Dopo la Siria l’Ucraina? Che farà Obama?La domanda non è
nuova, gli Usa sono pur sempre gli arbitri della pace, ma il contorno è mutato:
non c’è mobilitazione, non c’è allarme. Il pericolo è vicino, è in Europa, è in
casa. Ma non c’è più sintonia con le rivoluzioni democratiche americane. C’è
anzi, al di là della gratitudine, della solidarietà, della comunanza d’intenti,
compatimento. Nei governi. Nell’opinione invece la domanda è: ma che vogliono?
La diffidenza prevale.L’Ucraina forse
non fa testo, è un caso speciale. Ci fu mobilitazione una dozzina d’anni fa per
la rivoluzione arancione, che invece si scoprì opera di maneggioni corrotti, tutti
finiti male. Ora, di fronte a una mobilitazione per aderire all’Unione europea,
e anche alla Nato, c’è piuttosto perplessità. Specie di fronte alla risposta
russa, che qui come in Georgia ribadisce che non vuole la Nato in casa. Un po’
come quando Kennedy si oppose ai missili di Krusciov a Cuba: Putin non è
Kennedy, ma i missili sono uguali, più o meno.Siria e Ucraina
sono del resto le ultime di una serie ormai innumerevole d’interventi umanitari
e per la libertà cui gli Usa hanno indotto l’Europa, senza costrutto. L’unico
esito è stato di tenere, per venticinque anni ormai, l’Europa al guinzaglio. E
non è da escludere che l’obiettivo non fosse quello. Sembra una balordaggine, e
lo è, ma non c’è altra verità.Se una ratio è possibile estrarre da un quarto
di secolo di guerre umanitarie è che esse si svolgono tutt’attorno all’Europa:
nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e nei Balcani, per tenere in soggezione l’Europa.
Sono interventi sempre coordinati con questo o quel paese europeo interessato,
la Germania in Jugoslavia e nel Baltico, la Polonia nel Baltico e in Ucraina,
gli screditati servizi segreti francesi e inglesi nelle guerre di liberazione
(Libia, Siria) e nello spionaggio elettronico. Ma senza altro senso che la
soggezione europea: tenere la Ue divisa e sotto pressione.
sabato 8 marzo 2014
Ombre - 211
La Polonia
chiede la mobilitazione della Nato contro la Russia. Bisogna voler bene alla
Polonia, per molti motivi, ma perché indurre sempre la catastrofe?
Il sindaco
Marino candida Rodotà all’Acea. E perché non all’Atac, alla spazzatura, al
dopolavoro costituzionale? Rodotà for President, suona bene.
Carlo Rossella,
presidente di Medusa, che ha prodotto e distribuisce “La grande bellezza”, non
perde minuto dopo l’Oscar per dire il film un ingrandimento di Dagospia e la rubrica
“Cafonal”. Con imbarazzo, s’immagina, di Roberto D’Agostino, editor
intelligente.
O l’anti-campagna
di Rossella è un altro trucco di Berlusconi - “parlatene male, ma parlatene”?
Diavolo d’un Berlusconi, s’infila dappertutto.
Ma perché
spendere per questo? Quello delle olgettine è proprio un vizio.
Infaticabile, l’onorevole Anzaldi, che rappresenta il Pd nella commissione Rai, protesta con la Rai e minaccia interrogazioni. Virginia Raffaele ha fatto a “Ballarò” l’imitazione di Maria Elena Boschi, ministra Pd, e questo non sta bene: è anticostituzionale, dice l’onorevole. Virginia può fare, come ha fatto, solo l’imitazione di Berlusconi, Carfagna, Pascale, la fidanzatina di Berlusconi, e il cagnetto della fidanzatina di Berlusconi.
Sorrentino
(in quanto regista della “Grande bellezza”, tributo a Roma), dopo Muti: la
cittadinanza onoraria di Roma trova sempre la destra reticente, cioè contraria.
L’incapacità culturale è un fatto e non un’opinione – l’incapacità politica
cioè: la destra si regge in Italia solo per Berlusconi.
Nel caso di
Muti le reticenze furono specialmente gravi, perché la sua chiamata a Roma fu
il solo titolo di merito dei cinque anni di Alemanno, l’unico sindaco di destra
di Roma. Sconfitto su Muti, Alemanno boccia Sorrentino.
Marco
Demarco dà lezioni di sinistra a Vendola sul “Corriere della sera”. Il mondo si
capovolge?
Fa gli
ascolti della serata “La grande bellezza” su Canale 5. Numeri non eccezionali, per la verità, ma il
segretario della commissione parlamentare per la Rai, il Pd Anzaldi, è furente:
“I telespettatori si sarebbero attesi di vedere il film premio Oscar sul
servizio pubblico”. Tutto pur di non ammettere che il film è stato prodotto da
Berlusconi, prima che mostrato.
La ministra
Maria Elena Boschi proclama: “I sottosegretari indagati restano al governo”.
Quelli del suo partito, il Pd. Il giorno dopo che ha costretto un
sottosegretario a dimettersi per motivi di opportunità, non indagato, solo accusato
da personaggi squalificati. Non del suo partito, del partito della ministra.
La vecchia
casta non si riteneva coperta dall’impunità.
O la bella
e prosperosa Boschi è provocante anche al governo, non solo a “Ballarò”? Non
passerà per sciacallo? Sembra che gli incisivi le si allunghino, a forza di
sorridere.
Particolarmente
odioso il raffronto tra De Basso de Caro, accusatore della ex berlusconiana De
Girolamo, e la stessa De Girolamo. Questa, non indagata, fu costretta a
dimettersi da Pd. De Basso de Caro, l’accusatore Pd, è indagato, ma lui è al
governo con diritto.
Non si può
dire “mafia dei giudici” perché è dominio di Berlusconi, ma come chiamarla?
“L’Europa
impari a non aver paura”, Bernard Henri Lévy incita: fa senso vedere un vecchio
“nuovo filosofo” alla testa di ogni guerra “umanitaria” di aggressione. Che ora
vuole l’Europa in guerra contro la Russia, nientedimeno. A tanto arriva il
gigionismo?
D’Annunzio
rischiava, era presente fisicamente, questo Lévy incita al coperto dei giornali,
remunerato.
Hanno
un’Aula Magna anche i servizi segreti, Aisi. Ci terranno i concerti? Le
riunioni plenarie?
A viso
scoperto?
È vero che
tutti hanno da qualche temo Aule Magne, e ci tengono ogni anno Inaugurazioni e
Prolusioni. Le Aule Magne hanno sostituito le Eccellenze. Sono più evocative?
È di
Vicenza, ma a quindici anni parla tedesco, ascolta Wagner, corrisponde con
Angela Merkel, ha un fidanzatino tedesco, dei tedeschi apprezza “l’ordine
mentale, il rigore, e la capacità di fare i conti con la storia”, cosi pensa,
essendo anche Alfiere d’Italia per aver pubblicato tre libri. Si appresta il
nuovo Italiano?
Umberto
Cottarello, “anima della Leopolda” – una delle tante per la verità, c’è anche
Pif, etc. – e quindi dell’avvento di Renzi, è lo sceneggiatore della “Grande
Bellezza”, che Berlusconi ha prodotto. L’arte unisce – prima o dopo i soldi?
“La Grande
bellezza” è piaciuto indistintamente dovunque è stato proiettato, in Gran
Bretagna, negli Usa, in Spagna. In Italia a metà. I commenti a mymovies non
vanno oltre il 3 (su 5): chi scrive è (giustamente) di sinistra e non può
apprezzare. Berlusconi obstat, un
arricchito: la divisione ancora c’è, tra parvenus
e buoni borghesi.
Dio è la parola che si perde
Dio è lo “Sgrammaticato” per
Luisa Muraro, benché Volto Santo, Assoluto e Immanente. In quanto, spiega Grazia
Villa nella prefazione a questa riedizione, ne “disfa e ridisfa a ogni
rilettura tutte le immagini”. Lo racconta “in lingua materna” in questa
raccolta: “È l’indicibile delle mistiche, è il non pensato della teologia
favolosa delle donne”. Dio anzi è solo delle donne, solo loro ne hanno avuto e
ne hanno conoscenza, per essere state mistiche, “dal Medio Evo al Novecento”.
Ma anche prima, perché no, le
vergini martiri per esempio, la lista si può allungare. E per essere madri no,
i soli esseri umani che creano qualcosa, creando figli? La filosofia del
femminismo non è molto innovativa, a parte il radicalismo – oggi si direbbe i
vaffa. Ma permette di raccontare molte storie. E Muraro ne ha raccolte molte, a
margine del suo filosofare la “differenza”, l’orgoglio di essere donna. Navigando
soprattutto fra le contemporanee, Simone Weil, Cristina Campo, Clarice
Lispector, e le anime pure della Resistenza, Sophie Scholl, Hetty Hillesum, in
aggiunta alle tante “visionarie” del passato, Angela da Foligno e Giuliana di
Norwich comprese, con l’incredibile Margherita Porete, l’altra santa che i francesi
bruciarono come strega. Una corona delle “amiche di Dio”: Luisa Muraro ha
inventato la categoria e le celebra.
La “celebrazione” non si può dire
meglio della prefatrice: “Una cavalcata, una corsa, una nuotata, reale o
sognata, attraverso parole grondanti, allegorie, immagini, vuoti, pieni,
silenzi, grida, estasi, abissi, pertugi, poesie, tutto l’incanto, la sorpresa,
l’amore delle amiche di Dio”. Vorace creativa, come tutto del Sessantotto,
Luisa Muraro ha appuntato questi umori trasudanti dalle sue letture “di genere”
in una raccolta cui diede forma unitaria una dozzina d’anni fa, sull’emozione
della lettura dell’ultimo approdo di Elvio Fachinelli l’anno della morte, nel
1989, “La mente estatica”. Tra la prima pubblicazione e questa riproposta, l’autrice
della “Indicibile fortuna di nascere donne”, nonché fondatrice a Milano della
Libreria delle donne nel 1975, si è
divertita con “Dio è violent”, senza il genere finale.
Tutto nasce in realtà, questa rivendicazione
di Dio, dalla ricerca impostata con la rivista della Libreria, “ Via Dogana n.
48”, a febbraio del 2000 sulla fine della religiosità, a partire già da
Leopardi. Quindi dalla scoperta della “diversità” anche in questo: “Com’è che
la scoperta del centro vuoto delle parole porta quelle donne non all’angoscia
mortale ma alla gioia? Com’è che le loro parole si arrendono non ala
conclusione logica del nichilismo (logica e nondimeno assurda) ma allo stupore
dell’estasi?” Queste donne “hanno un segreto che permette loro di saltare tutta
la questione dell’esistenza d dio, un segreto fra le parole, le cose e i corpi”.
Le mistiche come tutte le donne, si potrebbe dire, che hanno il dono della
creazione. Diremo che “Dio è qualcosa che può capitare” – esser-Ci, direbbe
Heidegger.
O meglio, l’innovazione qui c’è, tutta
una teologia e una filosofia – seppure en
passant, nella cifra scanzonata di Luisa Muraro: “«Dio» è una parola che
non ha senso se non si perde in altre, in tutte le altre, anche quelle mai pronunciate
o impronunciabili, come un loro nome comune, il più comune, come la parola
segreta di ogni essere che viene al mondo e di ogni essere che o lascia; un
lasciapassare, potremmo dire, e come la traducibilità stessa di questo mondo in
un altro e nell’infinità dei mondi possibili”.
Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Il margine, pp. 187
€ 15
venerdì 7 marzo 2014
Italia sovietica – 19
Il sovietismo è morto da venticinque anni, quasi, ma non
Italia - dove non c'era. Gli ultimi casi:
I detti di Renzi
Le canzoncine per Renzi
I balilla di Renzi
Olli Rehn
I titoli quotidiani: “Richiamo di
Bruxelles”, “Bruxelles fredda l’Italia”, “Monito di Bruxelles”.
Gli indagati Pd blindati al governo
La liquidazione di De Girolamo e
Gentile
Le confessioni di De Girolamo e
Gentile
La lingua biforcuta
Gli antipartito
L’Expo milanese pagata dagli
italiani, due miliardi di appaltiLa verità è anonima
Archiviato tra i saggi, il libello è la storia
di una lettera anonima contro un vecchio vescovo di Patti in provincia di
Messina, monsignor Ficarra. Cioè la storia della rovina del vescovo a causa di
una lettera anonima, finoalla rimozione da parte del Vaticano, con la
promozione, per dileggio, ad arcivescovo di Leontopoli di Augustamnica - che non esiste: una sede vacante là in partibus infidelium. Con una curiosità: “Nell’estate di quattordici
anni addietro”, premette Sciascia nel 1979 al racconto-saggio, “ ho immaginata
e scritta una storia di potere e di crimine che prendeva avvio, non per
estravaganza ma per interna funzionalità e necessità, da una lettera anonima
composta con parole ritagliate dall’Osservatore romano; oggi - d’estate e
nello stesso luogo - mi trovo a cominciare una storia vera da una lettera
anonima che a un ritaglio dell’Osservatore romano si impasta. E dico di più:
dal piccolo archivio di monsignor Ficarra che da persone che lo amavano mi è
stato confidato, mentre ancora in disordine stava sul mio tavolo, la prima cosa
che ho estratto è stata la busta azzurrina che conteneva la lettera anonima e
il ritaglio dell’Osservatore”.
Di che riscrivere la logica, e la via della
verità.
Leonardo Sciascia,
Dalle parti degli infedeli
giovedì 6 marzo 2014
Problemi di base - 171
spock
spock@antiit.eu
Perché
i bambini non impazziscono?
Perché
le rane non arrossiscono?
Perché
il coccodrillo non sbadiglia (si annoia ma non sbadiglia)?
Perché
Dio non ride?
Perché
non ridono i poeti?
O
sono maschere, in “Masterpiece”, devastate?
Le
guerre alla Russia finiscono male, perché riprovarci?
spock@antiit.eu
Un’Antimafia per l’Antimafia
Implacabile con
Gentile, Rosy Bindi s’è scordata degli altri quattro vice-ministri che hanno
grane giudiziarie, Del Basso de Caro, De Filippo, Bubbico e Francesca
Barracciu. Si può supporre perché Gentile è alfaniano e i quattro sono del suo
partito. Ma contro Gentile Rosy Bindi s’è pronunciata in quanto presidente dell’Antimafia.
Ora, Gentile non
è sospettato di mafia – né qui è indagato, è solo vittima di un’industria dei
media assistita. Mentre i quattro del Pd sono indagati, per abuso d’ufficio,
concussione, appropriazione (le varie “rimborsopoli”). Gentile rientra nelle
competenze della Bindi perché calabrese? È possibile. Per una superficiale come
Rosy Bindi è anzi probabile che calabrese sia sinonimo di mafioso. Ma c’è un
problema.
Il problema è
che la presidente dell’Antimafia si è fatta eleggere in Calabria. Perché “lì ci
sono i voti sicuri”, assicurò a chi le contestava la scelta. Mentre confessava
di non sapere nulla della Calabria. Più sicuri in Calabria della Toscana, dove
il partito di Rosy Bindi stravince sempre?
Una commissione
Antimafia ci vorrebbe sulla commissione Antimafia.L’anonimato nazionalpopolare
Fa un
quarto di secolo questa riesumazione di un divertimento del poco serioso autore
di “Cuore”, a cura di Giuseppe Marcenaro. Allora se ne parlava molto, l’anonimo
era “nazionalpopolare”, giornali integerrimi e giudici se ne facevano paladini.
Non
era una novità. Un quarto di secolo prima il procuratore Capo di Roma Luigi Giannantonio
aveva puntato l’industria di Stato per decapitarla e chiedeva denunce anonime,
facendosi fotografare con sacchi ai piedi di presunta posta. L’Eni sfuggì
all’offensiva spostando la sede giuridica delle sue società a Palermo. L’altra
settore dell’energia, il nucleare, fu decapitato con l’arresto di Felice Ippolito,
il dinamico presidente del Cnen (ora Enea), per aver utilizzato in vacanza a
Cortina una jeep aziendale – l’Enel stava nascendo. Usciva in quegli anni anche
“A ciascuno il suo”, il secondo romanzo giallo di Sciascia, con questo attacco:
“ - È una lettera anonima – disse il postino”.
Nel
1989 il “cancro delle anonime” era un tormentone di Andreotti nel “Bloc-Notes”,
la rubrica settimanale che tenne per quindici anni, dopo i governi del
compromesso storico e la sconfitta di Berlinguer, sull’“Europeo” di Lamberto
Sechi – “alla maniera di Mauriac”, diceva Sechi. Fra Mauriac e Andreotti c’era
qualche differenza. Andreotti è stato indubbiamente il maestro dei dossier in
Italia, anonimi, a carico di Fanfani, Segni, Moro, Cossiga. Ma è quello che fa
sapido il dossier “anonimo”. Andreotti, per esempio, sapeva già dei “pizzini”,
che abbiamo scoperto una ventina d’anni dopo: “È stato assurdo dare la dignità
della carta stampata a migliaia di foglietti privi di paternità pervenuti a suo
tempo alla Commissione antimafia”, scriveva – ammonendo beffardo: “Con la
scuola d’obbligo e il superamento dell’analfabetismo non ci sono più limiti”. E
seriamente: “È prevalsa l’opinione di chi confonde l’omertà con la tutela di un
costume civile”.
In un “Bloc-Notes”
del 24 febbraio 1989 Andreotti ha anche una curiosa perfidia a danno del
Procuratore Capo delle delazioni, di cui storpia il nome alla Totò: “Un
disinvolto personaggio si compilò denunce gravissime e false che fece avere a
Giannantoni. In modo che Giannantoni si eccitasse ma non trovasse niente.
Dopodiché – andava dicendo – «quando arriveranno i ‘veri’anonimi, gli sbirri di
Giannantoni gli diranno che sono un calunniato abituale»”. Implausibile che un
“disinvolto personaggio” andasse in giro a confidare i suoi trucchi. Ma l’“Europeo”
e Sechi, altro grande fustigatore, se non i lettori, evidentemente ci
credevano, credevano a Andreotti.
De Amicis
sembra uscito dal suo libro “Cuore”, in mezzo a tanta navigata perfidia. Ma
forse la cosa è caratteriale – sarà da catalogare tra i “caratteri originari”: “La
lettera anonima è la più alta forma di artigianato locale”, sbotta a un certo
punto Mastroianni in “Divorzio all’italiana”.
Edmondo
De Amicis, La lettera anonima
Roma alla Norma
Caltagirone agli
affari, Marino al Campidoglio, Pignatone a piazzale Clodio: la Sicilia presidia
Roma nei sui tre gangli vitali. Il comparaggio funziona anche per l’acqua
all’arsenico, l’acqua dei rubinetti. La cosa potendo coinvolgere il
Campidoglio, Pignatone se ne disinteressa. O per la rinuncia al contenzioso sui
costi della metro C: il costruttore essendo Caltagirone, Marino ha stabilito di
pagare.
Si può dire anzi Roma al passo della Sicilia. Abbonda all’improvviso anche la cucina alla siciliana, regina la pasta alla Norma, e la pasticceria, ovunque cassate e cannoli. Mancano i pizzini e i traggediatori, ma quelli sono ormai folklore. E i contorni già sfumano. Tutti sono criminali organizzati, eccetto chi sappiamo. Tutto è sfascio, eccetto alcune immobiliari, che costruiscono ovunque, sopra e sotto, cubature ad libitum. Col sindaco che sta lì ma come se non ci fosse, come a Palermo negli anni Cinquanta.
Allora sparì la Conca d’Oro, non è che costruiranno villa Borghese?
Si può dire anzi Roma al passo della Sicilia. Abbonda all’improvviso anche la cucina alla siciliana, regina la pasta alla Norma, e la pasticceria, ovunque cassate e cannoli. Mancano i pizzini e i traggediatori, ma quelli sono ormai folklore. E i contorni già sfumano. Tutti sono criminali organizzati, eccetto chi sappiamo. Tutto è sfascio, eccetto alcune immobiliari, che costruiscono ovunque, sopra e sotto, cubature ad libitum. Col sindaco che sta lì ma come se non ci fosse, come a Palermo negli anni Cinquanta.
Allora sparì la Conca d’Oro, non è che costruiranno villa Borghese?
Il sindaco di Roma Marino vuole cambiare il cda
di Acea (“il management non è nelle mie corde”, si esprime così), lo comunica
al consocio compaesano Caltagirone, e se ne frega degli altri soci, i
cassettisti, il colosso francese Edf.
Sarebbe aggiotaggio, Acea è in Borsa, ma Marino è compaesano pure di
Pignatone, il capo della Procura, e la cosa si derubrica a inesperienza.
La famiglia Esposito
Il giudice
Esposito che nell’affollata sessione estiva si prese il processo di Berlusconi
per condannarlo, è padre di due giudici, un maschio e una femmina. Belli, ma
non per questo ben collocati, lui a Milano, lei a Bruzxelles: sicuramente ci
sono arrivati per aver vinto il concorso, che è così difficile. La sapienza
giuridica è attestata in famiglia anche per via avunculare, lo zio Vitaliano essendo
stato Procuratore Generale, nientemeno, della Cassazione.I giudici in
Italia non hanno conflitti d’interessi. Si è anzi giudici gloriosamente di
padre in figlio e in nipote, e tra fratello e fratello, una Famiglia di Giudici
è un bel titolo. Se ne può quindi parlare con libertà, è un omaggio che si fa
alla nomea e il riconoscimento di un merito – se ci fosse una corte si direbbe
un blasone.I giudici
Esposito non sono politicizzati, nessun giudice italiano lo è, ma propendevano
per Berlusconi. Al fratello Vitaliano, il Procuratore Generale, il ministro concittadino
Nitto Palma aveva trovato per la pensione la carica di Garante della tutela
ambientale a Taranto – figurarsi. Che non vuole dire nulla ma comporta –
comportava – un appannaggio di 220 mila euro. Mentre l’Esposito figlio, bell’uomo
di belle maniere, e di bellissime macchine, se la spassava a Milano con Nicole
Minetti.Ultimamente però
i due fratelli avevano ribadito l’indipendenza della magistratura. Fino
all’esemplare condanna di Berlusconi il 9 agosto. Il figlio era stato
denunciato dalla Procura di Milano al Csm per la frequentazione di Nicole
Minetti, che la stessa Procura accusava di prossenetismo. L’appannaggio di Vitaliano
non era stato rinnovato dal governo Letta-Berlusconi. Questo succedeva a
giugno, il mancato rinnovo. L’11 luglio il Csm aveva assolto l’Esposito
milanese, gli incontri ribaldi rubricando “occasionali” – cioè a pagamento?
Dopo un’attesa di quattordici mesi, tre giorni dopo che il papà era stato
investito urgentissimamente del processo Berlusconi in corso da dieci anni.Perché parlarne
allora? Perché la Procura di Milano insiste a perseguitare l’Esposito figlio. Lo
ha denunciato a Brescia come debitore insolvente. Facendo sapere nell’occasione
che se la intendeva pure con Berlusconi, superindagato notorio, oltre che con
Minetti.Che altro
processo ha in mano l’Esposito padre? Perché, ovviamente, non si tratta di
ricatti.
mercoledì 5 marzo 2014
Secondi pensieri - 167
zeulig
Heidegger – Fu un poeta, secondo i due numeri storici di
“aut aut” 234 e 235, fine 1989 e inizio 1990. E più secondo la lettera dell’11
marzo 1964 al colloquio su “Pensiero e linguaggio non oggettivanti nella
teologia moderna”, tenuto all’università Usa di Drew (ora in apertura alla
raccolta “Segnavia”). “Come esempio di un pensiero e di un dire non oggettivanti
per eccellenza può servire la poesia”, esordisce Heidegger, e pronto richiama
Rilke – “il canto è esistenza”, Gesang
ist Dasein. “L’essere può mostrarsi in diverse modalità”, ma quella poetica
ne è una sorta di radice comune: il dire poetico è diverso, è “poetante”,
fattivo. “Il dire poetante è «esistenza». Questa parola «esistenza» è qui usata
nel senso tramandato dalla metafisica. Significa presenza. Il dire poetante è presenziare presso… e per
il dio”.
In
realtà, la rivista somma il rapporto di Heidegger con René Char, che fu attivo
nella Resistenza (e non con Celan?), le
sue letture di Hebel, Rilke, Hölderlin, Trakl, e la lettera-saggio “Che cos’è
la poesia”. Questa soprattutto nel corpo a corpo di Ferraris con Derrida,
heideggeriano beffardo. Con innumerevoli declinazioni dell’“istrice”, il
porcospino, il piccolo roditore che si vuole, potendosi appiattire, ovunque – e
anche un po’ imbroglione nella favola di Grimm “La lepre e l’istrice”.
Ma, poi,
anche lì si vira al politico, direttamente, senza ironie. “Perdoni la
trivialità della domanda”, dice da ultimo il dottorando Ferraris a Derrida, “che
del resto mi sembra inevitabile in un ragionamento sopra Heidegger e la poesia:
non è convenzionale e insomma squallida la figura di uno Heidegger che, deluso
e battuto dalla politica fa vela verso la poetica, trovando nell’Arcadia il
porto sicuro?” Sì, è la risposta di Derrida – al modo di Derrida (“sì e no, e
chissaché”): “Fa vela, come dice lei, verso una poetica che è anche un
attracco, un porto d’attracco politico lo Hölderlin del Reno e di Germania”.Cioè:
Heidegger si fa poeta in chiave nazionalistica, torcendovi Hölderlin – che
però, ha notato Gadamer (“I sentieri di Heidegger”), “sciolse la lingua” al
filosofo..
Pochi
ricordano che il Filosofo fu poeta in senso proprio, pubblicò curate raccolte,
a partire da Lo splendore morente,
esordio crepuscolare.“Weg und Waage,\Steg und Sage\finden sich in
einen Gang”. È Palazzeschi? “Geh und
trage\ Fehl und Frage\deinen einen Pfad entlang”. Bang,
bang è l’esperienza del pensare, ingegnosa, di classici trochei, con rime,
paronomasie e allitterazioni. Intraducibile, irriducibile – l’essere non c’è
eccetto Heidegger, è questa l’ontologia fondamentale? “Passo e pesa\sasso e
ascesa\si ri-trovano allo stesso viaggio.\Va e palesa\Squasso e
intesa\seguitando il tuo passaggio”, oscenità solitaria: va e ritorna, lungo
l’unico fico lingam.
Il
“pensiero poetante” è da professor Pascoli devoto, che ha avuto anche lui vita
segreta, sebbene da scapolo, o di uno Stil Novo che fosse carnale, appassionato
e lirico.
Incomunicabilità - Non c’è dal
momento che è materia di discorso. Ci sono “cose” incomunicabili.
Masse –
Procurarsi il pane distruggendo la panetteria: tale è il criterio
d’individuazione-azione che Ortega y Gasset ne enuclea nella “Ribellione delle
masse”. Reazionario. Però?
Paradosso –
“Non capisco quelli che si rifugiano nella realtà perché hanno paura di
affrontare la droga”: il paradosso di Tom Waits è inattaccabile da ogni punto
di vista. Sintattico, logico e, chissà, etico. Il paradosso non è più paradossale:
nell’età della globalizzazione (intercultura) e della comunicazione breve,
brevissima, e interattiva è la forma assertiva per eccellenza. Incontestabile.
Ci sono
fasi storiche in cui la conoscenza sopravvive, dissimulando.
Ragione
– La natura è ragionevole – ha delle leggi. L’uomo no, è imprevedibile. E
dunque l’uomo è innaturale?
Saggezza
- È la
stupidità dei più - umana? Non l’incapacità ma al contrario, l’arroganza, la
pretesa di sapere. Quando si sa poco o nulla - giusto il giorno, la notte, la nascita,
la morte.
Stupidità
– Si
declina in molti modi, dal candore all’orgoglio.
È indefinibile? Jerphagnon, lo studioso di
sant’Agostino, la dice “polimorfa e onnipresente”, e propone di non definirla, scusandosi
col dirla “naturale”. Che è però un pleonasmo, tutto è naturale se esiste: il filosofo è turbato dal suo
carattere ubiquo, fin nei fondamenti della saggezza.
Suicidio - San
Tommaso Moro ne fa l’esito dell’Utopia
qualora uno diventi “nocivo a se stesso e agli altri”. In Inghilterra, che
allora ne deteneva il record, Montesquieu nota che il suicidio era più
frequente “verso l’inizio e la fine dell’inverno, per un vento di Nord-Est che
rende il cielo nero e affligge i corpi più robusti”. In linea col quadro di
Morselli a Durkheim: i maschi si uccidono più delle femmine, gli alti più dei
bassi, e di più in Europa centrale, dove ci sono meno pazzi - “invece che
predisporre al suicidio, l’idiozia ne è un preservativo”. Il professore
delimitò in Europa un rettangolo del suicidio, tra il 47° e il 57° di
latitudine e il 20° e il 40° di longitudine, incluse alcune zone limitrofe,
Nord Italia, Belgio e Sud inglese. Resta problematico il quando. Montaigne
censura Cassio e Bruto, che “finirono di perdere i resti della libertà romana,
di cui erano protettori, per la precipitazione e l’imprudenza con cui si
uccisero prima che fosse opportuno”.
Le pene sono sempre state severe per i suicidi, benché ovviamente
morti. Il reverendo Donne ricorda come le vergini di Mileto, martiri volontarie,
fossero esposte nude. Tarquinio Prisco volle i suicidi esposti agli uccelli e
altre bestie. Per Severo la pena arriva in forma di festa, placata.
E sarà vero che la morte è ricorrente.
All’anagrafe arriva una volta sola nella vita – o per una volta è accertata,
per incidente o sfinimento. Ma ognuno muore in effetti più volte, incluso in
forma di suicidio, del rifiuto degli altri per rifiuto di sé, per cattiveria,
sfida, follia, e per tara biologica, perché no. Gli altri, i fortunati, forse
non hanno nulla da perdere.
Vendetta
– Non
vuole essere equanime, e anzi si realizza nell’eccesso, meglio nella
radicalità, la cancellazione dell’offesa attraverso la cancellazione
dell’offensore.
Nasce dal sentimento del sé offeso. Etnico-tribale
nel vecchio “delitto d’onore” e nelle faide, rancoroso in quello personale.
Nutrito come pilastro della saldezza dell’io, ma indenne all’autocritica. Per
questo non onorevole, in tutte le forme, compresa Medea naturalmente, benché
maga.
La magnanimità è autocritica: non dimentica le
offese ricevute ma non trascura quelle che ha arrecato. Ma è un non fare. La
vendetta opera all’opposto: non si fa un torto di sé, e anticipa, innesca, provoca
delle risposte. Assolvendosi col diritto-dovere di ristabilire un equilibrio
oltraggiato, ma in realtà dissolvendolo.
È spesso caratteriale – si sarebbe detto per
influsso degli “elementi”. Non si innesta su un’offesa, né vi si commisura, ma
è un modo d’essere, di pensarsi: attivo. Violento. È però anche etnica, uno dei
“caratteri originari”, anche se per stratificazioni storiche, cultuali, “culturali” e non naturali. O può la natura
dividersi in magnanima e vendicativa?
zeulig@antiit.eu
Recessione – 16
Tutto quello che dovreste sapere ma si tace:
Il pil 2013 è inferiore al pil
2000. L’Italia ha perduto in quattro anni di recessione tredici anni di
crescita.
L’Italia è l’unico paese in Europa, Grecia compresa, in cui nel 2013 sono diminuiti rispetto al già critico 2012 sia gli investimenti, di un 5 per cento, sia i consumi, di un 2,5 per cento..
Mezzo milione di occupati in meno nel 2013 rispetto al 2012. Non è la perdita record – nel 1995 andarono persi più posti di lavoro. Ma è la sesta perdita consecutiva annua di posti di lavoro.
La disoccupazione nel primo trimestre 2014 sarà oltre il 13 per cento. È il valore peggiore dal 1950 circa, finita la ricostruzione nell’immediato dopoguerra e avviato il boom, con l’emigrazione interna.
Mai la disoccupazione era stata “a due cifre” dopo il 1950, eccetto che nel biennio 1988-89 (sfiorò il 13 per cento), prodromo alla crisi monetaria e a quella politica.
La disoccupazione era al minimo storico, 6,1 per cento della forza lavoro, nel 2007, prima della crisi.
Il passaggio fu molto lento al precedente picco negativo della disoccupazione: diciassette anni dal 6 per cento del 1972 al 12 per cento del 1988. Con l’euro sono bastati sei anni, dal 6,1 per cento del 2007 al 12,7 per cento del 2013. Sarebbe stato peggio o meglio senza l’euro?
L’Oscar all’antipatia, donna, cinquantenne
Cate Blanchett che prende il testimone dei premi
Oscar da Meryl Streep è un segno sinistro: nel matriarcato americano la cinquantenne
è antipatica a tutti, oltre che a se stessa. A Woody Allen per le note
biografiche, ma anche alle centinaia di giurati degli Oscar, evidentemente. Non
sa essere madre, né moglie, né amica, in questo caso nemmeno sorella, ipocondriaca,
supponente, egoista, un’idrovora,
insaziabile, insensibile. Forse nemmeno psicopatica.
Woody Allen ha creato infine, non
volendo?, la tragedia greca di tanti suoi scherzi. Premiato dall’esito, oltre
che dall’Oscar, per avere osato: le sue identità smarrite, un po’ innocenti un
po’ bugiarde, le ha ulcerate in Jasmine-Blanchett. Su uno fondo sociale alla Altmann, o alla Tennessee Williams, della way-of-life in bella e brutta copia, seducenti e repellenti,
ricchi e poveri ugualmente stolidi, nell’etica e negli affetti.
Woody
Allen, Blue Jasmine
Vita triste sotto gli ulivi, nel Sud senza luce
Lettura
obbligata per riconoscimenti molteplici, etnici, onomastici, toponomastici, di
comuni origini - a parte il parroco in bicicletta per le vie di Paracorio, una specie di don Matteo: impossibile, Paracorio è su un costone. Più volte interrotta per la ripetizione, l’insistenza, il verismo
quasi in berlina, tra la “roba” e le disgrazie. Ripresa per la forza narrativa di cui Gangemi, malgrado tutto, dispone. Che fa
vivere la storia senza il pregiudizio – l’odio-di-sé meridionale, la borghesia,
il dannato della terra, le invidie sociali. Ma le nascite, le morti, le
malattie, e il raccolto che è sempre insoddisfacente, la vita si svolge per
lunghe pagine come un grumo indissolubile, nero di affanni, disgrazie,
cattiverie.
L’editore
lo vuole un racconto “del fascismo e delle colonie, delle guerre mondiali,
della ‘ndrangheta delle origini, del passaggio epocale verso il progresso”, che
però c’è poco o nulla. È la storia di una famiglia come luogo chiuso, con poche,
casuali aperture all’esterno, quasi tutte malevoli. Eccetto che per gli irregolari:
emigranti, rivoltosi, malandrini. Che potrebbe essere – lo era – un dato
culturale, ma neanche questo taglio adotta il narratore. Il pattern
è l’aneddotica minima della memorialistica compiaciuta di paese, dei vecchi di
paese o dei nullafacenti incontinenti, in un pulviscolo di nomi, parentele, punti
di riferimento che si perdono. Un esercizio di bravura, se si vuole, di scrittura, irretito dal suo soggetto. Anche se alla fine il
tributo s’impone, emozionato, alla memoria - indipendentemente dall'economia del racconto, per fatto personale. Seppure recente, e già
anestetizzata, quasi folklore: nel 1962, quando Giuseppe muore, sulla cui vita
la storia si è dipanata, la barbarie di fatto impera, nei rapporti sociali, d’affari,
familiari, che il ritmo elegiaco della narrazione trascura.
È un libro del buon ricordo, della vita ricca e povera, un secolo fa, senza strade, senza luce, elettrica e spesso nemmeno dell’animo, delle balze dell’Aspromonte sulla valle delle Saline, ora piana di Gioia Tauro. Luogo degli uliveti giganti, anch’essi senza luce – Gangemi ne ha scritto qui, involontariamente?, infine il poema. Tra le molte pagine verghiane, di maniera, tranches de vie baluginano che si ricordano. Dei modi di essere, degli usi, dei caratteri. In una certa misura anche dei linguaggi, sebbene appiattiti dalla sociologia del riscatto. Dei silenzi per esempio, dei figli nei confronti dei padri, dei padri. Delle passioni irragionevoli. Delle collere. Dei presentimenti. Che sempre sono tristi. Con gli incredibili snobismi delle società chiuse, le gradazioni infinite di onorabilità, non più quarti ma decimi e centesimi, e corrispondentemente di rivalsa. Sul nulla, il tanfo di stantio. E l’impossibile scambio, che sarebbe rigenerante, con chi si sottrae o si rifiuta.
Mimmo
Gangemi, La signora di Ellis Island, Einaudi, pp. 625 € 19,50È un libro del buon ricordo, della vita ricca e povera, un secolo fa, senza strade, senza luce, elettrica e spesso nemmeno dell’animo, delle balze dell’Aspromonte sulla valle delle Saline, ora piana di Gioia Tauro. Luogo degli uliveti giganti, anch’essi senza luce – Gangemi ne ha scritto qui, involontariamente?, infine il poema. Tra le molte pagine verghiane, di maniera, tranches de vie baluginano che si ricordano. Dei modi di essere, degli usi, dei caratteri. In una certa misura anche dei linguaggi, sebbene appiattiti dalla sociologia del riscatto. Dei silenzi per esempio, dei figli nei confronti dei padri, dei padri. Delle passioni irragionevoli. Delle collere. Dei presentimenti. Che sempre sono tristi. Con gli incredibili snobismi delle società chiuse, le gradazioni infinite di onorabilità, non più quarti ma decimi e centesimi, e corrispondentemente di rivalsa. Sul nulla, il tanfo di stantio. E l’impossibile scambio, che sarebbe rigenerante, con chi si sottrae o si rifiuta.
martedì 4 marzo 2014
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (199)
Giuseppe Leuzzi
Al
processo di Palermo del giudice Montalto sfilano i pentiti più inattendibili. Perché
l’accusa li presenta. Perché il Tribunale gli fa da quinta?
Il
“Corriere della sera” scopre “la bella e negletta casa del Manzoni”. A Milano, la
sua città. Una casa che “affaccia su piazza Belgioioso”, indirizzo storico.
Negletta
è un eufemismo, dalle foto sembra una catapecchia. Ma per una volta ci è
risparmiato lo sdegno: Milano non si critica.
A
una settimana dall’appello a salvare la casa del Manzoni, si fa vivo Giovanni
Bazoli, il presidente di Banca Intesa, il primo gruppo bancario. Intesa è
disposta a intervenire, dice Bazoli, a condizione che altri condividano la
spesa. Il costo stimato della ristrutturazione è di 6 milioni. Emozione sì, ma con juicio.
Platone,
“Gorgia”, nella discussione tra Callicle, giovane e volenteroso, e lo scettico
Socrate, al punto in cui si cita Euripide (“chi può sapere se il vivere non sia
morire\ e se il morire non sia vivere?”), immette a peggiorare le cose un
Siculo, o Italico: “Un ingegnoso facitore di miti, forse un Siculo o un
Italico, ha giocando sulle parole chiamato «orcio senza fondo» la parte
dell’anima dove stanno le passioni, nelle persone sprovvedute di giudizio, per
la sua facilità a farsi trascinare e persuadere”.
Il
riferimento sarebbe preciso, al pitagorico Filolao e a Empedockle di Agrigento.
Ma il “facitore di miti”, a fronte dei creduli? Già Platone aveva scovato il
Siculo-Italico – per di più col perfido “forse”.
Nell’invenzione dell’albo
d’oro della ‘ndrangheta non manca la filologia, con le etimologie. Ma qui con
qualche intoppo: anandria era in greco la viltà – il non essere uomo.
Ma non è Milano
Riccardo
Muti, cacciato da Milano, crea nella vituperata Opera di Roma, litigiosa,
nullafacente, indebitata, Roma cialtrona, si sa, un rinnovato Puccini e una
“Manon” che lasciano stupefatti e commossi il pubblico, che non finisce di
applaudire, e i critici. Solo il sovrintendente della Sacla, Pereira, si aggira
disorientato: lui Anna Netrebko, con Muti a Roma una Manon da sogni reiterati,
voluttuosa e abbandonata, sonora e smarrita, imperiosa, appealing e immutabilmente triste, nelle arie e nei recitativi, un
sorta di presenza cosmica, l’aveva proposta, per Mozart a Salisburgo col
grembiulino da pornocameriera, e l’italiano deformato delle sventurate dell’Est.
I
critici, convenuti in frotte da Milano, ne hanno preso atto entusiasti. I giornali
sgomenti hanno smorzato i toni, con titoli generici, ma l’emozione traborda dai
testi. Perfino il sospetto di nepotismo si riesce a cancellare lontano da
Milano: la regia di Chiara Muti, figlia del maestro, è anch’essa esaltante, evocativa,
memorabile, di più a petto degli insulsi “ammodernamenti” che i critici venuti
da Milanno hanno dovuto subire alla Scala.
Pentiti
Luigi
Lombardi Satriani progettava nel 1990 un libro sulla delazione come fenomeno
antropologico italiano. Ne parlò con Denise Pardo de “L’Espresso”. A proposito
della lettera anonima, e della più generale vigliaccheria quando è garantita
dall’impunità. Poi ci furono i pentiti di mafia e il libro non fu più scritto.
Nel “Giudice meschino” di Mimmo Gangemi
sceneggiato per la Rai, Giancarlo De Cataldo accentua il ruolo di un boss che
dal carcere, giocando al pentito con un giudice consenziente, sgomina la
concorrenza. Altro che pizzini e telefonate in codice.
L’espediente fa molto giallo alla Chandler (le cui ambientazioni morbide il film ricopia, Reggio come una piccola San
Francisco),
dell’innocenza smarrita, impossibile – al “suo” giudice il boss può far sapere
anche che l’amico di una vita è colluso. Ma politicamente corretto? Il
pentitismo non ci salva.
Doppiamente
scorretto se il sottinteso è che certe cose possono accadere solo a Reggio
Calabria.
E
perché a Palermo, in attesa della condanna dello Stato mafioso, non si fa nulla
contro la mafia? Non si prendono più latitanti, non si confiscano patrimoni,
solo si fanno processi di routine - con assoluzione - ai berlusconiani?
Don
Patriciello e Marco Demarco, “il grande demistificatore dei miti
politico-culturali nati al Sud” (Aldo Cazzullo), pubblicano un libro, “Non
aspettiamo l’Apocalisse”, sull’esigenza di fare, non aspettare, darsi una
mossa. Ma credono a Schiavone. Fermamente. Anche quando s’inventa che faceva il
professore all’università – è un ex capo camorrista, da vent’anni fa il pentito.
In un apposito capitolo, anticipato il 16 febbraio, don Patriciello ne parla
con emozione.
Perché
l’antimafia – certa antimafia, questa antimafia – fa così largo credito ai
pentiti? Che non sono uomini d’onore. A un pentito basta conquistarsi la
fiducia di un giudice, poi può dire qualsiasi cosa, anche negare di averla mai
detta.
Non c’è un Nord al Sud - 2.
Nord e Sud più che una divisione interna è europea. Più saldamente: da più tempo e con più virulenza. E con maggiori appigli. Anche per l’effetto quisling generato nella lunga tenzone: se la squalifica del Sud deve molto ai meridionali emigrati, quella del Sud Europa deve molto ai Nord-del-Sud. La subordinazione Nord Europa-Sud Europa è stata in parte creata, e del tutto recepita, dal Nord provinciale, lombardo per lo più.
Nord e Sud più che una divisione interna è europea. Più saldamente: da più tempo e con più virulenza. E con maggiori appigli. Anche per l’effetto quisling generato nella lunga tenzone: se la squalifica del Sud deve molto ai meridionali emigrati, quella del Sud Europa deve molto ai Nord-del-Sud. La subordinazione Nord Europa-Sud Europa è stata in parte creata, e del tutto recepita, dal Nord provinciale, lombardo per lo più.
L’Italia
era nell’Unione Europea promotrice e senza complessi, a opera del messinese
Gaetano Martino. Che lanciò l’idea, quando fu per un periodo ministro degli
Esteri, e promosse la riunione da cui prese l’abbrivo la Cee proprio a Messina,
nel 1957. Milano e Torino, che all’epoca contavano molto, nicchiavano. Quando
videro che la cosa era d’interesse della Germania e della Francia, e quindi si
faceva, se ne assunsero il comando. E fu la fine dell’Italia.
In
tutti gli adempimenti comunitari, la politica agricola, l’emigrazione, la
circolazione dei capitali, il Sud Italia fu jugulato per (l’illusione di)
vendere qualche macchina Fiat in più oltralpe. L’opinione instaurando, prima
che la prassi, di un Sud inaffidabile, confusionario, e imbroglione. Per Sud
intendendosi l’Italia. “Tenersi aggrappati all’Europa”, intimavano Agnelli e
Cuccia, proponendo essi stessi per primi un’Italia da bassa classifica, e quasi
estinta.
La mafia immacolata
Da
una generazione, poco più, le mafie sono organizzazioni finanziarie prima che
sanguinarie. Cioè: sono sempre sanguinarie, anche per il più piccolo “sgarro”, ma
il loro tempo e le strategie sono a pensare lungo, lontano, e “scorporato”,
smaterializzato in un qualche corporation,
meglio se finanziaria oltre che anonima.
Poiché
sono di moda le storie della mafia - che invece non ha storia, è delinquenza
“pura” – se ne possono tentare tre periodizzazioni, una terza aggiungendo alle
due “classiche”, di Leonardo Sciascia: la vecchia mafia di campagna, l’onorata
società, degli uomini d’onore, tanto simpatica, e quella metropolitana del
pizzo, delle lottizzazioni e della droga, improvvisamente miliardaria e spietata.
Una terza s’è aggiunta, l’Anonima. Pino Arlacchi l’ha teorizzata già quarant’anni
fa in senso proprio, guridico, come “mafia imprenditrice”, sulla base dei processi
imbastiti a Reggio Calabria dal giudice Agostino Cordova, poi Procuratore Capo
di Palmi. Ora anonima anche in senso figurato.
Si
fa finanza, ovunque se ne vedono i gorgogli, i mastici, i collanti. Prestiti.
Senza nemmeno usura. Prestito a basta. Ai ludopati, che spesso sono
albergatori, ristoratori, dettaglianti: al poker, per esempio a Roma. Ai
cocainomani, che sono tanti, i più a Milano e nel retroterra. A volte di nome,
qualche cantante d’opera non più en
beauté, qualche ex vedetta della tv. Anche a persone innocenti, per
comprarsi la casa, per pagare il matrimonio della figlia. Ma sempre per il
business.
È
così che moltissimi esercizi commerciali a Roma hanno cambiato padrone, specie
della ristorazione. Molti anche di nome. Dove il cliente malgrado tutto fedele
si ritrova gestori a ogni evidenza incapaci, perché sono persone di fiducia
delle cosche. Con effetti di transustanziazione, si potrebbe dire se non fosse
blasfemo: nelle confische che ora si moltiplicano dei beni di mafiosi non
compare mai una banca o una finanziaria, solo capannoni, terreni e immobili,
magari già dati in pegno a qualche banca.
È
questa una terza mafia anche in senso genealogico. La mafia moriva col mafioso.
Da una- generazione o due si vedono i mafiosi figli, specie in Calabria e in
Campania. Ora abbiamo le dinastie mafiose, o quasi: con i nipoti al posto dei vecchi
“consigliori”, avvocati e gestori patrimoniali, e quasi immacolati se non
ripuliti.
leuzzi@antiit.eu
Divertirsi col Dante eretico, seriamente
Un volume
costruito in forma di parodia, come piace a Eco – ma robusto. Tra echi,
proporzioni, inversioni di senso (specchi). Apre Eco, chiude Asor Rosa. A
seguire, dopo Eco, e prima di Asor Rosa, la prefazione e la conclusione della
curatrice – un “doppio abbraccio” insinua il wikipedista, molto al modo di Eco.
Il titolo anagramma i Fedeli d’amore.
Il titolo è
opera di Bartezzaghi, Eco avverte nell’introduzione. Che conclude con questa
nota: “Confido che lettori sospettosi non traggano illazioni esoteriche dal
fatto che le autrici sono 7. Più due autori, all’inizio e alla fine, si arriva
a 9. Prefazione, ricerca e appendice fanno 3. Alberto Asor Rosa è stato
invitato a commentare il lavoro per le sue competenze d'italianista e non per
il chiasmo onomastico che mirabilmente epitomizza la mistica ossessione degli
adepti del volume. Parimenti, è casuale il fatto che la differenza tra Um e Al
sia data dal fatto che il secondo nome trae le sue lettere dalla prima metà
dell'alfabeto e il primo dalla seconda” – Um(berto) e Al(berto). Eco non ci
crede. È suo dovere non crederci, è scolastico ortodosso. Ma ci ha prosperato,
in romanzi e ricerche, anche non parodistiche, dal “Nome della rosa” in poi.
Qui, nove (!) anni dopo “Il nome della rosa”, tiene accesi i riflettori con un
mastodontico reappraisal.
La raccolta
non è infatti uno scherzo. Né l’ennesimo repertorio delle letture esoteriche di
Dante. È una esercitazione sulla “semiosi ermetica” sviluppata da Eco nei suoi
corsi a Bologna dal 1986. Partendo dall’assunto, “incontestabile”, che gli
esseri umani pensano “sulla base di giudizi e identità”, Eco proponeva un
“paradigma della somiglianza”: “Una pratica interpretativa del mondo e dei
testi basata sull’individuazione dei rapporti di simpatia che legano
reciprocamente micro e macrocosmo”. Se non che dall’“analogia universale al complotto
e al segreto” il passo è breve, il segreto chiama segreto: “Una volta messo in
azione il meccanismo dell’interrogazione analogica, non vi è garanzia
dell’arresto”. Tutto è peraltro plausibile perché tutto è legato. Una
contraddizione evidente – che Popper aveva già messo in luce: “In un universo
in cui non valgono i rapporti casuali lineari, ma ciascuna cosa determina tutte
le altre, e ne è determinata, ci si
trova esposti alla più occulta… delle tirannie causali. Qualcuno trama sempre
alle nostre spalle”.
L’armamentario
che Eco individuava è poi divenuto di accezione comune. La “sopravvalutazione
degli indizi”. La legge del sospetto. L’“eccesso
di meraviglia”. Il post hoc ergo propter
hoc. Grazie più spesso al “terzo testo archetipo”, ce n’è sempre uno che è
all’origine di tutte le cose, e quindi dei testi sotto esame altrimenti non collegabili.
Tutto insomma si regge. A dimostrazione, Eco porta il caso di René Guénon, che
tutto lega, senza contraddizioni apparenti.
Ma non su
tutto questa epifania ermetica si esercita: “Il gioco della lettura sospettosa
e dunque di un’interpretazione indubbiamente eccedente” si scatena sui testi
divenuti “sacri” per una certa cultura. Dante non è propriamente sacro, ma è comunque
“oscuro”, quanto basta per scatenare quelli che Eco chiama infine spregiativamente,
dopo tanto filosofare, gli “Adepti del Velame”. E che classifica, a proposito
di Dante, in occultisti (Guénon), complottardi (Rossetti, Aroux, Valli) e
protostrutturalisti per eccesso (Pascoli) – e i numerologi-pitagorici?
Su questa
traccia, “l’eccesso delle pratiche di interpretazione sospettosa”, o di
sovrasenso, Eco ha disseminato un branco di astute “cacciatrici di falsità” –
alcune ispanizzanti, piace pensare sulle orme di Maria Zambrano, che il “Dante
eretico” perseguitò fin da ragazza: Maria Pia Pozzato, che cura il libro (Luigi
Valli e i Fedeli d’Amore), Helena Lozano
Miralles (Rossetti e il “paradigma del velame”), Maria R. Lacalle Zalduendo (Eugène
Aroux), Sandra Cavicchioli (Pascoli), Cinzia Bianchi (Benini e la numerologia);
Claudia Miranda (“Guénon o la vertigine della virtualità”), Regina Psaki
(critici ortodossi e allegoristi). La raccolta si completa con una bibliografia
anche per palati difficili – da cui manca proprio Zambrano: l’esoterismo è un
parco incontornabile.
Maria Pia
Pozzato, a cura di, L'idea deforme.
Interpretazioni esoteriche di Dante.
Renzi se la gioca sulla giustizia
Il senatore
Gentile c’è andato di mezzo ma solo per non essere del Pd – che per il Pd
equivale a essere un fantoccio (compreso il Pd calabrese che in Calabria non
esiste). Il meno colpevole in una ribalda vicenda di fallimenti e provvidenze,
ma personaggio remoto, un calabrese, per di più socialista e berlusconiano. Un
fantoccio comodo a Rosy Bindi, l’intemerato Zanda e gli altri “pidisti” ultimativi.
Ma il bersaglio grosso è Renzi, in serbo per il quale i vice-ministri Barracciu
e Del Basso de Caro restano sotto tiro. Sempre che non si vada a votare – i due
sono portatori di voti.(La vicenda Gentile,
eretta a libertà di stampa, è minima cosa, di bassa corte di provincia. Di un’industria
editoriale che vive di soldi pubblici. A opera di “imprenditori” della politica,
a base di ricatti – sbruffoneggiano, si registrano, e si mettono online. Lo
stampatore è noto per essere stato missino e berlusconiano, per questo quindi a
capo della finanziaria regionale - con la quale si è attribuito contributi per
6 milioni - e ora, per non perdere il posto, alfaniano. Tortuosamente analogo,
sull’altro versante politico, il percorso
dell’editore).Renzi d’altra
parte sembra gradire la sfida. Poiché ha nominato alla Giustizia due che
Pignatone e la Procura di Milano non gli perdonano, Cosimo Ferri e Costa. Sapendolo.
Per le elezioni? Sembra che si debba andare a votare a ogni mossa di Renzi, già
sull’Italicum, che pure era stato già mezzo votato alla Camera. Andare al voto
con Renzi che agita la giustizia, invece di Berlusconi, e invece degli scomodi fisco
e lavoro, è un’idea che collima con l’uomo, col suo fiuto.
lunedì 3 marzo 2014
Le divisioni della Germania
L’Ucraina divisa
sarà stata l’operazione più agevole, ma non è l’ultima. Una nuova Europa si va ridisegnando
da un venticinquennio attorno all’egemonia tedesca. Resta in attesa il Belgio,
qualora la nuova politica, di allineamento su Berlino invece che su Parigi, non
risultasse adeguata. La Svizzera si è premunita col referendum anti-stranieri,
ma non è detto che basterà.Il primo passo
fu effettuato dalla Germania appena riunificata a spese della Jugoslavia,
promuovendo una serie di secessioni all’insegna del marco. La Germania, venendo
da una divisione, sa come si inoculano e si tengono vivi i suoi veleni. Il
secondo la pronta divisione della Cecoslovacchia.Procede, muto ma
schiacciante, il ridisegno della carta europea attorno alla Germania. In Jugoslavia,
Cecoslovacchia, e ora in Ucraina, l’attrazione tedesca si esercita su
popolazioni slave e non tedesche. Ma è lo stesso forte, anche se non è etnica. La
Germania è peraltro l’unica nazionalità forte oggi in Europa, non contestata e
anzi adesiva, attraente.
Costante della nuova Germania dopo la riunificazione, dei governi moderati come di quelli di sinistra, di Schröder come di Angela Merkel, è la proiezione continentale invece che atlantica. Ciò presuppone una politica di buon vicinato e anzi di asse con la Russia. Nella proiezione verso il grande continente euroasiatico che s’intende il futuro. Ma in questa prospettiva, a bilanciare il sovrappeso russo, la Germania s’irrobustisce a sua volta, con stati e staterelli confederati di fatto, utili intanto del day-to-day dell’euro e il mercatino europeo.
Un fantascienziato politico potrebbe argomentare tra dieci anni una Catalogna indipendente “seconda casa” tedeschi. Tra cinquanta una Slesia autonoma dentro una Polonia confederata. E\o un’Alsazia-Lorena indipendente in una Confederazione del Reno. Tra cento un Lombardo-Veneto indipendente, cioè pangermanico.
Costante della nuova Germania dopo la riunificazione, dei governi moderati come di quelli di sinistra, di Schröder come di Angela Merkel, è la proiezione continentale invece che atlantica. Ciò presuppone una politica di buon vicinato e anzi di asse con la Russia. Nella proiezione verso il grande continente euroasiatico che s’intende il futuro. Ma in questa prospettiva, a bilanciare il sovrappeso russo, la Germania s’irrobustisce a sua volta, con stati e staterelli confederati di fatto, utili intanto del day-to-day dell’euro e il mercatino europeo.
Un fantascienziato politico potrebbe argomentare tra dieci anni una Catalogna indipendente “seconda casa” tedeschi. Tra cinquanta una Slesia autonoma dentro una Polonia confederata. E\o un’Alsazia-Lorena indipendente in una Confederazione del Reno. Tra cento un Lombardo-Veneto indipendente, cioè pangermanico.
L’epurazione di Kerç
Kerç, la comunità italiana, le purghe di Pajetta, e la paura dei tedeschi, di cui si tace nelle cronache dalla Crimea, erano così narrate nel 2008, nel romanzo “La gioia del giorno”, di Astolfo, ambientato negli anni 1968-1969:
“Il comunista ha l’ambizione di essere assolutamente uomo”, dice bene il cane da guardia Nizan: “Il comunismo comanda il respiro, la vita privata, l’avvenire, la morte. Uomo e non cittadino”. Ma crede a Mosca. Inspiegata è la fedeltà dei comunisti all’Urss, di cui nulla sanno, che non ha creato una sola emozione, e non ha alcun potere di coercizione, ora che non c’è più da preparare la rivoluzione mondiale, né da difendersi. Boleslao, che è stato a Mosca nei Trenta, prima di arruolarsi con Anders e liberare
- Per un periodo fui assegnato a Odessa, in pratica deportato. A
Kerč, vicino Odessa, c’era una colonia di pugliesi. Un giorno con Pajetta fummo
comandati di partecipare a una cistka, un comitato per l’epurazione, di questa
colonia italiana, e ce la cavammo non decidendo nulla. Ma pochi mesi dopo, a
Mosca, ho letto che il comitato cittadino del Partito era stato “smascherato,
arrestato e punito”. Con la deportazione o la fucilazione. - Si materializza un
luogo della storia sfuggente: si sono assimilate nel tempo le colonie franche,
cioè genovesi, stabilite in Crimea, ma non questa di contadini e pescatori che
negli anni dell’emigrazione nel secondo Ottocento hanno scelto la penisola,
fertile di grano e di pesce. “La morta Kerč”, una città che trasloca, così la
vede Sklovskij nel Punteggio di Amburgo,
con le donne sedute su cuscini alla finestra, verso una fabbrica in
costruzione, uno dei pochi luoghi nominati degli ebrei kazzari, la tredicesima
tribù. Era ottimo porto, che signoreggiò il Bosforo Cimmerio, attesta
Algarotti. In guerra la popolazione sarà sterminata dai tedeschi, col noto
espediente di radunarla in piazza per avvisi importanti. Furono falciati con le
mitragliatrici, ma non in piazza. A gruppi, furono portati alla fucilazione
fuori città.
- Andavamo a Mosca – spiega Boleslao - pur
sapendo che potevamo sparire, per contrasti nel Partito che passavano sopra la
nostra testa, o per delazioni, anche dai paesi d’origine. Pajetta racconta che
fu tentato di uccidersi per la vergogna, ma c’è sempre qualcuno che è migliore
comunista di te, c’è il comunismo. – Pajetta
che va dicendo: “Sto in questo partito da cinquant’anni, gran parte dei quali
trascorsi, senza grande esito, a smascherare socialisti e socialdemocratici”.
Bisognerà ora smascherare i comunisti. - Le cistke
sono raduni nei quali i compagni si confessano, tutti contro tutti. Lenin le
inventò per introdurre un po’ di democrazia: essendo il partito unico esposto
col potere ad abusi e corruzione, i suoi membri dovevano passare periodicamente
un esame pubblico. Si partiva dalla famiglia d’origine, prima della rivoluzione.
La novità è la società giusta, del 1971
Si
riedita dopo ventidue anni (ma il saggio era del 1983) Bobbio con commenti di
Renzi e Cohn-Bendit. Inutili, se non a dire inutile l’argomentazione stessa di
Bobbio. Fuori tempo oggi, anche nel modo tignoso di procedere del filosofo
(specie nella messa a punto che volle far seguire alla prima edizione), contro
la spensierata baldanzosità in voga – merito, innovazione, etc.. Lo salva
Massimo Salvadori nell’introduzione, rispolverando la “giusta società”, su cui
Bobbio, nel suo “messappuntismo”, si era sintonizzato nel 1996, dopo la vittoria dell’Ulivo di Prodi.
D’Alema
aveva salutato la vittoria elettorale come una “rivoluzione liberale” – lo slogan
con cui Berlusconi aveva stravinto due anni prima. “Avrei preferito che un
grande partito di sinistra”, obiettò Bobbio, “invece di lasciarsi sedurre dalla
riproposizione della «rivoluzione liberale», quando tutti erano diventati
liberali e naturalmente in primo luogo gli avversari, risollevasse la bandiera
della «giustizia sociale»”, per la quale avevano militato le masse: “Se dovessi
proporre un tema di discussione per la sinistra, oggi, proporrei il tema
attualissimo, arduo ma affascinante, della «giusta società». Continuo a
preferire la severa giustizia alla generosa solidarietà”.
Era la
teoria di John Rawls, possibile in America nel 1971 e non in Italia - non per
Bobbio. Ma chissà come il filosofo americano si sarebbe meravigliato della sua
adozione in Italia, come equità sociale e anche come giustizia giusta. Non si può
obiettare a Bobbio la politica dello struzzo, ma è come se.
Norberto
Bobbio, Destra e sinistra, Donzelli, pp. 180 € 19,50domenica 2 marzo 2014
La conversione di Scalfari
“Quant’è bella
giovinezza\ che si fugge tuttavia,\ chi vuol essere lieto sia\ di doman non c’è
certezza”. È un inno alla giovinezza, che Scalfari tesse su “Repubblica”, dove
identifica Renzi con Lorenzo il Magnifico? O insinua il dubbio, come era solito non fidandosi
del Rottamatore? Non c’è dubbio, è una lode. E non della giovinezza ma del
giovane Renzi - perfino più del Magnifico, che morì a 43 anni.
Sdilinquirsi per Renzi si può, avrà il suo fascino. Se non che a Scalfari è sempre stato indigesto. Anche trasformarsi: è meglio che perire – e non siamo qui tutti a celebrare la fenice, che splendida invenzione? Ma c’è modo e modo, e quello di Scalfari mette a disagio. È anche bene ricredersi, se ci sono ragioni valide. Scalfari né si ricrede né dà ragioni valide. Anzi, ne trova solo di non valide: confusione, vaghezza, superficialità, seppure condite da entusiasmo.
È uno sberleffo, scritto in forma di elogio? E perché – non lo capisce nessuno? No, sembra una retractatio, di quelle che sottoscrivevano i reprobi dopo il carcere duro, i Campanella. Ma qui nessuno ha tenuto Scalfari in ceppi – non che si sappia. No, è una conversione: la fede è cieca.
Sdilinquirsi per Renzi si può, avrà il suo fascino. Se non che a Scalfari è sempre stato indigesto. Anche trasformarsi: è meglio che perire – e non siamo qui tutti a celebrare la fenice, che splendida invenzione? Ma c’è modo e modo, e quello di Scalfari mette a disagio. È anche bene ricredersi, se ci sono ragioni valide. Scalfari né si ricrede né dà ragioni valide. Anzi, ne trova solo di non valide: confusione, vaghezza, superficialità, seppure condite da entusiasmo.
È uno sberleffo, scritto in forma di elogio? E perché – non lo capisce nessuno? No, sembra una retractatio, di quelle che sottoscrivevano i reprobi dopo il carcere duro, i Campanella. Ma qui nessuno ha tenuto Scalfari in ceppi – non che si sappia. No, è una conversione: la fede è cieca.
L’Europa porta male
Si stava meglio
quando si stava peggio? La Cia era meglio dei volpini dell’M15 britannico e del
Deuxième Bureau francese, che ci portano da vent’anni a fare guerre a perdere?
Giustificandosi col chiamarle guerre umanitarie, per il diritto e la libertà dei
popoli, che invece non c’entrano nulla?
Non è vero naturalmente. La Cia ci ha portati, sempre nei vent’anni, in Afghanistan e in Iraq, guerre senza senso, dopo la Serbia. Ma che dire dell’Egitto, della Libia, e per un pelo della Siria? E ora dell’Ucraina? Dopo i subdoli tedeschi, che provocarono il bagno di sangue jugoslavo per annettersi la Slovenia e la Croazia. Bella nomea si sta creando l’Europa liberatrice, di disastri.
C’è nostalgia di Yalta, che si celebra in anticipo, come se ne ricossero i settant’anni, anticipandola di un anno, al febbraio 1944. Per non poter dire bene di Putin. Due incongruenze, che però mostrano da che parte sta il fiuto, il favore popolare. Per non dire di Julia Tymoshenko, l’eroina dei liberatori, che ha pratica di mondo e corre a Mosca.
Far morire gli ucraini per l’Europa? È ridicolo. L’Europa se ne rende conto, che si aggiorna alla settimana prossima. Quando l’avventurosa Julia, la monopolista del gas (russo), avrà ristabilito la verità della storia. O l’Ucraina sarà spartita? Per la libertà di chi?
La diplomazia, di cui l’Europa si vantava di possedere l’arte, è da tempo abbandonata. La Ue la politica estera la lascia alla baronessa Ashton, un’incompetente e un’incapace. I governi europei ad altri incompetenti, anche se più giovani e graziosi, Mogherini per Renzi, il ventisettenne Kurz, un bambolotto, per la grande coalizione di Feymann in Austria.
Non è vero naturalmente. La Cia ci ha portati, sempre nei vent’anni, in Afghanistan e in Iraq, guerre senza senso, dopo la Serbia. Ma che dire dell’Egitto, della Libia, e per un pelo della Siria? E ora dell’Ucraina? Dopo i subdoli tedeschi, che provocarono il bagno di sangue jugoslavo per annettersi la Slovenia e la Croazia. Bella nomea si sta creando l’Europa liberatrice, di disastri.
C’è nostalgia di Yalta, che si celebra in anticipo, come se ne ricossero i settant’anni, anticipandola di un anno, al febbraio 1944. Per non poter dire bene di Putin. Due incongruenze, che però mostrano da che parte sta il fiuto, il favore popolare. Per non dire di Julia Tymoshenko, l’eroina dei liberatori, che ha pratica di mondo e corre a Mosca.
Far morire gli ucraini per l’Europa? È ridicolo. L’Europa se ne rende conto, che si aggiorna alla settimana prossima. Quando l’avventurosa Julia, la monopolista del gas (russo), avrà ristabilito la verità della storia. O l’Ucraina sarà spartita? Per la libertà di chi?
La diplomazia, di cui l’Europa si vantava di possedere l’arte, è da tempo abbandonata. La Ue la politica estera la lascia alla baronessa Ashton, un’incompetente e un’incapace. I governi europei ad altri incompetenti, anche se più giovani e graziosi, Mogherini per Renzi, il ventisettenne Kurz, un bambolotto, per la grande coalizione di Feymann in Austria.
La stupidità è contagiosa
“Immensa
è la folla degli imbecilli”: Agostino, un santo che pure non presumeva molto di
sé, lo sostenne “Contro gli Accademici”. Jerphagnon, studioso di sant’Agostino
(e di Roma antica, il cristianesimo, la banalità - dopo Arendt - e Pascal), è
tornato sul tema negli ultimi suoi giorni, consegnando nel 2010, un anno prima
della morte, questo “florilegio”. Conscio di dover esercitare la prudenza, ma a
lungo tentato, dice, da una “fenomenologia della stupidità”. Dopo esservisi esercitato
un paio di volte, in un saggio sugli imbecilli nei “Dialoghi” di Platone, e sul
“numero incredibile di allusioni alla stupidità” nell’opera di sant’Agostino.
Infine, per l’età e il residuo pudore, limitandosi a un assetto tematico dei
reperti.
“Imbecilli”, diceva Flaubert, l’idiota di
casa, “sono quelli che non la pensano come voi”. O Clitandro delle molieriane “Donne
saccenti”: “Avete capito male, malissimo, e io vi sono garante\ che lo stupido
saccente è stupido più d’uno ignorante”. Ma la materia attrae, e del resto
Pascal voleva stupido Montaigne, perché si dipingeva pieno di saggezza – come
Pascal. La stupidità Jerphagnon fa nelle conclusioni “polimorfa e onnipresente”. Anche
“naturale”, con Kundera. In realtà sfuggente: l’unica immagine che se ne
prospetta, dice, è “la «sfera» di Pascal – e prima di lui di Hermes Trismegisto: la
sfera «il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo»”. Il fatto è
che “una miriade di essere unici pretende a ogni istante di decidere della stupidità
di altri soggetti altrettanto unici”.
Uno
sveltissimo libello. Senza i riferimenti d’obbligo: Cipolla, Musil,.Jean Paul, il masochista Wilde (“Il solo peccato che conosco è la stupidità”), e il Cocteau d’ordinanza (“ Il dramma della nostra epoca è che la stupidità si è messa a pensare”). Con l’imprevista resurrezione di Mauriac (François, lo
scrittore “cattolico”) e Montherlant. E un effetto beffardo. Che non è quello
che si pensa, della serie il malvagio è buono, il buono è malvagio, l’inutile è
utile, l’utile è inutile, il gioco del rovescio. Il tema si presta, quant’è stupida
l’intelligenza, o quant’è intelligente la stupidità, ma il filosofo ce lo
evita. Jerphagnon parte da Raymond Aron, che avrebbe “riconosciuto la stupidità
come il fattore dominate della storia”. Ma l’antologia non è umoristica. Né uno
stupidario, un repertorio di stupidità – magari sulla stupidità. Cioè lo è, ma
dei riflessi negativi sugli autori antologizzati. Che presi uno per uno ne sono
esenti, naturalmente. Ma messi in fila, 140 o 150, e divisi per categorie
sembrano ottusi.
La stupidità
è contagiosa, non si può sanzionarla - solo riderne. È come dice da ultimo
Amélie Nothomb nella “Metafisica dei tubi”: “Non si è trovato niente di meglio
che la stupidità per credersi intelligenti”.
Lucien
Jerphagnon, La sottise? (vingt-huit siècles qu’on en parle), Livre de
poche, pp. 139 5,60