accumulazione), si ha oggi all’insegna della democrazia. Della libertà, il libero mercato, la globalizzazione. Mentre l’aristocrazia Downton Abbey era realistica: si riconosceva “fuori mercato”, economico, sociale, politico, e cercava di rimediare. Oggi si usano le ragioni della globalizzazione (immettere l’ex Terzo mondo nella produzione della ricchezza) per spegnere il motore. Per poter competere con i bassi salari delle nuove economie, si dice. Ed è vero. Ma con l’effetto di deprimere la distribuzione del reddito, i consumi, la produzione, la ricostituzione del capitale. I profitti sono salvi – e con essi l’opinione: sono i profitti che fanno l’informazione. Ma l’economia no – e quindi in futuro anche i profitti, quelli non abbastanza internazionalizzati.
Non è che non ci sia una via d’uscita. Una via d’uscita c’è sempre, se la trovarono a Downton Abbey quelli che non avevano nemmeno l’idea di cosa fosse lavorare. Ma bisogna essere liberi mentalmente, “aristocratici”. Non farsi abbindolare dai simulacri democratici, i politicanti, i vetero sindacalisti, i gazzettieri delle banche d’affari. Bisogna ricostituire il valore reale (potere d’acquisto) del salario e delle pensioni, il reddito diffuso. Attraverso la riduzione del prelievo fiscale e parafiscale.
Il suicidio non esiste
Autore della famosa
negazione logica del suicidio (in un appunto di diario del 1946, spiega Valentina
Fortichiari: “Nessuno si è mai tolto volontariamente la
vita. Il suicidio è una condanna a morte, della cui esecuzione il giudice
incarica il condannato”), Morselli si era esercitato sul fatto nel 1946, in un
articolo per “Il Tempo”, edizione di Milano, e nel 1956 in un “Capitolo breve
sul suicidio”, i due testi qui riuniti dieci anni fa - esercitato teoricamente,
prima di provarlo di fatto, nel 1973.
Il
suicidio non esiste, è la conclusione. Illogica, ma ben argomentata. Non si può
dire suicidio per infermità mentale, per infermità terminale, o comunque per
evitare una fine dolorosa, per salvare vite umane, per un punto d’onore, militare
o marittimo, per la perdita della libertà, della patria, di una persona amata,
della prosperità, anche quando si danneggiassero con esso altre persone, figli,
soci, etc., o per depressione, sia pure superficiale. Morselli sa che la vita è
un dono e un dovere, ma non trova un motivo per condannare il suicidio: “Si
dovrebbe dedurne, e non sarebbe se non apparentemente un paradosso, che non ci
sono suicidi. Il suicidio non esiste”. Senza peccare di apologia: “Non si
esalta una cosa, se si arriva ad affermare che non esiste”.
Notevole
prova dialettica. Specie il breve saggio, successivo alla constatazione del
proprio fallimento come scrittore, ma prodromo a una serie furiosa di romanzi –
seppure pieni di suicidi: “Un dramma borghese”, “Il Comunista”, “Contro-passato
prossimo”, “Dissiaptio H.H.”. Senza possibilità d’ironia: “Nessuno contraddice
al supremo istinto della conservazione, se non vi sia indotto, in ultima
analisi, dallo stesso istinto, il quale si ribella a una condizione di vita che
lo nega, ossia a una sofferenza non sopportabile”.
Nel
primo appunto sul tema, rintracciato da Valentina Fortichiari nel diario del 1940,
quando Morselli aveva 28 anni, la conclusione era opposta: “Abbiamo ragione se
diciamo che il suicida è un ribelle ma sbagliamo quando , condannandolo, ci
appelliamo a Dio. Perché non già Dio, ma il nostro istinto parla in noi, che il suicida ha offeso. L’istinto primordiale
della vita”. Scriveva bene, Morselli, prima della guerra. Ma dopo ebbe il torto
di non essere “in linea” – una linea ferreamente custodita da Calvino, il
migliore di tutti. E fu ridotto a contravvenire all’“istinto primordiale” – un altro
modo, in effetti, di “suicidio” non suicidio.
Guido Morselli, Il suicidio, Via del Vento, pp.29 € 4
lunedì 17 febbraio 2014
Problemi di base - 169
spock
Si ascende fino a un certo punto, si discende
senza limiti: com’è possibile?
Con la foglia di fico Adamo ci acquista o ci
perde? Da che si protegge?
E Eva?
In che disegno della creazione sta (stava) il
verme solitario? E la zanzara, naturalmente.
La libertà fu salvata a Maratona o a Salamina?
È importante per la storia
Le sorti della guerra si decisero a Stalingrado
o a Alamein? È importante per la geografia.
Perché in Sardegna non ci sono le mafie? Lo smercio di droga, la
coltivazione, il pizzo, l’usura?
spock@antiit.eu
L’unanime silenzio su Renzi
Il silenzio è
assordante attorno alla crisi. Il consenso è unanime attorno a Renzi. Una
procedura atipica, e anche incostituzionale (dicono di no, ma lo è), non solleva
un ciglio. Mentre un rivoluzionario trova tutti proni. Tutti quelli che
contano, nei media e nel poteri. C’è di che avere paura.Nemmeno il
rifiuto della politica in Sardegna, il terzo in pochi mesi, smuove la bonaccia d’ordinanza.
Renzi non si sa che cosa vuole, l’ha voluto con metodi da golpista, e tutti
tacciono. . A sinistra, al centro, e a destra. Tacciono i comici di regime.
Forse solo per non sapere ancora da che parte stare. Tacciono gli ultimi
liberali. Che però sono in cattività, li tengono in gabbia per esibirli. Ma
tacciono anche i (suoi) compagni. E i vestali dell’ortodossia? È Renzi l’uomo
dell’ortodossia? Quale?Tutto si
riconnette se si ricorda che Renzi fu “lanciato” da un’intervistona con “Panorama”
nel 2004, settimanale di Berlusconi, diretto da Carlo Rossella. Dice: ma Berlusconi
non fa parte dei poteri. Ora, dopo le intemperanze con Ruby.
Amico di casa e madre della lingua (è il dialetto)
“Il dialetto è la sorgente misteriosa di ogni lingua
evoluta. Da esso affluisce a noi tutto ciò che lo spirito della lingua
custodisce in sé”. Un’edizione feticcio. Di ottima carta, grafica e legatura,
col testo in tedesco accanto alla traduzione piana di Francesco Gagliardi, che riproduce “l’aspetto
grafico e redazionale della edizione originale” curata da Günther Neske nel 1958.
“Che cosa custodisce lo spirito di un’autentica lingua?”, Heidegger continua
con piglio per una volta semplice, socratico, l’autore e l’argomento sentendo
“suoi”:“Custodisce in sé i riferimenti, celati ma fondamentali, a Dio, al
mondo, agli uomini, alle loro opere e al loro modo di agire”. Tutto “rivive”
(meglio: sopravvive) nella lingua. “Ma si estingue anche con essa, non appena
una lingua deve rinunciare all’afflusso da quella sorgente che è il dialetto”.
Il dialetto non è residuale e non è amorfo. Non è
folklore. Hebel il “Tesoretto” con le “Poesie alemanne”, che ne fanno
il nume tutelare della Foresta Nera e della Svevia, ma sono amate e fatte
proprie da tutta la Germania, tema di molta filosofia, Benjamin e Ernst Bloch tra i tanti oltre Heidegger, introduce con propositi di “poesia nobile”. A ragione,
argomenta Heidegger. Con Hegel, altro svevo, e il suo triplice senso di aufheben: si dice aufheben, conservare, anche per sollevare e trasfigurare.
Attraverso il dialetto, il poeta Hebel può “trasformare tutto nel mite
splendore della parola quietamente risonante”.,
Heidegger non si esime dal gergo - le agudezas sono la sua droga - ma vuole qui
confondersi con gli altri, gli svevi, almeno loro, gli alemanni. La seconda verità
che propone leggendo il suo “amico di casa” Johann Peter Hebel, il compaesano,
che visse metà e più della sua vita (1760-1826) in lontano, è lo stesso “amico
di casa”. La casa essendo non le quattro mura ma il mondo. L’amico quello che alla
casa-mondo dà senso: “L’amico di casa della terra è la luna”, il filosofo
argomenta col poeta: “Come la luna attraverso il suo risplendere, così il
terrestre amico di casa Hebel porta con il suo dire una luce, e di certo una
luce mite”.
Perché la luna e non il sole? “La luna porta la luce
nelle nostre notti. Ma la luce che porta non l’ha essa stessa accesa. È soltanto
il riflesso che luna ha precedentemente ricevuto – dal suo sole, il cui
splendore illumina al tempo stesso la terra”. L’amico di casa è tutti noi. È il
custode dell’“essenziale”, che gli altri, “assonnati, dimenticano fin troppo
facilmente”.Il “guardiano notturno”, vigile anche quando non parla. Il dialetto
è l’amico di casa.
Terzo: l’amico di casa è quello che ci riconduce “alla
naturalità della natura”, che è “molto più antica della natura come oggetto della
moderna scienza della natura”. La natura si storicizza. In Hebel, nella
lingua-dialetto, in modo particolare. “Questo amico di casa certamente
ruralizza l’universo”, come già Goethe lamentava. “Ma questo ruralizzare
avviene secondo quella maniera del costruire che pensa nella direzione di un
più originario abitare dell’uomo”. Allora, in un mondo ancora rurale, e oggi: è
“il poeta come l’amico di casa che porta al linguaggio la casa del mondo per l’umano
abitare”. È quello che “porta al linguaggio”.
“Il segreto del linguaggio di Hebel” non sta nell’artificio,
né nel popolaresco: “Sta nel fatto che Hebel è stato in grado di incorporare la
lingua del dialetto alemanno nella lingua pura e letteraria. In questa maniera
il poeta lascia risuonare la lingua letteraria come pura eco della ricchezza
del dialetto”. Heidegger al suo tempo non aveva da confrontarsi col
politicamente corretto, né con l’internet, ma già sapeva: “Ciò che un tempo era
il parlato del nostro linguaggio, la sua inesauribile arcaicità, sprofonda
sempre più nell’oblio”. Anzi: “Noi riteniamo cioè che anche il linguaggio, come
ogni altra cosa quotidiana con la quale abbiamo a che fare, sia soltanto uno
strumento, e precisamente lo strumento della comunicazione e dell’informazione”.
Non si parla più perché non si ascolta O si parla, ma
non più nella “lingua materna”, il “linguaggio
cresciuto storicamente”. Questo è fondamentalmente il dialetto: “Il dialetto non è solo la lingua della
madre, ma al tempo stesso è anzitutto la madre della lingua”.
Martin Heidegger, Hebel.
L’amico di casa, Aquaplano, pp. 48 € 12
domenica 16 febbraio 2014
Secondi pensieri - 165
zeulig
La parola dell’essere è il verbo. La chiamata dell’essere è
la grazia, repentina, illuminante, ingiustificata. L’isolamento e l’abbandono,
si sa, sono dei santi. E “il dolore elargisce il suo balsamo là dove più non lo
aspettiamo”, nell’aldilà. Poi è venuto das
Denken denkt, del linguaggio mistico e pietista: pensare gratifica.
Qualche volta sì, evidentemente, malgrado il nulla. Più violento del nulla.
Blasfemia
– È
scomparsa. Anche nei dialetti e nei modi di essere che in qualche modo vi si
basavano, emiliani, romagnoli, veneti.
Effetto del laicismo più che del politicamente corretto – la scomparsa
della bestemmia va di pari passo con l’involgarimento del linguaggio. Oppure il
politicamente corretto può dirsi una forma “corretta” di bestemmia.
Circospezione
–
Le intercettazioni (il privato rivoltato istituzionalmente), dopo la
psicoanalisi (il privato rivoltato individualmente), hanno reso tutti
circospetti. I politici, che parlano come
i maghi, per allusioni, gli allenatori e gli atleti, che sempre si
coprono la bocca con le mani, e la norma ora invalsa di controllarsi comunque
in una conversazione a tre. Anche nei momenti di rilassamento, per esempio,
prima o dopo un convegno, autocensurarsi è la regola. “La diffusione della
conoscenza psicologica ha ucciso in gran parte l’innocenza”, Orwell notava nel
1943.
È anche vero che le epoche storiche
costruttive (innovative, progressive) si costruiscono su una relativa mancanza
di autocontrollo - anche di autoconoscenza.
Dio - Il “non mi avresti cercato, se non mi
avessi trovato”, la prova logica di Pascal, è capziosa. E tuttavia è vera. La
ricerca viene prima di ogni convenienza, o di ogni forma di potere, levitico
oppure no.
Egotismo
– Col
nome di Ichheit emerse in Germania a
fine Settecento. Con Fichte, e nella polemica che Jacobi intentò contro Fichte.
Poco meno di un secolo dunque dopo l’egotismo
di Addison, 1714. L’oggettiva soggettività dell’Io - tradotta come “egoità”. Ma la parola non ebbe fortuna, benché utilizzata
da Jean Paul e altri scrittori di successo. È vero che contrasta con l’oggettività
cui pretende la filosofia tedesca – lo stesso Fichte in vario modo ritrattò.
Heidegger
–
C’è anche Heidegger poeta. Oggetto di due numeri di “Aut-Aut”, l’ultimo del
1989 e il primo del 1990, oltre che autore di parecchi versi, in rima o
studiate assonanze, sodale di René Char, malgrado la politica, l’unico tedesco
che Celan sentì in sintonia dopo la guerra, malgrado il nazismo, autore di
saggi che fanno testo su Hölderlin, Hebel, e altri lirici. La lirica in
Heidegger non è confinata alle composizioni propriamente liriche (ma più sono
gnomiche) e agli studi.
A un
certo punto il mondo voleva uniquadro, dei e uomini, cielo a terra, ai quattro
angoli del ring.
Disponili binariamente, cielo-dei, terra-uomini, ma l’immagine gli piaceva delle
quattro punte, per ricavarne una croce. O meglio, accoppiandoli, la croce di
sant’Andrea, con cui alla fine ha barrato l’Essere, non essendo riuscito a
sbarazzarsene, malgrado lo scrivesse con la y, Seyn invece di Sein – das Geviert, l’uniquadrità, è
l’essenza della Differenza. Insomma, quell’arrampicarsi sugli specchi che gli
ha valso la fama di mago. Ma in questa chiave la sua magia è palese.
Heidegger
ricomincia a filosofare dal punto in cui Wittgenstein smetterà. Entrambi
partendo dall’insufficienza della parola. Ma Wittgenstein è conseguente,
negando ciò che rende Heidegger verboso, che l’essere parli attraverso la
filosofia - gran mistico anche Wittgenstein, represso.
Quattro cantoni - Il gioco
(una sorta di sport nazionale in Italia, quello per cui l’assassino fa il giudice, il prete
lo sbirro, il papa fa il laico, il laico fa il papa, l’arbitro segna i gol, e il calciatore fischia), dire una cosa per un’altra, lo praticava già Kant: l’olfatto
voleva un remoto gusto, accumulato, affinato.
È l’uniquadrità
di Heidegger? Sì e no. Il gioco dei quattro cantoni, che si gioca in cinque,
prevede che il quinto, che sta al centro, riesca a occupare, nei continui spostamenti,
uno degli angoli lasciati momentaneamente liberi dagli altri quattro. Ma in
realtà è una forma d’identificazione per sostituzione.
Ragione - La ragione raramente ha ragione, e quindi la Scolastica ha torto. La ragione universale poi non ha mai ragione, bisogna essere contro Hegel, anche se si finisce con Schopenhauer e contro Marx e Sieyés. Ma con Heidegger la filosofia torna all’esse di san Tommaso, che il cogito di Cartesio superbo ha mandato in cantina. Con aggiornamenti e ritorni.
La parola dell’essere è il verbo. La chiamata dell’essere è
la grazia, repentina, illuminante, ingiustificata. L’isolamento e l’abbandono,
si sa, sono dei santi. E “il dolore elargisce il suo balsamo là dove più non lo
aspettiamo”, nell’aldilà. Poi è venuto das
Denken denkt, del linguaggio mistico e pietista: pensare gratifica.
Qualche volta sì, evidentemente, malgrado il nulla. Più violento del nulla.
E si
finisce aspettando un Dio. L’ultimo filosofo, Heidegger, non lo ha scritto, poiché
era omertoso, ma lo ha chiesto allo Spiegel.
Niente di più ovvio, per la corrispondenza niente-Dio. “Che cos’è l’Essere? è
esso stesso”: questa scoperta centrale, filosoficamente ridicola, era già di san
Giovanni, l’apostolo rabbino: “Io sono colui che è” - come die Frage, la questione, che
altro non è che la tortura.
Suicidio
-
Lo stoico lo auspica. Baudelaire dirà lo
stoicismo una religione con un solo sacramento, il suicidio. Fra gli stoici
suicidi merita speciale menzione Seneca, che filosofò l’etica austera ma
accumulò ricchezze in Britannia col prestito a usura.
Ovidio ha
l’empio che si sbrana “con morsi spietati”, e “così lo sciagurato le sue membra
smagrendo nutriva” – fino a un certo puto evidentemente, anche se l’autofagocitazione
è più suggestiva che reale. Non solo Erisittone, ogni uomo morde incontinente
se stesso.
Si suicidano, pare, gli scrittori in percentuale rilevante. Già Lattanzio
ne poté compilare un lungo elenco. C’è un club dei suicidi in Chesterston, e
uno in Franziska zu Reventlow. Ma dopo una certa età. È impensabile che
Baudelaire potesse suicidarsi a ventiquattro anni, e Casanova a quindici,
secondo si proponevano, un poeta morto non è un poeta. Né una ragazza in fiore,
quelle che parlano per il solo fatto di esistere. Sylvia Plath, che
all’università usava rappresentarsi con Anne Sexton al caffè suicidi tentati o
immaginari, l’11 febbraio 1963, preparata la colazione ai figli, si chiuse in
cucina e aprì il gas, scrivendo un biglietto: “Chiamate il dottore”. Ma i
bambini non capirono in tempo. “Per Sylvia la morte era un debito da pagare una
volta ogni dieci anni”, annotò la poetessa Sexton, che si uccise dieci anni
dopo.
Per Karen Blixen i sognatori, gli uomini sognatori, non sono che
suicidi beneducati.
zeulig@antiit.eu
La Cina di malavoglia
“Canton (fiume delle perle)
mi ricorda molto Tashkent”. Non può essere, ma Sereni era stato invitato in
precedenza in Turkmenistan, e su questo metro visita a novembre del 1980 la
Cina. Ignaro che si preparava la grande svolta delle Quattro Modernizzazioni. Un
viaggio che sarà prolifico di memorie: con De Jaco, segretario del Sindacato Nazionale
Scrittori, l’organizzatore, Mario Luzi, la sinologa Anna Bujatti, Arbasino e
Malerba, questi ultimi in sostituzione di Calvino e Volponi, che all’ultimo si
erano sfilati, tutti ne hanno scritto. Eccetto la sinologa. Tutti asfittici - eccetto
Arbasino, che ha lunghi studi di politologia.
Molta meraviglia, nessuna
curiosità – a parte il pettegolezzo costante su Arbasino, che si sottrae all’ufficialità.
“Un certo Ginzberg” li ospita, Siegmund Ginzberg. “Incontrata per caso la
signora dell’ambasciata col figlioletto”, la sinologa Sandra Carletti. Meglio la
nota introduttiva e l’apparato di riferimenti di Emanuela Sartorelli, che ha
curato questa edizioncina per Via del Vento - l’entusiasmo del critico salva
molto speso l’autore. Il viaggio evidentemente non fa bene ai letterati
italiani.
Vittorio Sereni, Viaggio in Cina