sabato 1 marzo 2014

Roma vittima della sua bellezza

Buche, acqua, sanità, scuola, asili, rifiuti, Roma va meglio delle altre grandi città italiane, Milano, Napoli naturalmente, ma anche delle medie, Torino, Firenze, Bologna. Perfino i trasporti pubblici sono meglio, quelli dei pendolari compresi, che a Roma vengono da Napoli e da mezzo Abruzzo. Ma ha pessima opinione. Perché è fatta così, è pettegola – tutti i film sulla sua “grande bellezza” ce lo dicono. E ha un giornalismo da vecchia provincia.Nel 208, al cambio della guardia politico in Campidoglio, inatteso, si scoprì che Roma aveva 12 miliardi di debiti, malgrado le leggi speciali, superfinanziate, per il Giubileo 2000. Di questo non si parla, della necessità di ridurlo. Magari mettendo sul mercato i 43 mila immobili di cui a vario titolo il Campidoglio è diventato nei secoli proprietario e non sa amministrare – ne ricava 27 milioni di affitti, quasi tutti morosi (mentre ne paga 21 sull’unghia per cinquemila abitazioni per i bisognosi). Su questo debito paga 800-900 milioni d’interessi l‘anno. Che è il disavanzo di bilancio.
L’Acea, l’azienda comunale acqua e energia, ha 3,6 miliardi di debiti, per un fatturato di 500 milioni scarsi. È cioè un’azienda fallita, l’unica del settore. Ma assolutamente non  bisogna liberarsene, è un “bene pubblico”, l’acqua è sacra, etc. Roma ha un migliaio di “supermanager” a 300 mila euro l’anno. Questi non ce li ha la Fiat, ma nemmeno la Volkswagen, che fattura 200 miliardi. E fa la raccolta differenziata di malavoglia, malgrado il super senso civico dei romani - i rifiuti sanitari non si ritirano dalle farmacie da sette mesi.Non c’è rimedio? Basta dare la colpa al sindaco Marino. Che è inviso al Pd.Tanto basta per fare l’opinione, e calmarla. Il resto è ordinaria disamministrazione. 

Bulgakov “medico in prima linea”

Geniale Bulgakov, medico-scrittore, avrà inventato anche “E.R. – Medici in prima linea”, e il serial tv. Questi racconti si possono dire un’anticipazione, nel 1925 (ma già a caldo, i veri “Appunti”, poi perduti, erano del 1917, e del 1921 una seconda redazione, anch’essa smarrita), di Michael Crichton, i suoi “Casi di emergenza” e la serie che Steven Spielberg ne ha tratto,. Le vicissitudini di un neolaureato medico unico di un ospedalino di provincia, con cento e passa pazienti al giorno, e molta chirurgia avventurosa, tra il 1916 e il 1917, tra le tormente, e lunghe notti a lume a petrolio. Ora che Hardcastle ne ha tratto una serie tv, di cui si prepara la terza edizione, dopo le mini-serie 2012 e 2013, si apprezza il lato “visionario” della narrativa di Bulgakov, la sua capacità di mettere a fuoco le situazioni più impensate, anche improbabili.
Si ride molto, c’è molta ignoranza nella miseria, ai limiti della stupidità, e si piange, ma sempre si ricorda.  La letteratura russa ha una tradizione di medici: il medico scrittore (Cechov), il medico personaggio (Živago). Bulgakov è medico, scrittore e personaggio. “Morfina”, il racconto lungo altrimenti noto, incluso nella raccolta, ripercorre l’esperienza personale della dipendenza contratta da Bulgakov per una vaccinazione antidifterica che gli provocava dolori insopportabili: ottenutone sollievo con piccole dosi di morfina, ne divenne succube per un anno e mezzo.  È come scriveva Milli Martinelli, proponendo la raccolta venticinque anni fa: nell’ospedalino Bulgakov “ha sperimentato l’assoluto controllo della propria emotività”, che poi trasfonderà nella scrittura, usando caratteristicamente “la penna da grande dissezionatore del fatto da rappresentare”, da “anatomista del dettaglio”.
Michail Bulgakov, Appunti di un giovane medico, Bur, pp. 203 € 8

venerdì 28 febbraio 2014

Ombre - 210

La Capria pubblica un libro, “La bellezza di Roma”, in cui chiede di liquidare i vigili urbani e di sostituirli, “a concorso”, con architetti e specialisti di belle arti e conservazione del patrimonio. Ognuno di loro mettendo a guardia di un monumento. L’intellettuale è sempre totalitario.
Ma perché la coscrizione dei laureati? E a concorso: col primo, il secondo, il terzo?

Sartori, che conosce bene Renzi da Firenze, ne è molto critico. Per questo è scomparso dalla Rai, e dal “Corriere della sera”?

Dodici pagine di pubblicità finanziaria – la più costosa – di Unipol sulle maggiori testate.  Beneficenza?

Renzi debutta condannando il “capitalismo di relazioni” con cui Milano ci governa. Non vorrà dispiacere a Bazoli?

Il conflitto d’interessi
Un’industriale all’Industria
E uno, maschio, al Lavoro:
Era caso di coscienza
Il conflitto d’interesse
Ma disceso nella Bassa
Si risolse in interessenza.

C’è l’arsenico nell’acqua a Roma Nord,  un avvelenamento di massa è stato evitato per caso. Ma senza colpevoli: c’entra il Comune, e Pignatone il Terribile si astiene. La Giustizia vuol essere severa.

Lo Stato progettava con la mafia attentati negli Usa. È l’ultima tappa dello Stato-Mafia. Lo assicurano alcuni vecchi pentiti in scadenza di contratto, rovistando nella memoria.

Tra i pentiti dello Stato-mafia internazionale c’è Di Carlo. Un trafficante di droga che si penti per avere l’estradizione dall’Inghilterra, dove il carcere si fa duro. All’epoca rivelò che Berlusconi s’era arricchito commerciando in cocaina.
Bisognerebbe fare una storia dei pentiti.

Ma chi era lo Stato nella trattativa con la mafia: prima un giudice, Di Maggio, morto nel 1995. Ora un questore, La Barbera, morto in tempo una decina d’anni fa.

Ma non si può dire che le sorprese manchino a Palermo: ora La Barbera potrebbe resuscitare. Scrive Bianconi sul “Corriere della sera”: “Prima di interrogare La Barbera, i pubblici ministeri  annuciano il deposito di nuovi materiali…”. Palermo città divina, diabolica?

Ester Bonafede, assessore stakhanovista al Lavoro della Regione Sicilia, lamenta al bar di “guadagnare” quanto un commesso. Scandalo. “la Repubblica-Palermo” si strappa le vesti che l’assessore, con 5.800 euro al mese, si lamenti. Non che un usciere (a Palermo ce ne sono un migliaio) guadagni 5.800 euro.

Gratteri ministro? Una provocazione, dice Sabelli, il segretario del sindacato dei giudici. Questa ci mancava.

Sfacelo all’Opera di Roma, terremotata dai consigliori del sindaco Marino – che ancora non ‘è ripreso dallo shock dell’elezione, dieci mesi fa. Per un paio di posti. Contro una gestione che aveva portato a Roma Netrebko e Muti. Ma non un cenno nella grande stampa romana. Centralismo democratico?

Gotor, lo storico delle lettere di Moro che si è subito fatto senatore, trova contro il governo Renzi che “non a caso Berlusconi avrebbe detto: «Abbiamo un ministro»”. “Avrebbe” detto che vuol dire? A caso o non a caso, il doppio interrogativo affermativo che storia è?

Alfano, retrocesso da vice-presidente del consiglio a ministro, è sempre gaio. Non sa di che si tratta?

L’ultimo partito, quello di Passera, nasce all’insegna “né destra né sinistra”. Basta questo? Destra e sinistra attirano ancora tanto?

“La cosa più complicata è stata spiegare al segretario generale della Farnesina che davvero volevamo Michelle Obama”, ha detto Giancarlo Leone per giustificare il flop: il direttore di Rai 1 voleva Michelle Obama al festival – a Sanremo. Rai insuperabile, come il tonno. Nel provincialismo.

Si veda la scena. Fazio e Leone occupano rumorosamente lo studio, benché vasto, dell’ambasciatore Valensise. Che quando infine ha capito il senso della richiesta non ha nemmeno potuto mandare i due interlocutori a quel paese, essendo diplomatico. 


Giovanni Bazoli fa un’intervista al “Financial Times” per difendere il “mercato relazionale”, gli affari tra amici. Meravigliando lo stesso giornale: “Giovanni Bazoli difende la banca di relazioni vecchio stile in Italia. Nell’ora più buia del sistema bancario italiano”.

Polizie, crimini e vendette

Una polizia invece di sei sarebbe un gran risparmio, e anche una riforma utile – è strano che Renzi se la sia fatta sfuggire nel suo crozziano “catalogo”. Nella vulgata ci sono due polizie, i Carabinieri e l’ex Pubblica Sicurezza, la Polizia propriamente detta. Che si fanno sgambetti e si rifilano bufale. Invece, già all’epoca della vulgata erano in tre: c’era, non detta ma vigile, vigilantissima col suo Ufficio I, la Guardia di finanza. Che in alcuni casi controlla i bilanci e gli scontrini, e nel molto tempo libero intercetta e si tiene informata, del più e del meno.
Ma questa è preistoria.
Da un paio di decenni ne abbiamo sei, di polizie. Perché ognuna si è sdoppiata: con lo Sco  la Polizia, col Ros i Cc, e con lo Scico la Gdf. In guerra tra di loro, cioè con le rispettive armi. O meglio: sfidate in guerra dalle rispettive armi, i cui generali non digeriscono la concorrenza dei generali dei servivi operativi, di carriera più svelta. Sei polizie in guerra tra di loro invece che contro il crimine, se ne potrebbe fare un primato.Ne abbiamo più di un caso. In Polizia meno. Ma qualcosa c’è stato a Napoli da parte dello Sco contro il capo della Criminalpol, che prendeva troppi camorristi – non perché li prendesse, ma perché li prendeva lui e non lo Sco. I casi più eclatanti sono quelli dei CC contro il Ros. Prima quello di Mori poi quello di Ganzer. Meno scoperti (più coperti dai cronisti) ma ancora più gravi quelli della Guardia di Finanza. A Milano contro il generale Pollari per il “sequestro” di Abu Omar. E ora a Bari contro il generale Bardi e il maggiore Sportelli.


L’edizione vecchia è la più nuova

Due diverse antologie dello stesso testo, i “Diari” che Hebbel tenne per tutta la vita attiva, due diversi criteri di scelta, due opere diverse. Le antologie fanno molti scherzi agli autori. Sentenziosa, e quindi poca cosa al confronto con altri massimari, studiati, la scelta del pianista Brendel (proposta da Adelphi), significativa e ancora viva quella di Scipio Slataper nel 1931, riproposta quindici anni fa da Antonio Castronuovo per l’editrice La Mandragora, e ora risuscitata insieme col logo editoriale originale. Due diverse traduzioni anche, quella di Slataper meno filologica ma più “aderente”. E così in italiano, dove lo Hebbel tragico è quasi sconosciuto, malgrado gli studi di Farinelli, Borgese, Lukáks, Mittner, il suo diario ha tre edizioni in contemporanea.
Lo Hebbel diaristico non è stimato, nell’interessante disamina che ne fa Castronuovo: se piace ai lettori, da questi bisogna escludere i critici, con poche eccezioni. “Riposo serale”, Benjamin perfido annota nel 1928, “sta critto a grandi lettere sul pensiero di Hebbel”. Più radicale Emilio Cecchi, che l’aveva letto in francese nel 1911: “i pensieri di Hebbel nei Diari” dice “assai più voluti pensare che pensati”. Castronuovo vuole Nietzsche “positivamente” impressionato da Hebbel, ma dai drammi, “Giuditta” e “I Nibelunghi” – anche se in Nietzsche il nome non ricorre mai. Thomas Mann scrisse dei “Diari” nel 1904, impressionato dalla mole, duemila pagine, impressionato negativamente. Mentre ne fu entusiasta Kafka, che li lesse nello stesso anno, come più tardi lo sarà Canetti – benché Hebbel abbia più di un cenno antisemita.
Castronuovo si segnala soprattutto per la sintesi del nodo nevralgico di Hebbel diarista e tragediografo: salvare l’individuo nella piattezza della modernità con l’affermazione del “contadino” come “spirito del mondo” - in anticipo quindi di un secolo sull’autenticità di Heidegger (e di Pasolini). Hebbel assume la polemica romantica sul filisteismo: antiborghese, antimercantile. E antimodernista, a volte voluttuosamente reazionaria.
Estratti di saggezza? “I figli devono essere partoriti perché le madri non muoiano”. “La fede non è un’attività oscura dello spirito, ma sì chiarissima: abbraccia con sicurezza l’affine che sta fuori della cerchia dell’intelletto”. “Il veramente soggettivo è nient’altro che una specie di oggettivo. Allarga il mondo, esprimendo i fenomeni che possono accadere solo nel cerchio di una data personalità”. “La donna nell’uomo lo tira alla donna, l’uomo nella donna tiene testa all’uomo”.
Friedrich Hebbel, Diario, Carabba, pp. 134 € 15

giovedì 27 febbraio 2014

Il mondo com'è (164)

astolfo

Analfabetismo – Si discute se col maestro Manzi, “Non è mai troppo tardi”, un milione e mezzo di italiani presero la licenza elementare, come dice la Rai, oppure solo 35 mila. Il numero è importante, perché un milione e mezzo di italiani analfabeti tra il 1960 e il 1968 fa senso – ma non c’è bisogno del dato Rai: probabilmente erano di più, l’Italia è nata da poco. La diversità dei numeri è invece indifferente al fatto, che è rilevante comunque: la voglia di imparare. Se anche furono solo 35 mila, oltre mille classi dovettero essere organizzate negli otto anni, e fornite di televisori e cancelleria – la super scuola media di Fanfani verrà istituita nel 1962 e entrerà in funzione nel 1963. Quasi tutte persone anziane e anzianissime, anche ultraottantenni, questo il punto, che prendevano la licenza per orgoglio.
La cultura era allora una piramide, cui tutti ambivano accedere, anche se solo al livello minimo. Oggi sarebbe una piramide rovesciata, con la testa ingombra, ma senza piedi, o altrimenti fragili, non interessati.

Confessione – È tornata “sociale”? Come tra le carmelitane e in alcune sette, anche cristiane, ora sui social media. La confessione impazza, spesso in senso proprio, dei delitti commessi o annunciati. Il caso di Breivik in Norvegia non è isolato, molti delitti vengono annunciati o vantati  sui social media. Allo stesso livello di indifferenza che connota tutta l’informazione in rete – indifferenza etica, sotto la facciata della trasgressività, e qui di giudizio, ma anche cognitiva. Delitti ovviamente minori rispetto alla strage perpetrata da Breivik, ma pur sempre delitti, perfino assassinii. E viceversa, molti social media vengono analizzati dalla polizia, a fini di prevenzione, o anche per fare luce in certe indagini o sostenere le accuse.
Il rapporto 2013 della International Association of Chiefs of Police, che raggruppa circa 500 polizie, afferma che l’80 per cento dei membri usa i social media per le indagini. Una delle attività emergenti è il software per ricerche digitali, a uso delle polizie e degli studi legali (negli Usa). Certi di trovare nei social media elementi di colpevolezza\innocenza.

Destra-sinistra – Renzi dichiara la contrapposizione perenta nella forma del merito-con-uguaglianza. Che è in realtà la società liberale. Cioè la destra - una delle destre, ma l’unica in realtà con dignità politica, le altre essendo manifestazioni di totalitarismo, razzismo, intolleranza. Mentre la distinzione vige nei fatti, se non nella politica che non sa governare i fatti. E negli animi. Ne è riprova l’opportunismo, che della distinzione – e quindi della sua negazione – si nutre.
La negazione stessa della polarizzazione è liberale: una società ben governata, si dice, non può che essere libera. E si citano in proposito i casi di indifferenza, del fascista che diventa comunista, e viceversa, come indicativi di una polarizzazione infetta dal virus antiliberale – che oggi si direbbe antidemocratico. Anche questo è vero.
La pratica di quello che in Italia si chiama “trasformismo” essendo corrente, i casi recenti sono poco significativi. Ma alcune storie, ancorché ignote, sono significative, della differenza e dell’opportunismo.
Arnolt Bronnen, nato Bronner, nome d’arte A.H.Schelle-Noetzel, viennese, scrittore, drammaturgo, l’autore del “Parricidio” (suo padre era ebreo), amico austriaco di Brecht, diventò l’amico di Goebbels, fece il “voto della più sincera fedeltà” a Hitler nel 1933, per finire a guerra perduta sindaco comunista al paesello, a Bad Goisem – e poi onorato drammaturgo a Berlino Est.
Ernst Niekisch fu socialista, e presidente del parlamentino della Repubblica dei Consigli degli operai e soldati di Monaco nel 1919. Dalla quale fu però condannato subito dopo a due anni e mezzo di prigione senza nessun capo d’accusa. Fu ciò malgrado sempre antinazista, autore nel 1932 di “Hitler, una disgrazia tedesca”, e poi di libelli che gli valsero l’ergastolo per “alto tradimento letterario” dal Tribunale del popolo, presieduto da un ex comunista, Roland Freisler. Ma fu anche antisemita.
Roland Freisler, il presidente e procuratore del Tribunale Speciale di Hitler, sicuro nazista dal 1925, fu perseguitato fino alla morte nel 1945, sotto le bombe a Berlino, dalla fama di essere stato comunista durante il servizio militare nella grande guerra, e nel campo di prigionia bolscevico.  
Jacques Doriot, giovane socialista in guerra, decorato al valore, subito comunista, e per questo anche carcerato, quindi espulso dal Pcf con tipica procedura stalinista (per aver prospettato l’alleanza elettorale con i socialisti nel 1934 - cioè il Fronte Popolare che si farà due anni dopo perché Stalin l’aveva deciso), divenne filofascista e fu infine collaborazionista.  

Occidente – È un ricordo, una forma storica. Non c’è più come organizzazione politica, nemmeno in forma di petizione – nessuno ne parla, nessuno lo propone, la Nato non si sa nemmeno se (che) esiste.
A lungo si è detto Occidente la forma culturale dominante, dopo la perdita delle colonie e le sconfitte dell’imperialismo, a Dien-Bien-Phu, a Suez, in Algeria, nel Vietnam, in Sud Africa. La società dell’abbondanza dei consumi come modello culturale “universale” imposto dall’Occidente, inteso come area transatlantica, Europa Occidentale-Usa. Ma l’Europa da un quarto di secolo non è più la stessa, tra la Germania e il niente - 28 stati, forse 30. Mentre gli Usa da un quarto di secolo sono proiettati sull’area transpacifica.
Il modello economico del libero mercato, teorizzato a Occidente, è ora imposto ad esso. Non c’è un modello politico occidentale: i regimi pluralistici, elettorali, sono deboli nella stessa Europa. Non c’è – ma da tempo non c’era – un modello estetico (letterario, filosofico, artistico), se non per alcune escrescenze statunitensi, comunque non dominanti nella cultura mondiale, per quanto informe. Resta nella forma immagine: il selfie, la tv, il cinema. Ma allora nell’indistinto: l’Asia ne è padrona e succube quanto l’Occidente.

Riforma – Si carica, avvicinandosi il sesto centenario, di messianismo. Curioso: a opera di non credenti. Ma più per misinterpretare il fatto politico o storico: la Riforma avrebbe potuto aversi nel tredicesimo secolo, anche nel dodicesimo, “da sinistra”, attorno ai catari, albigesi etc. Oppure, “da destra”, all’interno della chiesa, nel quindicesimo secolo, attorno ai concili di Costanza e Firenze-Ferrara. Quella di Lutero fu una ribellione politica. Non meno di quella anglicana, politica dichiarata. Una secessione.

Sonnambulismo – È scomparso. Dopo essere stato”normale”, per più generazioni, fino almeno agli anni 1950 – “’A sonnambula” è del 1957. Simenon nelle memorie, in particolare in “Lettera a mia madre”, ricorda di essere stato sonnambulo e di avere “ancora crisi di sonnambulsimo alla mia età”, a 72 anni - “che è molto raro”. E testimonia: “Due dei miei figli almeno sono sonnambuli, benché non concepiti dalla stessa madre. Infine, mio nipote è anch’egli sonnambulo”.
Si potrebbe argomentare che è diventato una condizione normale in senso improprio: non di veglia nel sonno ma di sonno nella veglia.

Turismo – È una forma d’impregnazione? D’impregnazione di massa:  milioni di persone che decidono di vedere tutta Firenze in un giorno, tutta Roma in due, di ogni immagine, e ne prendono centinaia di memorabili ogni giorno, fissando il ricordo nella fotocamera. Che viaggino da soli o in gruppo. Si direbbe che mettono da parte alcuni giorni della loro vita lavorativa per accumulare impressioni. Dopodiché, nel tempo libero a casa, nelle lunghe tediose stagioni buie o inclementi, le ripasseranno e gusteranno, al computer, sullo schermo tv, a una a una. Da soli o con i familiari e amici. Che ricordino cosa quelle immagini rappresentano (cosa hanno “visto”) oppure no: restano comunque impregnati di un flair, un gusto, un sapore, un modo di essere altro, e quindi desiderabile.
Oppure non vedranno nulla, non rivedranno niente di ciò che hanno fotografato. E allora il turismo sarebbe soltanto un’occupazione del tempo come un’altra. Un passatempo, nevrotico: fotografare tutto sarebbe un riflesso condizionato come un altro. Forse perché ora non costa più.
È vera l’una o l’altra ipotesi? Tertium non datur. O i giapponesi, e ora i cinesi, passano le serate al ritorno a godersi in dettaglio le tante immagini accumulate, o non si può che considerarli istupiditi – un tempo si diceva colonizzati - dai modelli culturali stranieri, occidentali, che adottavano, e ora non è più possibile, non ci sono modelli. Se non capiscono è perché il (relativo) benessere instupidisce - la vecchia polemica sulla piccola borghesia.

astolfo@antiit.eu

Cortigiane noiose

L’autore e i dialoghi di Savinio (e già di Settembrini, altro scrittore “saturnino”) ritornano riproposti da Francesco Chiossone. Con un curioso effetto: non hanno la stessa levità. Forse perché la lascivia è svanita – tra pornografia libera e proibizionismo (politicamente coretto) siamo anni luce dal mondo ancora sapido di Savinio, negli anni di guerra, riproposto con successo nel 1983. Le ragazze in cerca di marito, le mezzane, il saffismo sono soprattutto noiosi.
Luciano, Dialoghi delle cortigiane, il melangolo, pp. 112 € 8

mercoledì 26 febbraio 2014

Letture - 163

letterautore

Camilleri - Una vecchia saggezza poneva la felicità del narratore al meglio su un arco di quindici anni, a partire dalla prima maturità. Poi cessava: l’ispirazione, l’inventiva, la disposizione felice – la voglia cioè di fare, la fede in se stessi. Camilleri, narratore tardivo, è prolifico invece in ragione inversa degli anni – più creativo a mano a mano che cresce, ora verso i novanta.

Comico – È sadico. Aggressivo, ostinato. Da Hobbes a Freud, essendo la ridicolizzazione dell’altro, e una forma di derisione. Non nello scherzo, nello humour, nel Witz, dove è invenzione linguistica.
Un’estensione dalla fantasia creativa dell’infanzia, prima delle regole e della grammatica del linguaggio. Lo rimarca W.Benjamin a proposito di Jean Paul (nel saggio ora in “Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura”: “La sua essenza è quella della fantasia, che porta la forma alla metamorfosi. Un accadere che disfa le forme”.
È il privilegio dello spettatore-lettore.

Conrad  - Orwell lo vuole scrittore al meglio “terragno” invece che “di mare”. Meno esotico, miglior narratore. In effetti, i romanzi politici, “L’agente segreto”, “Con gli occhi dell’Occidente”, lo stesso eccessivo “Cuore di tenebra”, e i racconti, sono meglio strutturati, più contenuti e memorabili.

Dante Tedesco lo voleva l’italianista Emil Ruth un secolo e mezzo fa
(ma già Michelet nella “Storia di Francia”, che il ghibellino dice uomo del legame feudale, del giuramento di sangue, della devozione affettuosa: “il Tedesco”, Dante compreso, aggiunge, come opposto all’uomo della legge e della ragione, “il Francese” – era la storia dei “primati”).
E perché non ebreo, se suo padre era un usuraio? Magari ebreo tedesco.

Si vuole Dante arabo e islamico anche per il simbolismo della scala. Ma questo simbolismo René Guénon ricorda bene che è biblico, di origine caldeica e mithraica (“L’esoterismo di Dante”, cap. III)..

Poteva mancare un Dante “indiano”? Angelo De Gubernatis ne ha ipotizzato uno sul “Giornale della società asiatica italiana” nel 1889, che la complicata costruzione dell’esistenza celeste sotto forma di cieli e inferni gerarchicamente organizzati sia stata mediata dal brahmanesimo o forse dal buddismo (“Dante e l’India”).
Anche Frèderic Ozanam, lo studioso dell’Ottocento oggi beato, aveva intravisto un’influenza indiana, in aggiunta a quella islamica, su Dante – “Dante e la filosofia cattolica nel tredicesimo secolo”.

Dialetto – Heidegger lo lega al “poetare” e all’“abitare”, al radicamento  cioè e all’espressività. “Poetare e abitare sono in connessione inscindibile, si richiedono reciprocamente”. E questo è possibile attraverso il dialetto: “Il linguaggio, secondo la sua origine essenziale, è dialetto”. In questa forma lo riafferma, pochi anni dopo “L’amico di Casa” (Hebel), in “Linguaggio e terra natìa,”, 1962, il saggio conferito al volume celebrativo di Carl Burckhardt nel 1961: “Ed esso rimane tale perfino quando giunge ad essere linguaggio planetario. Infatti anch’esso ha la sua elezione e la sua particolarità”. E subito dopo in altra forma: “Nel dialetto si radica l’essenza del linguaggio. Si radica in esso anche se il dialetto è la lingua della madre”, la lingua cioè che circonda l’infante, “il proprio della casa, la terra natia. Il dialetto non è solo la lingua della madre, ma al tempo stesso è anzitutto la madre della lingua”.

Cases, recensendo nel 1988 la prima traduzione del “Tesoretto” di Hebel, sembra prendere le distanze: “Non voglio insistere con Heidegger… sulle profondità abissali della “Heimat” (patria) da cui emerge il linguaggio hebeliano. A parte Heidegger, siamo tutti illuministi (Hebel per primo) e non crediamo in questo fondo oscuro dell’anima contadina che si rivela solo nel dialetto”. Ma, esaurita la punta polemica, di fatto concorda: “Il profumo intraducibile del linguaggio di Hebel sta nel fatto che esso realizza l’antico sogno della fusione della lingua e del dialetto, del particolare e dell’universale; il protendersi del linguaggio “naturale” verso la comunicazione razionale, il trapassare della spontaneità in cultura senza che il primo elemento sia mai rinnegato”.

Mundart, la parola tedesca per “dialetto” non piaceva a Heidegger (“Linguaggio e terra natia”), perché dice solo “la comunicazione verbale, il carattere sonoro del linguaggio”. Gli piaceva di più “la parola straniera Dialekt”, perché di senso originario “eletto”, il greco dialégein, “il parlare l’uno con l’altro che è la matrice del linguaggio – “un parlare reciproco di tipo eletto, sì, particolare, e cioè un ascoltare l’uno dopo l’altro”. Ma Mundart ha un senso pratico più suggestivo, un parlare al modo della bocca – l’arte vocale come una sorta di natura.

Gran Lombardo – Ricorre in Dante – Purgatorio, XVIII, 121. Ma riferito a un veronese: Bartolomeo della Scala, primogenito e erede di Alberto I, signore di Verona dal 1301 al 1304.
Anche questo riferimento è ritenuto forzato. Bartolomeo è detto il “gran lombardo” in ricordo dell’accoglienza che Dante ne avrebbe avuto nell’esilio, quando si era distaccato dagli altri ghibelini come lui esiliati. Mentre non fu così. Non almeno nel primo soggiorno veronese di Dante. Che fu invece ottimamente trattato a Verona nel suo secondo soggiorno, da Cangrande della Scala.

Traduzione – La poesia (il senso), anche della prosa, è il come e non la cosa. Ciò non impedisce ottime traduzioni, per esempio di Dante in francese, e anche in inglese – mentre non è faustiano né goethiano il “Faust” di Franco Fortini. Il problema è quando la cosa si lega al come, per esempio nel Belli. Anche in molte prose di Gadda. Che per questo diventano “intraducibili”. E invece vengono tradotti. Non a metà: rileggendoli in traduzione non  perdono sapore.
Il come è legato alla cosa, naturalmente. Ma non è tutto. La creazione non avviene probabilmente in privativa. Non del tutto. La comunicazione ha più armi dell’incomunicabile.

letterautore@antiit.eu

L’amore mancato, a buon mercato

“Gli uomini, in generale, hanno un vantaggio sulle donne. Dimenticano facilmente i momenti difficili della loro esistenza”. Mentre “la più parte della donne ha la tendenza a conservare, inscritta profondamente in sé, la memoria delle ore tristi”. Simenon se lo dice qui dopo aver vissuto, e mostrato di averlo vissuto, il contrario. Qui nella sua prima prova dopo aver cessato, due anni prima, la prolifica attività di narratore, per dedicarsi a “dettare” le memorie. Nella settimana trascorsa accanto alla madre morente.
Simenon “fa  i conti” con la madre. Con la mancanza d’amore della sposa e madre – così crede. Fino a che, arzigogolando con se stesso, nella lunga veglia al capezzale della donna, come sempre vigile ma muta,  un’altra figura si erge, poco affettuosa ma non senza ragione, e solo devota al figlio, ai figli. Anche le madri hanno un corpo, una vita, una storia.
È una storia anche di un’altra civiltà, che Simenon sbalza ma di cui non ha coscienza. Di un modo di essere o vivere teutonico – la madre è fiammingo-olandese. Dello spirito del thrift, della rinuncia austera o dell’accumulo, che è convenuto chiamare lo spirito protestante del capitalismo. In realtà anche cattolico, per esempio in questo caso. Ma teutonico, per esempio a fronte dei latini Simenon, che invece si vogliono bene, se lo dicono - sprecano le parole.
La riedizione francese del 1976 collaziona anche una trentina di pagine del dettato successivo di Simenon, “Vento del Nord, vento del Sud”, che situano e spiegano la “Lettera”. Con la ricerca affannosa, tutta la vita, di un affetto. In due matrimoni lunghissimi, di oltre vent’anni, e costosissimi, finiti in liti oltraggiose tra avvocati e esperti patrimoniali. O anche “altrove, spesso presso quelle che si chiamano prostitute (una parola di cui ho orrore)” - sempre alla caccia ossessiva di “un po’ della tenerezza di cui sentivo il bisogno”. E rapporti in vario modo difficili con i figli delle due madri, benché accuditi e seguiti. E un affetto infine ritrovato in Teresa, l’ultima compagna. A sentire lui, basterebbe poco: un po’ d’attenzione, da una parte e dall’altra.
Georges Simenon, Lettera a mia madre

martedì 25 febbraio 2014

La Repubblica nacque sulla guerra civile

Ci fu la guerra civile, eccome. Anche perché la Resistenza era sovrastata da un “esercito” ben organizzato, equipaggiato,  armato, finanziato, quello del Pci, con un comando unitario e deciso, di Secchia e Longo. E durò anche troppo dopo la pace.
Non se ne parla, ma la Repubblica nata dalla Resistenza è piuttosto nata dalla guerra civile – non per nulla il terrorismo di trent’anni dopo fece migliaia di vittime, tra cui quattro  o cinquecento morti. Un radicamento che spiegherebbe l’impossibilità persistente di fare politica, del famoso “paese normale”.
Pansa non è storico ma contestualizza. A differenza degli storici, quasi tutti, della Resistenza – con l’eccezione di Pavone, Crainz e pochi altri. Con spirito polemico, ma senza fare polemica. Documentando pure il terrorismo di Graziani (uno che si ebbe gli onori di Andreotti qualche mese prima del compromesso storico, come dimenticarlo?), il collaborazionismo, specie contro gi ebrei, la tortura, e naturalmente l’occupazione tedesca, con le innumerevoli stragi di qua e di là dell’Appennino, da Arezzo e Massa in su..
Pansa, spirito indipendente e grande giornalista, ha anche i titoli, storico di formazione. Qui, come nel suo giornalismo, appassionato e competente, grandissimo lavoratore sempre sul campo. Senza partito preso, questo è vero – e per questo mai direttore, solo tollerato in tutti i giornali in cui ha lavorato, “La Stampa”, “Corriere della sera”, “la Repubblica”, “L’Espresso”, in virtù dei suoi lettori?
Giampaolo Pansa, Bella ciao. Controstoria della Resistenza, Rizzoli pp. 430 € 19,90

Problemi di base - 170

spock

Bravi ragazzi, quelli di Berlusconi, goodfellas?

Ridono gli ex Alfano, Lupi, Lorenzin, o digrignano i denti?

Perché i delfini, che sono solitamente giocosi, con Berlusconi sono cattivi?

Poiché genera così tanti delfini, non sarà Berlusconi un mammifero?

I delfini sono accreditati di grande intelligenza, quelli di Berlusconi no: c’è un motivo?

Dov’è che Berlusconi concepisce così tanti delfini, nelle piscine delle sue ville?

E come li genera, come Zeus dalla testa?

Toti dopo Alfano, Fini, Casini: nascono già grandi?

spock@antiit.eu

lunedì 24 febbraio 2014

Secondi pensieri - 166

zeulig

Divinità – È un concetto – con quelli correlati dell’ascesa, la freccia, lo sviluppo.
È anche una “misura” della storia, in senso etico o solo eulogico. Senza, la storia di disanima.

Eternità – Vive del brivido dell’effimero. 
È inimmaginabile perché se ne presuppone un inizio – di dice: “per l’eternità”. Tutte le dottrine dell’immortalità hanno un inizio - sono dottrine dell’inizio.
È un auspicio, e una promessa. Parte della speranza.

Materia - È figlia dello spirito. E consustanziale: se lo spirito per ipotesi morisse, anche la materia.
La natura ha bisogno dell’uomo, altrimenti inerte.

Nulla - Kant lo rinchiude in una breve nota alla breve appendice, “Dell’anfibolìa dei concetti di riflessione”, alla “Critica della ragione pura”. Ma questa nota articola in quattro concetti, che organizza in una tavola:
Nulla 1. Concetto privo di oggetto, ens rationis – “un concetto senza oggetto, alla stessa stregua dei noùmeni, che non possono esser posti tra le possibilità, benché non debbano per questo venir fatti passare per impossibili...”.
Nulla 2. Concetto privo di concetto, intuizione senza oggetto, nihil privativum  - “la realtà è qualcosa, la negazione è nulla”. 
Nulla 3. “La pura forma dell'intuizione, priva di sostanza…. lo spazio puro o il tempo puro”, ens imaginarium.
Nulla 4. Oggetto vuoto senza concetto, nihil negativum – “l'oggetto di un concetto in contraddizione con se stesso è nulla, poiché il concetto è nullo, è l'impossibile, come si ha nel caso di una figura rettilinea di due lati”.

Dev’essere come dice Pascal, al famoso “pensiero n. 72: “Per arrivare fino al niente ci vuole una capacità non minore di quella che si richiede per arrivare fino al tutto”. Sottinteso: “La capacità dev’essere infinita per l’uno e per l’altro”.

Oggettivo - È anche soggettivo , e viceversa. Hebbel dice il “veramente soggettivo” un ‘altra forma di “oggettivo”, abbracciando i fenomeni dell’esperienza personale. Ma il contrario è più vero.
Un terremoto può essere soggettivo? In parte sì. In senso figurato, per l’apprensione che può indurre, sia che si produca sia che non si produca, diversamente graduata a prescindere dalle distruzioni che ha comportato o comporterà, o non comporterà. E in senso proprio: un terremoto a Osaka forza 6 può essere meno distruttivo di uno a Ferrara forza 4.

Psicologia – Da scienza cognitiva di liberazione è slittata a una forma di deriva. Di decomposizione, e quindi di subordinazione. Ciò fa moltiplicando le vie d’uscite  Dopo l’abolizione della norma. A essa è seguita l’abolizione del ruolo, del tipo, della funzionalità. Aprendo a ogni adattamento, quindi a un massimo di libertà, che però sono vie di fuga, nell’incertezza crescente – l’indistinto è incertezza. Aprendo sì alla libertà totale, nei rapporti individuali, sociali e familiari, nel tessuto mondano e nell’esame di coscienza. Lo stesso psicologo, da demiurgo è passato a guardiano di un gregge brado.

Ragione - Si può muovere da Dilthey e la fine della metafisica: “Il senso e il significato non appaiono che con l’uomo e la sua storia”. Il senso, dirà Heidegger, è il senso dell’essere. A differenza di ogni altro ente, l’uomo intrattiene un rapporto col suo essere, che è l’esistenza. Ma già il Medio Evo l’aveva pensato, nell’haecceitas, la singolarità dell’esistenza: Individuum est ineffabile. Dio anche è ineffabile, come la verità. Dio non esiste in realtà se non filosoficamente – gli altri sanno che esiste. È la filosofia che la fede separa dalla ragione, la scienza dalla fede. Ma Heidegger, arrivato al bordo del nulla, riporta il mistero nella ragione – come Popper nella scienza. Rovesciano la prova di Locke, “non ne sapremo mai abbastanza per affermare che Dio non può infondere il sentimento e il pensiero nell’essere chiamato Dio”, avendo perduto la “fede nella ragione” – noi non sappiamo abbastanza nemmeno della ragione.

Santità – “Grande idea”, dice Hebbel nel “Diario”, “della religione cattolica che gli uomini importanti siano qualcosa agi occhi della divinità, e possano influirvi con la mediazione”. Di più: è santo chi lo vuole. La santità è un esercizio di volontà costante, senza debolezze. Dei forti, san Paolo, sant’Ignazio, come degli umili.

Scienza - È il moto perpetuo – una forma di. Il sapere è creazione di altro sapere. Lo moltiplica. Perché il sapere dovrebbe essere risolutivo (compreso il sapere di non sapere)?. La soluzione sarebbe la fine – lo stato fisico della quiete (una morte, la morte).

Speranza – È del tutto irragionevole.
Niente di più irragionevole, ed ineliminabile.

Suicidio - In antico la colpa portava al suicidio. Poi, con metodo cristiano, al pentimento e alla penitenza.

Ovidio ha l’empio che si sbrana “con morsi spietati” - e “così lo sciagurato le sue membra smagrendo nutriva”. Ma fino a un certo punto evidentemente.
È l’autofagocitazione, come modalità di suicidio, suggestiva e non reale? Non solo Erisittone, ogni uomo morde incontinente se stesso.

I manuali repertoriano il suicidio per protesta, quello conformista, e quello da malinconia.

Fiorì a Cirene di Libia, in tempi remoti, una scuola di filosofia il cui titolare, Egesìa detto Peisithànatos, l’imbonitore di morte, un edonista, era tanto bravo a esporre la bellezza del “darsi vinti” che i suoi allievi, uscendo, andavano a uccidersi - la scuola dovette finire presto. È la rivincita, argomentava Plinio, o Seneca, dell’uomo su Dio, che nella sua onnipotenza resta immobile. Ma Dio non c’entra, spiega Boris Vian: “Dio non ha interesse che per i preti e chi ha paura di morire, non per quelli che hanno paura di vivere” - e del resto “Dio non serve a niente quando è degli uomini che si ha paura”.

Hume, il cui libello Sul suicidio si editò postumo di secoli, la chiesa anglicana non si fidava, annota che si suicidano i Catoni: l’Uticense, la figlia Porcia, il genero Bruto, il killer di Cesare. E opina che suicidarsi è come “costruire una casa, coltivare la terra, navigare gli oceani”, tutte attività dalle quali si teneva alla larga – per Hume, si sa, “il caso è una parola senza significato”, anche se non specifica se una sola parola è casuale, o tutte. La risposta è forse questa, della Logica della ricerca che Popper lascia tradurre Logica della scoperta scientifica, che la soluzione più semplice è la migliore: si può morire per non avere ragioni.

zeulig@antiit.eu

La stupidità è una lingua

Marrone, studioso a Palermo di Montalbano, il commissario, come Eco lo fu di Mike Bongiorno, non ha paura di essere intelligente con la stupidità. Ma si guarda le spalle. Il suo tema è “Stupidità e scrittura”, così si intitolava in origine il libro, vent’anni fa. Lo ripubblica sopraffatto dalla stupidità che ci ha invaso coi new media, la stupidità, si sa, è “relazionale”. Ma, poi, vi si avventura poco. È  indeciso, la novità in realtà lo affascina.
Il grosso del lavoro è la riproposta degli scrittori rinomati che si sono esercitati in argomento: il filone di Giufà, Flaubert, Musil, Adorno, Barthes, Deleuze, Eco, Sciascia – manca Jean Paul, che è il più divertente. Un’ossessione per Sciascia - il terrorismo liquidò in tv dopo il rapimento di Moro, sbuffando per l’indignazione, con due parole: “Sono stupidi!”. Uno spasso per Eco, dal “Pendolo di Foucault”, qui trattato a lungo, al “Cimitero di Praga”.
Alla fine la stupidità è assolta: è un fatto linguistico. Lo è Giufà, lo sono i luoghi comuni di Flaubert, il totalitarismo di Adorno, il signor Chance di Kosinsky (“Oltre il giardino”), il complottismo di Eco e Sciascia. Notevole Deleuze: la bestia, bête in francese, non è soggetta alla stupidità, bêtise.
Il capitolo più promettente è rimasto nella penna: la “Ricerca” di Proust come “un’interminabile galleria di stupidi” (p.46). Anche il “transpolitico” di Baudrillard prometteva bene – che sa di “trans”, senz’altro: la stupidità è “l’anomalia, ossia una difformità senza conseguenze, senza più alcun carattere di sfida o di trasgressione” (siamo tutti trans-stupidi?).
Gianfranco Marrone, Stupidità, Bompiani, pp. 166 € 12 

domenica 23 febbraio 2014

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (198)

Giuseppe Leuzzi

“Amici” e “amici degli amici” fanno molto Sud, e anzi mafioso. Ma ricorrono la prima volta in un dramma della letteratura arcaica tedesca, opera di Roswita, che era una monaca. “Society of Amici” si chiamava in Inghilterra un secolo fa, nel prestigioso Marlborough College, il club degli studenti più esclusivo – di cui fu parte il famoso iconologo Sir Antohny Blunt, che fu anche spia di Mosca durante la guerra e nella “guerra fredda”. È vero che l’italiano usava, fino a qualche decennio fa, per i rapporti informali, una sorta di latinorum semi-goliardico. Lo stesso Blunt fu membro a Cambridge, con altre spie, dei Cambridge Apostles, o “Conversazione Society”.

A Casalnuovo di Napoli, 50 mila abitanti, due terzi dei quali arrivati negli ultimi trent’anni con la camorra e le costruzioni abusive, un consiglio comunale sciolto per camorra, un pizzaiolo si uccide disperato per una multa di dodicimila euro degli ispettori del lavoro. Da pagare entro il mese, pena la chiusura e una denuncia penale. Non aveva fatto il contratto alla moglie, che gli ispettori hanno trovato dietro il bancone della pizzeria. Poi dice che le mafie prosperano per l’assenza di giustizia.

Spatuzza, supertestimone al processo romano sulle mafie di Ostia, non convince. Parla di cose di vent’anni fa, e poi l’uomo è quello: ha fatto tutto lui. Per riaccreditarlo, il pm Ilaria Calò deposita il suo curriculum. Il cv del pentito, questo mancava.

La Calabria al governo
La Calabria ha rischiato di avere ben due ministri nel governo (quasi) più ristretto della Repubblica. Due ministeri importanti. Come la Lombardia. Forse per non averne avuto nessuno da ormai una trentina d’anni?
La Calabria ha rischiato di avere due ministri perché Renzi sapeva cosa faceva? O perché non se ne curava? Ha telefonato a Gratteri fra i tanti, e poi a Anna Maria Lanzetta?

Mafie
Quanti processi ha fatto Nicola Gratteri, e quanti libri? Libri invece di processi?

Dopo il primo assassinio non  c’è rimedio. Intervenendo prima si può invece bloccare la devianza. I Carabinieri lo sanno, che tengono d’occhio gli adolescenti – lo sapevano, quando uscivano dalla caserma. E disponevano il carcere subito, invece della tolleranza, nell’attesa del ravvedimento. Molti che sono andati in carcere giovani ne sono usciti rigenerati, tutti quelli che s’incontrano. Sono artigiani, imprenditori, qualcuno anche artista. Benché obbligati, prima di stringere un patto, a dichiarare: “Sapete, non ho il casellario pulito”.

Temevano i Carabinieri. E il carcere. Ora non più. Col carcere finiva tutto – quello che non finiva con le guerre di mafie. Ora non più. Non c’erano mafie di seconda generazione, ora sì. In Calabria anche di terza, Alvaro, Piromalli, Pesce, De Stefano.

“Sciascia, della mafia, ci ha raccontato tutto e niente: e la sua bravura è consistita più nel raccontare niente che nel raccontare tutto”, Sebastiano Vassalli sul “Corriere della sera” oggi. Come dirlo meglio?
Sciascia “non era un eroe, ma se qualcuno ha voluto credere che lo fosse glielo ha lasciato credere”. Non essere un eroe non è una colpa, ma le cose bisogna dirle.
Sciascia “ha fatto il politico”. Questo è vero, anche questo.

L’odio-di-sé
Theodor Lessing era un filosofo ottimista della storia. “La storia come conferimento di senso a ciò che non ha senso” è il titolo della sua opera più famosa, 1919, appena dopo la guerra orrenda – “Geschichte als Sinngebung des Sinnlosen. “Per Lessing la narrazione storica trasforma l’accadere degli eventi, in sé totalmente arbitrario, in un processo evolutivo di carattere razionale, nel tentativo di rendere sopportabili le lacune e le sofferenze  del mondo reale attraverso la rappresentazione di processi tanto reali quanto fittizi e illusori”, Andrea Tagliapietra.
Si deve a Th. Lessing pure la categoria del Selbsthass, l’odio-di-sé. Il filosofo la elaborò nel 1930 in riferimento agli ebrei, lui ebreo. Agli intellettuali ebrei che si volevano antisemiti, imputando alla religione, e in particolare all’ebraismo, che la religione lega alla razza, l’origine dei mali nel mondo.  Tre anni più tardi, all’avvento di Hitler, Th. Lessing si rifugiò in Cecoslovacchia, a Marienbad. Ma tre tedeschi di Cecoslovacchia lo uccisero, il 30 agosto, e poi tranquillamente emigrarono al sicuro in Germania.

Non c’è un Nord al Sud
Il Sud è stato ed è molto vissuto al Nord, l’Italia tutta, e il Sud in special modo - a partire dalla Campagna Romana, che in Italia non si sa nemmeno cosa sia. Come la Provenza e la Francia tutta, o la Spagna. Mentre non c’è un Nord visto dal Sud. Non con la stessa intensità, e comunque poco anche superficialmente – il Sud è sbadato. Niente Germania in Francia, niente di paragonabile alla Parigi di Walter Benjamin. Così come non c’è stato e non c’è in Italia niente sulla Germania di lontanamente paragonabile al “Viaggio in Italia” di Goethe”. Ai viaggi degli artisti, i pittori specialmente, e gli scultori. Ma anche a quelli dei letterati: i fratelli Mann si formarono a Palestrina – anche se a Thomas il ricordo restò indigesto. Negli studi storici, niente di paragonabile a Gregorovius, a Bachofen, a Burckhardt: che ne sappiamo noi della storia tedesca?  Tardi ancora nel Novecento letterati e artisti del Nord hanno cercato ispirazione e “aria respirabile” a Sud, Böcklin, Norman Douglas, Escher.
Il disprezzo del Sud da parte del Nord è opera del Sud probabilmente. Neghittoso, vendicativo, pulcioso. Dopo l’emigrazione – che è per i soggetti un evento fausto, ma per la sociologia infausto. E – in Italia – dopo l’unità: la focalizzazione Nord –Sud si è creata con l’unità, impregnando poi dei suoi veleni ogni Weltanschauung, ogni stereotipo di gazzettiere, anche la predica del parroco.

leuzzi@antiit.eu

La terra bruciata dall’indignazione

Don Patriciello, l’autore del libro documentario, è come se volesse fare della sua parrocchia a Caivano, tra Napoli e Caserta, un luogo maledetto. Non uno di speranza, come si penserebbe di un vangelo. Doppiamente anzi maledetto: il “luogo dei Casalesi” ha ribattezzato “Terra dei Fuochi” e vuole che sia appestata, da rifiuti tossici e quant’altro.
Non si può criticare uno che lotta contro la camorra, e dunque non lo si critica. Un prete, per giunta. Ma perché non dire la verità sulla “terra dei fuochi”? Sulle discariche abusive. Il prete che si effigia in copertina con la croce non fa invece che avallare le bufale di un pentito, Schiavone. Un pentito “vecchio” per giunta di vent’anni. Cha danna una terra, la sua terra, di don Patriciello, dicendola ricettacolo di veleni. Per trovare i quali milioni si spendono che avrebbero potuto essere altrimenti impiegati, per ricerche fantasmatiche coi droni dell’esercito (o dell’aviazione), le autoblindo in missione spesata, gli innumerevoli appalti a ditte che (non) scavano, comunque non trovano, e il rifiuto di sé, delle mamme e i loro figli, nell’isteria. Contro ogni evidenza. Contro la speranza - don Patriciello, che ha avuto l’altro ieri due morti per strada, sparati e bruciati, ieri ha celebrato Rocco Hunt, il vincitore giovane di Sanremo, per la canzone “Nu jurno buono”, che dice : “Noi siamo la terra del sole\ non la terra dei fuochi”, ma basta? E alla fine senza colpevoli.
La camorra è camorra, don Patriciello, che vive a Caivano, dove i boss si uccidono e si bruciano per strada, dovrebbe conoscerla. Gli agricoltori sono invece agricoltori. Spesso sono poveri, ma l’agricoltore che avvelena la sua terra è del tutto inedito.  
Maurizio Patriciello, Vangelo della Terra dei fuochi, Imprimatur, pp. 136 € 14