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sabato 29 marzo 2014

L’eurologismo

L’euro neologismo
Detto della moneta
E inteso macarismo
Evocativo è certo
Ma di code di  cometa
O di tossico reperto?

Problemi di base - 175

spock

Se gli onorevoli credenti sono tutti ladri, chi va in paradiso?

Non è che il paradiso si spopola?

Molti onorevoli hanno fatto la comunione, benché corrotti che, secondo il papa “non saranno perdonati”: sacrilegio di massa?

Perché Obama non ha voluto vedere Marino, neanche per una stretta di mano? Forse pensava che il Campidoglio fosse a Washington?

È più ecologico l’artificiale, o il naturale?

È più ecologico andare in bicicletta parlando al cellulare, oppure parlare al cellulare andando in bicicletta?

E parlare invece al bambino sul sellino, mamma affettuosa?

Perché pagare i giudici, che non lavorano, il doppio e il triplo del presidente della Repubblica?

Perché è la sinistra politicamente corretta e non la destra, illiberale, conservatrice, reazionaria?

spock@antiit.eu

Secondi pensieri - 170

zeulig

Coincidenze – “Sembra incredibile che Kierkegaard e Marx siano nati il medesimo giorno, il 5 maggio; il danese 200 anni or sono, un paio di settimane prima di Richard Wagner, con cui condivise una profonda passione per il Don Giovanni di Mozart”, Marino Freschi si diverte a sottolineare le coincidenze, con borgesiana inquietudine, trattandosi dei fondamenti della contemporaneità. Borges ha fatto delle coincidenze un’arte (un espediente narrativo) e anche la filosofia, anzi una teologia. Le coincidenze sono casuali: imprevedibili e, le più, insignificanti. E tuttavia sono “indicative”, parte quindi del linguaggio: hanno una pregnanza, che non è solo l’eccezionalità (una sfida al calcolo delle probabilità, come la “smorfia” al lotto). Sono un riconoscimento. Più ferace, meno pretestuoso, dell’agnizione, o della sparizione. Come la temperie, che anch’essa è fatto sfuggente, e tuttavia reale. 

Geografia Si scopre Benidorm “New York del mediterraneo”. Un centinaio di grattacieli che guardano uno spicchio di mare sulla costa catalana, di mini appartamenti per turisti e pensionati del Nord Europa, dove si favoleggiava un posto remoto - un Tiburtino Terzo a mare. Ricordo d’infanzia, di “Calabuig”, il film di Berlanga  del 1956 – il dolcissimo passo d’addio di Edmund Gwenn, con Valentina Cortese, Juan Calvo e Franco Fabrizi. Sulla vita semplice di un paese di pescatori, dove un vecchio scienziato atomico si è rifugiato oppresso dai sensi di colpa. Per essere infine scoperto - e “risequestrato” da un’intera flotta, proveniente forse da Benidorm – per le foto degli eccezionali fuochi d’artificio di cui, forte della sua scienza, ha voluto omaggiare i recenti compaesani. Già la geografia economica disconnette o manda in tilt la memoria, la tradizione.
Non irrilevante, peraltro, per la storia. Per esempio in questa epoca di crisi economica: la cementificazione del litorale è stata fatta con grandi sprechi delle banche tedesche, che poi noi abbiamo pagato, per la pensioni dei popoli germanici.

Heidegger – Ha fatto la filosofia dei sentimenti, i desideri e le passioni, nell’aridità emotiva: uno che non ha amato mai nessuno. Molte lettere ha scritto, a molte donne. Che solo concupiva, a letto. Ultimativo, violento, di cui non si conosce una confidenza con la moglie di una vita, a parte la complicità nel non detto. Mai un’affettuosità per i figli che in casa con lui crescevano. Di cui uno peraltro non era suo, pur in costanza di matrimonio: mai nemmeno un rifiuto, solo indifferenza.

Oltre che nazista si conferma antisemita - nei quaderni che ha voluto postumi a 50 anni. Pregiudizio che nascose più degli altri, specie con Hannah Arendt, sua salvatrice nel dopoguerra, letteralmente, nella considerazione e negli studi oltre che nella piccola carriera di posti e pensioni, dopo esserne stata l’amante giovanissima seppure non più vergine. Come Wagner - che però forse non sarebbe stato nazista. Sono antisemiti i due pilastri dell’intellettualità ebraica, che ad essi non saprebbe rinunciare, e anzi li magnifica malgrado tutto. Bisogna “liberare” l’antisemitismo?

È storico della non-storia. Che dice Heidegger? Il comune essere storico è uno smarrimento di sé nell’ambito di ciò che è storico: la non-storia. Un tale smarrimento del nostro essere è necessario alla storia. L’essere storico è una costante sempre nuova scelta tra la non-storia e la storia nella quale siamo. Entrare nella storia non significa entrare nel passato. Se un popolo entra nella storia, entra nel futuro. Se esce dalla storia non ha più futuro. Esso entra nella storia (passato) nella misura in cui esce dalla storia (futuro). La possibilità di accesso alla storia si fonda sulla possibilità che un presente sappia sempre essere-per-il-futuro. Ciò che “ha una storia” è coinvolto nel divenire. È nell’essere-per-l’avvenire che l’esserci è il passato.
Lo dice e lo ripete: “La possibilità di accedere alla storia si fonda sulla possibilità che un presente sappia essere di volta in volta futuro”. È a partire dal presente che si fa entrare nel conto il passato, e in vista di ciò che è presente. È per esso che si pianifica il futuro: “Quando girano le eliche di un velivolo non accade propriamente nulla. Ma se il velivolo porta Hitler da Mussolini, allora accade la storia. Il volo diventa storia. La storia è cosa rara” – c’è nel Burney un Mr Heidegger a Londra: cantante d’opera?
“Lena e Leonce”, sgraziato titolo dell’ottimo Büchner, dà per ultimo la ricetta giusta: “Ci stenderemo all’ombra e pregheremo Dio di darci maccheroni, meloni e fichi, ugole melodiose, corpi classicamente modellati e una religione comoda”. Heidegger, che sembrava aver liquidato la vicenda con l’inevitabile tributo tribale, “la storicità autentica è l’essere-per-la-morte”, in lungo e in largo vuole altrimenti: “La storia è il tratto specifico dell’uomo? Pure i negri sono uomini, ma non hanno una storia. Anche la natura ha la sua storia? Ma allora anche i negri hanno una storia. Non tutto ciò che trascorre entra nella storia”. Per il demonismo del profeta. O connesso alla H, cui si devono pure Hitler e la Bomba.

Online – La “rete” è breve, nelle chat, le mail, i messaggi, gli stessi blog, dev’essere brevissima, e questo la connota come un limite. Per contagio dalla messaggistica cellulare, in parallelo con la quale è nata e si è sviluppata. E per il “mezzo”, l’elettronica a impulso immediato. Con lo schermo ridotto, sempre più, ora alla dimensione smartphone. Dev’essere quindi paradossale, epigrammatica, furba, e non ragionevole – consequenziale, deduttiva. Il più versatile dei “mezzi”, il kindle, non dà ancora l’impressione di “possedere” il testo che si legge, come la dà il cartaceo.
La grafica dei giornali online, che concentra la lettura in poche righe, va incontro a questa esigenza di rapidità. Ma senza esaurirla, e con un netto senso di perdita. La rapidità, al contrario della lentezza, mangia se stessa invece di nutrirsi.
Forse la comunicazione online non può essere che rapida, il vecchio flash di agenzia. E quindi con uno scopo limitato: l’anticipazione, l’annuncio, la suggestione. Lasciando invece il “testo” alla conversazione, alla scrittura.

Suicidio - Il suicida di Borges è molto peno di sé, che dice: “Lascio il nulla a nessuno”. Pavese invece i suicidi dice “omicidi timidi”, masochisti più che sadici, cui mai difetta una ragione per uccidersi. Che sembra una bizzarria, e lo è: Emma Bovary ne è il modello, benché per uccidersi scelga il cafarnao, scortata dal commesso, e si ingozzi d’arsenico ma di quello per i topi, per un’agonia lenta che porti al suo capezzale tutti i colpevoli, dopo aver scritto: “Non s’accusi nessuno”. Pavese s’innamorava delle donne che irritava, la bella Tina Pizzardo, Fernanda Pivano, che ha dovuto censurarne le lettere, Constance Dowling. Sarà stata dura con Fernanda, che allora traduceva Jeanne Hersch, ma è dura sempre con chi non ti vuole, il sentimento vuol essere caldo. Solo col Buddha delle origini del resto non si fa: “Chi prende l’estinzione come estinzione, e presa l’estinzione come estinzione pensa all’estinzione, pensa sulla estinzione, pensa «mia è l’estinzione» e si rallegra dell’estinzione, costui, io dico, non conosce l’estinzione”. Checché voglia dire.

La Colpa è in realtà di tutti, tedeschi e non, per essere morti dentro, la “colpa metafisica” di Jaspers non è tanto metafisica. Personalmente il suicida può pensare, come John Donne in un momento brutto per la carriera: “Possiedo le chiavi della mia prigione”. Scriverci sopra, anche, un trattato, come il decano di Saint Paul – un Biathanatos che non è una morte doppia ma una sorta di morte vissuta: “Questo peccato non è irremissibile”. Ma non è questione di peccato, nessuno lo crede più, neanche la chiesa. I deportati si uccidono per non poter essere come gli altri, chi li ha deportati, chi ha assistito indifferente. Basta poco, a volte. Per Minosse i suicidi sono semi, che danno un albero. Non fosse che Dante, che di questa semina s’è appropriato, l’ha resa ostica in un incastro di ingiusto-giusto, e di doppio senso del disdegno, tra onore e disonore.
Certo è che il suicidio inizia con Werther, anzi col gesuita Robeck che l’anticipò con un’Exercitatio, ma c’era prima. Era usuale tra i cinesi in difficoltà, spiega Matteo Ricci. Sant’Agostino lo consiglia, e l’Ecclesiaste naturalmente: “Meglio la morte che una vita dura”. Viceversa, attesta la signora Angela Fusco di Napoli, alla quale era stato diagnosticato un tumore e per questo ha tentato tre volte invano il suicidio: “Sono resuscitata e felice”.

zeulig@antiit.eu

La tenerezza nell’abbandono

Forse il libro più sentito, anche se non personale, di Gary, di cui Parigi celebra il centenario. Un ebreo lituano che si è voluto francese, aviatore, eroe della Resistenza Legion d’honneur, diplomatico. Nonché sposo di Jean Seberg, l’attrice di Preminger (“Santa Giovanna”, “Buongiorno, tristezza”) icona della nouvelle vague, protagonista del jet set, morta suicida dopo una campagna diffamatoria dell’Fbi che ne logorò i nervi. Poi suicida anche lui. Per la stessa ragione per cui aveva vissuto, la vitalità – il declino della vitalità.
Scrittore proteiforne, utilizzò anche più nomi. Uno di questi, Émile Ajar (“gari” e “ajar” significano in russo “brucia” e “brace”), che fece rappresentare fisicamente a un lontano cugino, Paul Paulovitch, utilizzò per quattro romanzi, tra cui questo che gli valse un secondo premio Goncourt all’uscita nel 1975 – dopo un primo ottenuto come Gary nel 1956 per “Le radici nel cielo”. Per “L’uomo con la colomba”, “allegoria satirica”, si firmò Fosco Sinibaldi, un mezzo anagramma di Garibaldi.
Qui fa il romanzo brioso di Belleville, il XXmo arrondissement di Parigi, oggi integrato nell’off-off, e università di architettura, allora sobborgo putrido di immigrati senza arte e sans papiers. Alcuni di questi, i bambini delle prostitute, ex prostitute tengono in asilo, per evitare loro l’assistenza sociale. Momo (Mohammed) e Madame Rosa sono l’uno e l’altra. Lui arabo senza padre, o con più di uno, lei ebrea, deportata e tutto. Questa è la loro storia, fino a che morti non li separa.
Detta così, è una storia strappalacrime, che neanche il neo realismo aveva saputo immaginare. Gary ne fa un racconto scoppiettante, col ritmo pìcaro, di cui non si salta una virgola, di una tenerezza interminabile. Un mondo chiuso, di reietti, che Gary scrive come di getto, a ogni rigo sorprendente (“vero”) senza punte sociologiche e concettosità.
Romain Gary, La vita davanti a sé, Neri Pozza, pp. 214, ril. € 9,90

venerdì 28 marzo 2014

Senza paradosso Borges non si (ci) diverte

Le poesie del triennio 1972-1975, variamente disposte e antologizzata dall’autore in plurime pubblicazioni (in una versione già incluse nei Meridiani), qui riproposte nella raccolta originaria del 1975, in traduzione di Tommaso Scarano, con l’originale. Sono il culmine di una stagione poetica prolifica, successiva a “Elogio dell’Ombra” e “L’oro delle tigri”,  pronuba a “La moneta di ferro” e “La cifra”. Tutte personali sui temi noti dell’autobiografia, la cecità, la famiglia, gli amici, la patria,  l’antichità sassone. Poesia privata, sulla “pena di se stesso”. Con le malinconie metafisiche naturalmente, ma intimistiche. Senza modestia naturalmente, ma senza illusioni.
Un vasto repertorio anche, una partita serrata, un’avventura a largo raggio, non fosse per il tono dimesso, prosaico, della poesia di Borges. Che quando ha un’immagine l’ha ripresa dagli autori amati. Le composizioni più evocative sono “Le quindici monete”, dedicate a Alicia Jurado, una delle tante amiche letterate di Borges, tutte belle, e sue coautrici: ma sono tanka  e haikù, imitazioni di altro genere.
Brillante è ancora il “Prologo” – Borges è un maestro dei prologhi, più di Kierkegaard: “La dottrina romantica di una Musa ispiratrice dei poeti fu quella che professarono i classici; la dottrina classica della poesia come ispirazione dell’intelligenza fu enunciata da un romantico, Poe, verso il 1846. Il fatto è paradossale”. Se non c’è il paradosso Borges non si (ci) diverte.
Jorge Luis Borges, La rosa profonda, Adelphi, pp. 154 € 13

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (201)

Giuseppe Leuzzi

Gli indipendentisti veneti s’inventano 2,6 milioni di voti online, tanti quanti hanno votato alle regionali, mentre hanno avuto non più di 100 mila click. A opera per lo più di professionisti del click, dal Cile, la Serbia, la Spagna. Perlopiù sotto forma di “bot” (robot), meccanismi di iscrizione e comunicazione automatica. Ma gli indipendentisti sono molto rispettati, e anzi la Lombardia vorrebbe imitarli. Senza comune senso del ridicolo.

La dottoressa Maria Vicario, cardiologa all’ospedale Niguarda di Milano, s’inventa nipote di Napolitano e si fa anticipare da Bazoli, Banca Intesa, 800 mila euro. Dunque, è un vizio. Una volta la “nipote” era l’accompagnatrice del senatore. In ambito austro-ungarico, è vero.

Jean Marie Colombani minimizza martedì sul “Corriere della sera” lo sconquasso elettorale francese: succede sempre così a metà legislatura, afferma, che il partito del presidente viene punito. Non è vero ed è patetico, ma è francese: non si fustiga.

Il pam, politica, affari, mafia
Lo Stato-mafia che si celebra oggi ha avuto un precedente esattamente vent’anni fa, con l’incriminazione di Andreotti. Che portava all’ovvia conclusione che il capo della mafia era un plurimo presidente del consiglio – anche se aveva voluto le prime efficaci leggi contro la mafia. Con due o tre, ministri campani dell’Interno, e per ciò stesso ministri della camorra. Uno dei quali era proprio Mancino, oggi accusato.
Il processo a Andreotti capo della mafia fu il coronamento della Dottrina Orlando, o del Pam, politica, affari, mafia. Di Orlando vecchio democristiano, e gesuita per di più, la cui ambizione era diventare il capo della Dc.

L’odio-di-sé
Romafaschifo è un sito di Boccea, la periferia nord-ovest di Roma, di giovanotti si presume, che passano la giornata, appunto, a dirsi che Roma fa schifo. Senza essere leghisti, a quello che se ne sa, anzi romani veraci. Solo a caccia di notorietà. Artisti evenemenziali, fanno “installazioni” viventi, le fotografano con arte, ritengono, e le mettono in rete. A spese della loro città. Tutto il mondo si è già divertito coi maialini grufolanti nell’immondizia a Boccea. Ora è la volta della capra nella stazione metro confinante, Valle Aurelia.
Sono installazioni faticose, se non costose. Trasportare i maiali o la pecora, mettere giù gli animali senza che scappino, infatti la pecora è venuta male, probabilmente di notte per evitare i curiosi o le proteste dei vicini. Ma bisogna odiarsi molto per odiare a tal punto la città in cui pure si vive, e si prospera – o così si spera, evidentemente.
Pietrangelo Buttafuoco tiene loro bordone domenica sul “Sole 24 Ore”, chiedendo a Renzi il “commissariamento” della sua Sicilia. Un articolo lussuoso, lussureggiante, goloso, condivisibile: la Sicilia? è da buttare. Buttafuoco ce l’ha con Crocetta, non senza ragione - il presidente democrat della Regione Sicilia è un chiacchierone inconcludente, e anche spregiudicato. Buttafuoco aveva chiesto a Renzi sul “Foglio” un mese fa di rottamarlo  #rottamailrottamecrocetta (“Faccia sul serio, Renzi. Rottami il rottame Crocetta, porti in salvo la Sicilia. Vedrà che salvare l’Italia, al confronto, sarà una passeggiata”). Oggi cambia registro, identificando Crocetta con la Sicilia.
Parte da lontano, il polemista: dallo Statuto speciale dell’autonomia. Che fu adottato per la sola Sicilia? Per chiedere il commissariamento del governo regionale da parte del governo centrale. Come se si potesse. Di Crocetta denuncia indubbie malefatte: nominare alla Cultura, al posto di Battiato, la propria segretaria, e alla Formazione, il big business della (modesta) corruzione dell’isola, una studentessa fuori corso. Più il solito sottogoverno: i favori notturni a questa o quella struttura sanitaria convenzionata, etc. Nonché lo sbandieramento, a captatio benevolentiae oppure assoluzione, della sua omossessualità. Da vecchio comiziante, insiste Buttafuoco. Che però usa a più riprese un inciso, “cose di Sicilia”, per tante azioni turpi – il berlusconiano Micciché che fa eleggere Crocetta perché il candidato di Berlusconi non è un suo uomo, etc…. E il tutto con livore, anzi con astio. Con i più vieti stereotipi: lo statuto speciale “concesso” per i buoni uffici dei banditi Giuliano e Lucky Luciano (non era napoletano?), le nove province moltiplicate fino a venti, chiamandole consorzi, i musei vuoti, i siciliani incolti e anzi selvaggi, e tutti dipendenti della Regione.
E gli scrittori siciliani no? Non tutti, alcuni. Non dipendenti regionali. Ma non sono anch’essi uno stereotipo, della lagna sicula?
Ma, poi, i siciliani leggono e come. Sciascia sempre, e Pirandello, e non si perdono un’uscita di Camilleri, che sempre più a loro s’indirizza (una volta scriveva in italiano, ora quasi sempre in dialetto: i tantissimi che leggono Camilleri sono sicuramente siciliani, i suoi dialetti sono ardui), e subito scala le vendite, anche quando non meriterebbe. E chi ha costruito tanta bellezza, e la mantiene, pur tra i terremoti?
Alcuni – Camilleri per primo – hanno capito il gioco al massacro. Non rottamarli gli altri, non bisogna essere crudeli (siciliani?), ma commissariarli sì. Bisognerebbe. Anche se non si vede come – la museruola certo è antiestetica.

Mafie
In Atalanta-Sampdoria si vedevano l’altra domenica 4-5 doriani cinturare, nella propria area, altrettanti atalantini. Uno dei quali, strattonandosi, ha trascinato nella caduta un doriano. Proprio mentre un quinto o sesto atalantino, perfettamente libero, faceva gol. L’arbitro Longhi di “Novantesimo minuto” ha sentenziato che il goal era da annullare per fallo dell’atalantino sul doriano che lo cinturava.
È la solita albagia degli arbitri, che come i giudici fanno loro la giustizia. Ma la cosa è anche emblematica. L’area doriana è come le aree di mafia: tutti cinturano, e se qualcuno si difende è colpevole. Lui solo.
È anche vero che si può fare goal malgrado le mafie. Purché l’antimafia non  se ne accorga.. 

Giustizia a Milano
Commovente, il Pm anticorruzione di Milano Robledo accusa il suo capo Bruti Liberati di aver sabotato due inchieste in corso per mazzette e tangenti. E di aver boicotto l’inchiesta sulla privatizzazione della Sea, l’azienda comunale degli aeroporti milanesi, dimenticandosi per molti mesi il fasciclo in cassaforte, che diceva di avere perduto. Niente di nuovo, per la verità. Magari Robledo ha torto, ma la pratica è corrente a Milano di sabotare e insabbiare cause con colpe e colpevoli provati: Penati, PirelliTelecom, Moratti-Saras, Rizzoli-Corriere della sera, Sme. Senza vergogna, anzi a buon diritto.

Almeno una delle inchieste diRobledo non era inventata, un giudice ha dato ragione a chi accusava i gestori di Expo 2015 di malversazioni. Sembrerebbe una cosa enorme. Ma non c’è scandalo, Milano si assolve.

Lo scandalo a Milano era che la mafia entrasse negli appalti di Expo 2015. Ne hanno trovato purtroppo poche tracce – qualche impresa che tra  i manovali aveva vecchi carichi pendenti di gioventù. Ora che gli appalti si scoprono affidati agli “amici degli amici” lombardi, l’allarme è rientrato.

Per interdire l’attività politica a Berlusconi il giudice ha fissato l’udienza al 10 aprile, in tempo per le elezioni europee. Per il coimputato di Berlusconi Lorenzano, anche lui condannato, che aveva chiesto l’affidamento si servizi sociali qualche settimana prima di Berlusconi, lo stesso giudice ha fissato l’udienza al 15 aprile 2015.
Poi dice che non c’è giustizia a Milano.

Il giudice delle doppie scadenze si chiama Pasquale Nobile De Santis, un napoletano. Il nobile lavoro giudiziario Milano lo delega ai napoletani.

O forse il merito di Lorenzano è di aver scelto come avvocato Gianluca Maris, che il giornale dice avere “un imprinting di sinistra ben riconosciuto” (anche Lele Mora si è affidato a lui, per sfuggire all’interdetto che grava su Berlusconi). Ed è l’erede dello studio Gianfranco Maris, oggi vispo novantaduenne, l’ufficiale in Grecia poi deportato a Mauthausen, senatore più volte del Pci e membro del Csm, colonna dell’Anpi, l’associazione dei partigiani, e dell’Aned, l’associazione dei deportati,  più famoso per aver rappresentato gratis  nel 1989 - “difensore d’ufficio” a 65 anni, col suo curriculum - Leonardo Marino, contribuendo non poco alla condanna di Sofri, che tutti sanno innocente, per l’assassinio del commissario Calabresi. Un benemerito, figlio o nipote di benemerito.

L’unico problema è che Milano costringe a difendere Berlusconi. Che è indifendibile – lui poi ci sguazza.

leuzzi@antiit.eu

Aridatece la Banca d’Italia

Quando è nato l’euro la teoria s’è diffusa che le banche centrali europee avevano perso ogni funzione, giusto la vigilanza sulle banche. Non è vero, e la Bundesbank lo dimostra, la banca centrale tedesca, che continua ad avere una funzione di primo piano insieme con la Banca centrale europea, e spesso a essa in antagonismo, non sempre soccombente.
In Italia la teoria fu fatta propria dalla stessa Banca d’Italia, i cui governatori, Fazio e Draghi, si dedicarono quasi esclusivamente alla ristrutturazione del sistema bancario: accorpamenti, consolidamenti, liberalizzazione degli sportelli, liberalizzazione del credito. Con Fazio per formazione culturale e interessi, con Draghi per rispetto verso Ciampi. Ma con entrambi, in realtà, per Ciampi.
Il disvestimento della Banca d’Italia da ogni funzione monetaria è avvenuto con l'entrata di Ciampi in politica, che ha coinciso con il dopo Maastricht e l’avvento dell’euro. Come presidente del consiglio, ministro del Tesoro, presidente della Repubblica. Come se la Banca d’Italia avesse delegato la funzione al suo esponente di maggior lustro.
Da otto anni Ciampi non è più in politica, ma la Banca d’Italia sembra aver perduto anche il flair della politica monetaria, oltre che la capacità e la voglia di fare. Non esprime più nemmeno pareri.

Più tasse più debito - 2

Si dice che l’Italia non fa i compiti, e invece li fa, severi. Dal 1992. Tasse varie, una tantum o ricorrenti, medicine declassificate, ticket sanitari, tagli alle pensioni, alla sanità, ai sevizi sociali, da otto anni il blocco delle retribuzioni, pensioni senza costo della vita, e cassa integrazione, contratti di solidarietà, stati di crisi a non finire. A nessun effetto sul debito pubblico. Che anzi ogni anno si moltiplica.
Dal 2000 a oggi il debito pubblico è cresciuto di circa 800 miliardi. Nel 2000 era a 1.300 miliardi. A fine 2011 era a 1.907 miliardi. A fine 2012 a 1.988. E a dicembre 2013 ancora cresciuto a 2.067 miliardi - dopo essere arrivato a 2.102 a novembre: l’aumento più alto nell’anno di maggiore pressione fiscale, che ha stroncato il commercio, l’artigianato e una buona metà dell’industria  a partire dall’edilizia.
Nel 2011, l’anno dello spread, il debito è cresciuto di 55 miliardi, nonostante tre manovre correttive, due del governo Berlusconi e una del governo Monti.

“La moneta feticcio”

“La storia monetaria d’Europa ci rivela che, ogni qual volta la parità di cambio è stata eretta a feticcio o imposta senza adeguato riguardo alle sottostanti condizioni dell’economia, le conseguenze sono state nefaste”. Fa 25 anni il 3 giugno l’ultimo articolo di Paolo Baffi, il governatore della Banca d’Italia che tentò di scongiurare l’euro come sarà instaurato dal trattato di Maastricht, pubblicato su “La Stampa”.
Baffi si avvaleva di uno studio belga per ribadire che “un coordinamento troppo spinto di politiche economiche elimina l’elemento concorrenza caratteristico del Mercato comune, dal livello più alto in cui la concorrenza può esplicarsi, che è quello della formazione delle politiche medesime”.
Baffi non s’illudeva sul livello della coscienza comune europea. La Bundesbank non lo smentiva, che faceva “cavaliere solitario”. Ma il conformismo prevalse, l’opinione dominante della Bundesbank cioè, cui l’Italia decise di accodarsi per malinteso europeismo. 

Il “destino comune” è la “German dominance”

L’articolo di Baffi verrà ripreso a ottobre del 1992 da “Politica ed Economia”, il mensile del Pci-Pds, ma confinato a una rubrica interna. Il fascicolo si apriva con un lungo intervento di Marta Dassù sull’appuntamento col “destino in comune” – pur rilevando che “la Germania non ha ancora acquisito  una capacità di «leadership benigna»”.
Ancora a gennaio dello stesso anno, “Politica ed economia” e il Pci erano realisti. Elvio Dal Bosco apriva il primo numero del nuovo anno senza cerimonie: “C’è voluto l’arrogante aumento dei tassi di sconto e di anticipazione tedeschi decisi il 19 dicembre dalla Bundesbank, a qualche giorno dal trattato di Maastricht sull’Unione economica e monetaria, per fare capire sotto quale segno nascerà la Uem”. E proseguiva facendo affidamento sul “Sole 24 Ore” del 20 dicembre 1991: “Qualunque cosa fosse il trattato firmato in Olanda, la Bundesbank ha spiegato forte e chiaro ieri che, Maastricht o no, gli anni che precederanno l’ultima fase dell’Unione monetaria le cose procederanno come finora: la German dominance, con cui gli economisti contraddistinguono il potere asimmetrico d’influenza sule vicende monetarie europee tra Germania e resto d’Europa, sarà esercitata dalla Banca centrale di Francoforte nel pieno rispetto degli obiettivi tedeschi”.
Netta anche la conclusione di Dal Bosco: “La Uem sotto egida tedesca è vista come le fondamenta solide sul piano economico, monetario e tecnologico nella costruzione del Quarto Reich, imperniato sul vassallaggio economico dei paesi Baltici, e di Cecoslovacchia, Ungheria, Slovenia e Croazia”. I segni? La Germania forma i banchieri centrali dell’Europa orientale, vi organizza le Borse, vi gestisce le privatizzazioni, e crea camere di commercio tedesche: “A iniziare l’offensiva è stata la Bundesbank”.
Non è che lo cose non si sapessero, allora.

giovedì 27 marzo 2014

Il presidente viene dal cielo

Non si può dire la “periferia dell’impero” perché è titolo di U. Eco, ma è la stessa cosa. Rovesciata: dall’Italia Eco faceva le “cronache da un nuovo medioevo”, qui il “medioevo” sembrano gli Usa, remoti, un po’ come il sacro romano impero, quelle robe lì. Perlomeno a vederli oggi, a Roma.
Non erano proprio 50, come dice la Rai, erano forse una ventina, forse trenta, ma abbastanza per creare un clima da fantascienza. Il presidente Obama ha già di suo una figura da “Star Treck”. Il modo di parlare. I concetti. Col convoglio blindato di gipponi neri e grigioverdi per le strade di Roma, tante piccole navi stellari con le ruote, vetri schermati, rombanti mute nel silenzio che le sovrastava, di gente più sbalordita che incuriosita, che fotografava per riflesso condizionato.
I giornali dicono anche che queste 26 macchine blindate sono state sbarcate dagli Usa con appositi C-130, gli enormi aerei da trasporto. E uno si conferma, prospettandosi analoghe flotte sbarcate a Bruxelles, Amsterdam, Parigi o dove altro Obama va, di essere una provincia dell’impero. Non ribelle. Ma remota.

Obama non è Kennedy, oppure sì

Per una cosa di sicuro Obama si può dire un nuovo Kennedy, oltre che per essere (essere stato) giovane e minoritario: per predicare la libertà mentre fa le guerre sbagliate. Kennedy a Cuba e al Vietnam, mentre predicava alto e forte la difesa della libertà a Berlino. Obama alla Libia e alla Russia, dopo averci provato in Siria e perfino in Iran, che ora a Bruxelles invita: “Cari ragazzi, difendete la vostra libertà”. Da chi?Nello stesso giorno l’ex cancelliere socialista Schmidt ricorda alla “Zeit” che “nelle due guerre mondiali la Russia era con l’Occidente” (e “la Germania dalla parte sbagliata”, aggiunge). Che ora Obama e i suoi persuasori vorrebbero “Oriente”, cioè qualcosa di infido, dispotico. E per quale motivo?
Schmidt ricorda anche che “fino ai primi anni Novanta l’Occidente non ha dubitato che Crimea e Ucraina fossero parti della Russia”. Fino a che la Russia, con Gorbaciov e Eltsin, sembrava disintegrarsi. Poi c’è stato l’allargamento della Nato, fino addirittura alla Georgia. Obama dice che non è una guerra fredda, ma che altro è? È il rollback, che gli Usa perseguono fuori del tempo – era una delle politiche della guerra fredda. E ora addirittura all’interno degli interessi vitali, se non del territorio nazionale, della Russia.

Che vogliamo dalla Russia

Putin non è simpatico, ma non è di questo che si tratta. È stato marcato subito, appena è emerso come l’anti-Eltsin, il dissolutore della Russia. Da una politica di antipatizzazione (la vecchia disinformacija di cui Mosca era maestra) che, vecchia ormai di vent’anni, a ogni giro costringe Putin a imprevedibili, rischiose, “uscite dall’angolo”.
La politica internazionale come un ring è purtroppo nelle corde americane. Kissinger è stato un’eccezione, tutta la politica Usa del dopoguerra è di scontro, confrontation. Ma neppure questo crierio regge nei confronti della Russia.
Mosca, si suppone, è un problema perché ha un arsenale missilistico intercontinentale nucleare. Ma, se questo è il problema, perché non indurre Mosca al decommissioning e al disarmo? Invece di costringere Putin a impiegare preziose risorse per lucidare gli arsenali. A lume di ragione converrebbe perfino finanziare il disarmo russo – che ha un costo, forse più elevato che il mantenimento dell’arsenale. Dunque, non è questo il motivo.C’è evidenza invece in abbondanza che la guerra di disinformazione, che non ha alcun fine plausibile, ha comunque l’effetto di strizzare l’Europa. Tenendo l’obbligatorio vicinato con la Russia in continua tensione.
La crisi ucraina non è la prima con  la Russia di Putin. È l’ultima di una serie. Che tutte hanno avuto un solo effetto, scaricarsi sull’Unione Europea. Senza indebolire Putin, e anzi rafforzandolo. La liquidazione dell’Urss e la nascita della “Fortezza Europa”, concomitanti, è come se avessero reindirizzato la solidarietà atlantica nel senso di una partnership ineguale, non dichiarata ma perseguita con costanza. 

Roma come sogno, ma dopo Lille

“R come Roma, R come Rêve”, come sogno. Ma non c’è molto di Roma, malgrado il titolo, nella quasi autobiografia dell’allenatore francese della Roma - un terzo, meno, del volume. Benché sia il primo allenatore francese, fa notare elogiativo l’editore, “in uno di campionati più considerati al mondo, la serie A”. L’onesto Garcia lo dice lui stesso: “Nella mia vita precedente avevo più spesso attraversato i Pirenei che le Alpi”.
A Roma ha acquistato notorietà – dopo essere stato praticamente licenziato dal Lille. Ma è col Lille che ha vinto, il campionato e la Lega francesi in un colpo solo, la duplice accoppiata che l’ha reso famoso oltralpe, il suo ricordo migliore è il 21 maggio 2011 al Parco dei Principi, il tempio del calcio d’oltralpe. “Trigoria non è Luchin”, il centro sportivo del Lille: così gli apparve e così gli appare la struttura della Roma, vecchiotta e inefficiente. Altri ricordi sono delle squadre con cui è cresciuto solitario e outsider, un calciatore di secondo piano, mai convocato in Nazionale, e un trainer isolato, per carattere e concetti di gioco: Saint-Etienne, Digione, Le Mans prima di Lilla.
Di Roma e della Roma Garcia ha subito capito l’aria, malgrado la lusinga della serie A. L’editore gli accredita un patron “americano miliardario”, mentre l’avvocato Pallotta è a stipendio, non si sa di chi - la solita bufala proprietaria di cui lAs Roma, la squadra col maggiore potenziale econmico, è costante vittima.. E la contestazione è subito arrivata quando la squadra ha perduto il passo della Juventus.
Garcia ha capito che nel “paese del re-pallone” il calcio è politicanteria. Non lo dice ma lo lascia intendere, a fronte dell’organizzazione delle squadre francesi. Non ci sono società con manager, esperti, progetti, ma presidenti in vena di popolarità. Da qui il forte ruolo dei tifosi, quelli che non giocano e non vincono ma si vogliono capricciosi e invadenti. E un calcio di mostri sacri, calciatori intoccabili anche se non vincono nulla. Si può dargli torto. Ma Garcia e Gervinho, i migliori acquisti della serie A, sono due scarti del Lille. Divario di valori? Di chi rispetto a chi, allora?
Senza farsi illusioni, Garcia ha preso il furbissimo ambiente in contropiede – “rimettere la chiesa al centro del villaggio” lo inscrive negli annali anche se non dovesse vincere niente (alcuni libri gli sono stati già così intitolati). E ha imparato subito anche il “segreto” del calcio italiano: non prenderle. Per il resto diverte divertendosi, lui e i suoi giocatori - si dice sia un Sacchi, ma è il contrario: fa la squadra, e il gioco di squadra, al meglio dei suoi componenti, non di schemi, di ognuno imparando capacità e limiti per organizzarli al meglio, in mobilità costante e rapida ma non forsennata, di movimenti anzi semplici, che consentono di non trovarsi scoperti nelle ripartenze. Il calcio è pure semplice, è dei calciatori: dopo tante squadre di allenatori, un allenatore per una squadra (che ha quadrato, sia aggiunto tra parentesi, il cerchio di Zeman, che i romanisti non sanno rimuovere).
Rudi Garcia,Tutte le strade portano a Roma. Il calcio è la mia vita, Mondadori, pp. 239 € 17 

I governatori erano contrari all’euro

Nell’impasse in cui il gollismo in Francia, solo attenuato dalle presidenze Giscard e Mitterrad, aveva gettato il progetto di unione politica, l’unione monetaria in ambito Cee si fece strada presso i federalisti come un grimaldello per scardinare i vecchi nazionalismi. Un progetto che i governi finirono per adottare, malgrado le riserve, e anche le resistenze, delle loro banche centrali, che avevano esperienza di politica monetaria e fino all’ultimo dubitarono che l’euro potesse funzionare.
Anche Mario Albertini, il filosofo che presiedeva il Movimento Federalista Europeo in Italia, aveva ben presente che non si poteva creare una moneta senza un sistema politico comune: “Non si può progettare l’unificazione monetaria dell’Europa senza progettare la creazione di uno Stato federale europeo”. Ma subito dopo si contraddiceva, prospettando l’unione monetaria come leva per forzare l’unione politica: “Il punto decisivo mi sembra questo: bisogna accettare, e sostenere, contro la logica, un’operazione graduale di unificazione monetaria preliminare, e non successiva, alla creazione di un potere politico europeo, perché i protagonisti… non si comportano seguendo criteri logici… Si tratta di un espediente, ma ci sono degli espedienti utili”. Pur avendo predenti i rischi: “Forse ci sono degli espedienti che possono spingere le forze politiche su un piano inclinato”.
Contrari secondo logica, condividendo cioè la stessa sequenza di Albertini, erano i governatori delle banche centrali. Nel saggio di Simona Ferrulli

si citano Monti e Spaventa, due economisti legati alla Banca d’Italia, con Baffi e Ossola, governatore e ex direttore generale della Banca d’Italia. Perplesso era anche, fin dagli inizi, Guido Carli, Prospettive di sviluppo nelle relazioni internazionali”, in “Euromoney”, marzo 1970. E perplesso sarà, fino alla vigilia del Trattato di Maastricht, Hans Tietmeyer, cioè il governatore della Banca d’Italia e il presidente della Bundesbank più di lungo corso ed esperienza. 

mercoledì 26 marzo 2014

Monti, Spaventa, Ossola, Baffi, tutti euroscettici

Gli europeisti più convinti erano prudenti sulla moneta unica. Gli economisti – i “tecnici”. Lo studio di Simona Ferrulli, che ne ha reso disponibile una sintesi sul “Ponte” online, li mostra concordi:
“L’adesione dell’Italia allo Sme chiamava in causa l’autorità e la credibilità non soltanto di Governo e Parlamento, ma anche della Banca d’Italia. È forse per questo che gli economisti di Via Nazionale furono tra coloro che mostrarono le maggiori reticenze e perplessità nei confronti dell’adesione al nuovo accordo di cambio. È questo il caso, per esempio, di Mario Monti e dello stesso Governatore Paolo Baffi”. Monti esprese le sue riserve sul Sole 24 Ore” del 5 dicembre 1978, Baffi in una audizione al Senato il 26 ottobre.
Monti e Baffi portavano motivazioni diverse, ma tutte critiche. Un’adesione prematura, secondo Monti, avrebbe reso più difficile, nelle parole di Simona Ferrulli, “la normalizzazione della politica economica interna”, e “agli occhi degli operatori economici, sia italiani che stranieri, sarebbe apparsa priva di credibilità”. Ilconcetto fu ribadito da Monti il giorno dopo il suo articolo, con una intervista al Corriere della sera”.
“Baffi invece”, scrive la ricercatrice, “partiva dalla considerazione secondo cui, laddove non si fosse proceduto all’integrazione delle politiche comunitarie, l’intera costruzione dello Sme avrebbe avuto vita breve”. Lo scrisse su “Bancaria” n. 8, a settembre del 1978: “Ove infatti le politiche comunitarie e quelle dei singoli paesi non fossero convergenti verso l’obiettivo di rendere più omogenee le economie dei paesi membri, difficilmente gli accordi di cambio avrebbero lunga vita”.
Ma c’è di più, continua Ferrulli: “Baffi, che aveva la responsabilità ultima della politica monetaria, era ben consapevole che, con un sistema di collocamento del debito pubblico che vedeva la Banca d’Italia come acquirente residuale rispetto al mercato, l’incentivo a un comportamento virtuoso del governo sarebbe stato scarso e la Banca d’Italia si sarebbe trovata a difendere due obiettivi fra loro incoerenti (sostegno del cambio e iniezione della liquidità)”.
All’interno del Parlamento, “una posizione fortemente contraria fu assunta da Luigi Spaventa, il quale riteneva che lo Sme avrebbe potuto diventare un’area di deflazione e che, soprattutto in un paese come il nostro, caratterizzato da arretratezze nello sviluppo economico e da accentuate differenze regionali, l’adesione avrebbe garantito la stabilità del cambio ma questa sarebbe stata pagata a prezzo di un più basso livello di sviluppo, di occupazione e di reddito”. L’economista ora scomparso si può dire profeta. Nel governo fu critico Rinaldo Ossola, ministro del Commercio con l’Estero, ex Banca d’Italia.
In conclusione non si tenne contro “del parere dei «tecnici»”. Per la considerazione che “il processo d’integrazione europea avrebbe dovuto essere perseguito a prescindere dai sacrifici” che esso imponeva al Paese.
Simona Ferrulli, L’Italia e l’ingresso nello Sme: vincoli e opportunità di una scelta difficile
http://www.ilponterivista.com/article_view.php?intId=78

Delitto di leso euro

Nel “Diario” sul suo anno terribile, 1988-89, l’allora governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi dà in una nota marginale il clima del momento: “Il Movimento Federalista Europeo, nella persona del presidente Mario Albertini, chiede con telegramma la mia destituzione al presidente Andreotti, a causa della mia riluttanza a far assumere all’Italia tutti gli obblighi dello Sme nell’attuale stato di elevata inflazione”. Lo Sme, sistema monetario europeo, è l’antenato dell’euro.
Albertini, filosofo in cattedra a Pavia, non fu solo: “Istigato, lo stesso fa il signor Stefano Spoltore, delegato del Movimento per Broni-Stradella, secondo il quale ho disonorato il borgo natìo. Il giornale del Movimento, Europa unita, parla di smitizzazione del governatore”.

La giustizia politica fa trentacinque anni

È passato in sordina il trentacinquesimo della decapitazione della Banca d’Italia, il 24 marzo 1989, da parte di Andreotti, per mano dei giudici Alibrandi e Gallucci. Dopo un anno di intimidazioni: coi messi di Andreotti, Stammati e Evangelisti, in Banca d’Italia, e convocazioni e interrogatori di Baffi e Sarcinelli a palazzo di Giustizia. Per “concorso in truffa a danno dello Stato”. Alibrandi era un militante missino, Gallucci un Dc dichiaratamente di destra, fedele di Andreotti.
L’imputazione, con tipica ironia andreottiana, era di aver finanziato quindici anni prima un investimento poi rilevatosi insostenibile della Sir, la società chimica di Rovelli. Un finanziamento che lo stesso Andreotti aveva voluto da ministro, per la chimica “dei pareri di conformità”, cioè finanziata con denaro pubblico. Anche gli interrogatori di Gallucci erano dello stesso tenore. Sempre il giudice ritornava allo stesso punto, noterà Baffi nel diario pubblicato postumo: perché tanta larghezza con Rovelli e tanta severità con i Caltagirone? La colpa di Sarcinelli e Baffi era di essersi opposti al salvataggio del gruppo Caltagirone. Alla “sistemazione”, dice Baffi.
I Caltagirone erano costruttori. Con l’ampio credito attingibile all’Iccri o Italcasse, l’istituto centrale -  romano, andreottiano - delle casse di risparmio, costruivano palazzi da rivendere a caro prezzo agli enti previdenziali, tutti di osservanza andreottiana. Da qualche anno però non rientravano più dal debito, alcune centinaia di miliardi avendo stornato tra i beni personali o in finanziamenti alla corrente Dc di Andreotti. 

Era un’altra Europa

Quando, trentacinque anni fa, il 24 marzo 1979, Andreotti fece decapitare la Banca d’Italia, mandando in carcere il vice-direttore generale Sarcinelli, e ai domiciliari il governatore Paolo Baffi, “soltanto la correttezza e la lealtà delle altre banche centrali dei maggiori Paesi industrializzati impedirono a questi eventi di produrre contraccolpi, che avrebbero potuto essere devastanti, sull’equilibrio della lira sui mercati”. Lo ha notato Massimo Riva nel 1990, pubblicando su “Panorama” il diario di Baffi su quegli eventi, ed è vero.
Singolare è oggi, riandando a quella storia, il raffronto con la Bundesbank di Angela Merkel. Che invece ha imperversato contro l’Italia per tutta la crisi del debito, o dello spread, a partire da fine 2010. E anzi l’ha creata – perché il mercato così si regola – con continue minacce e intimidazioni. Pubbliche, e rediffuse, nel caso fossero passate inosservate. Tutto il contrario della riservatezza che si richiede alle autorità monetarie, il cui compito primario è prevenire le crisi, e quando intervengono curarle, e non provocarle. 

martedì 25 marzo 2014

Il carbone ucraino è dinamite

L’Ucraina, “culla millenaria dell’identità russa e parte dell’impero russo dalla metà del XVII secolo”, come recitano i manuali, ha poca valuta estera, e quel poco dipende per due quinti dalle esportazioni verso la Russia. Carbone e grano. Che sarà difficile collocare altrove.
Le tensioni politiche a Donetsk, nel bacino minerario del Donbass, dove la popolazione è a maggioranza russa, è difficile che si concretizzino in una scissione come in Ucraina. Ma l’impoverimento improvviso, se dovessero cessare le esportazioni di carbone verso la Russia, non la esclude.
In attesa della secessione, o anche di una semplice confederazione allentata, è certo che i russi del Donbass creeranno comunque problemi a Kiev. Anche se non fossero più sostenuti, e mobilitati, dalle truppe russe in allarme alla frontiera - anche cioè nel caso, improbabile, di un accordo tra Obama e Putin. Ma la Ucraina senza il carbone non sta in piedi - sì, può essere una delle vecchie armate del lavoro, una riserva di manodopera a buon mercato per la generosa Europa.  

Il gas di Obama

Non c’è gas americano disponibile per le esportazioni. Ci sarà, forse, quando e se saranno messi in produzione gli scisti bituminosi, a un costo elevato e a rischio ambientale.
Si leggono e si ascoltano stupidaggini, le (poche) volte che la politica estera fa capolino nei giornali. Nel caso dell’Ucraina, che pure è vicina, di più. Che Obama abbia promesso all’Europa il gas americano non è possibile. Ma è quello che scrivono i giornali italiani – solo quelli italiani tra le lingue conosciute. I quali escludono che ci sia “un legame diretto”  fra la crisi in Ucraina e possibili tensioni sul mercato dell’energia. Mentre è un fatto, anche notorio, che ci sono. E si dà per scontato che l’Europa potrà contare sul gas Usa “liquefatto”. Cioè, ammesso che ce ne sia abbastanza per le esportazioni, se e quando si consentiranno sulle coste italiane i terminali. Una pratica lunga non meno di dieci anni, mentre le interruzioni del gas russo si avrebbero subito.
Si vuole anche il gas americano a 4 dollari mentre in Europa il costo medio sarebbe di 10 dollari. Ma, a 4 dollari prima della liquefazione? 

Il mondo com'è (167)

astolfo

Cina-Usa- La Cina cresce negli affari internazionali da un quarto di secolo come gli Usa dopo la guerra civile, per la capacità di creare ricchezza. Con una differenza non marginale: la ricchezza americana si è basata a lungo sule risorse minerarie e la spinta all’Ovest, quella cinese sul commercio internazionale, sulla competitività.

Concilio – L’ecumenismo è stato singolarmente cieco di fronte all’ortodossia, verso la quale invece il passo sarebbe stato minimo e facile. Per la comunanza che divide più degli opposti? È un vecchio principio della scienza politica, canonizzato da Maurice Duverger., “I partiti politici”, 1951, e “La VIe République et le régime présidentiel”. Ma anche per l’antislavismo del papa slavo, per il peculiare sdoppiamento dei polacchi, che se lo aiutò contro il sovietismo, gli fu d’impedimento successivamente. Quando Gorbaciov andò ad arrendersi a Roma a dicembre del 1989, concordò la restituzione agli uniati (ortodossi cattolici) ucraini dei beni che Stalin aveva loro sottratto e trasferito agli ortodossi di Mosca dopo la guerra, e promise l’apertura di quattro diocesi cattoliche in territorio russo. Per queste “missioni”, giovani paolo II fece affidamento su vescovi e sacerdoti polacchi – proprio quelli che il patriarcato di Mosca meno soffre. Dieci anni dopo Giovanni paolo II estenderà le guerre umanitaria a quella aerea – guerra senza onore – contro la Serbia. Fu per questo impossibilitato a recarsi a Sarajevo e a Mosca, come avrebbe voluto. E in Greci, Bosnia e Romania fu ospite non gradito.

Il pontificato di Giovanni Paolo II si dice anticonciliare per il motivo che non si dice: che quel papa fu mariano, visceralmente, polemicamente mariano, mentre la desacralizzazione di Maria era l’obiettivo principale dei guastatori alla Congar, sotto il segno del’ecumenismo. Il prelato francese si giustifica scrivendo che il culto mariano avrebbe allontanato protestanti e ortodossi. In realtà, Congar, con De Lubac e Daniélou (il cardinale, accademico di Francia, che morirà con una prostituta), o la nouvelle théologie, era in fatto di principio per un ridimensionamento del ruolo e del culto di Maria. Uno dei temi che più ricorrono nel “Diario” è la preoccupazione di sminuire il “tentativo mariologico” di portare la Vergine a Corredentrice e Mediatrice, nel testo “De Beata Virgine Maria”, che dopo varie vicissitudini costituirà il capitolo ottavo della “Lumen Gentium”, la “costituzione dogmatica” del 21 novembre 1964. Congar vuole ripetutamente “una mariologia guarita dal cancro massimalista”.
È su questo testo che Congar delinea la strategia della guerriglia. Il 22 settembre 1961 scrive: “All’inizio la discussione è molto dura. Per fortuna Laurentin è coraggioso, misurato e documentato. Apre la battaglia antimassimalista. Ci diciamo l’un l’altro che non dobbiamo fare un’opposizione eccessiva, per non correre il rischio di qualcosa di peggio di quello che vogliamo evitare. Vi sono, infatti, due dati incontestabili, davanti ai quali non possiamo far nulla: (1) l’esistenza di testi pontifici e di correnti mariologiche; (2) l’esistenza di più di 450 richieste di vescovi nei vota. Si può però cercare di favorire l’elaborazione di un testo relativamente sobrio, facendo modificare qualche passo che i massimalisti potrebbero utilizzare per cercare di andare ancora più in là” (Diario I, p. 113).
Curiosamente, fra le tante richieste dei vescovi , Congar cita quella di mons. Lefebvre, allora arcivescovo di Dakar, che a nome dei vescovi africani,  “chiede che si definisca o affermi che la Beatissima Vergine Maria è mediatrice di tutte le grazie” (Diario I, p. 122).
Un’altra curiosità è che la beatificazione di Pio XII poggia prevalentemente sul culto mariano. Mentre al Concilio fu il motivo di massimo rifiuto del suo pontificato. Congar giudica che con Pio XII si era giunti ad un “massimalismo pericoloso”, di cui trovava molte tracce nello stesso Concilio. Riuscendo però a evitare che si trasformassero in qualche dogma, lasciando gli apprezzamenti al campo delle opinioni e della mitologia.

I dogmi mariani esistono ma non se ne parla. Lasciando la figura di Maria piuttosto all’antropologia e alla sociologia. Lo stesso Paolo VI diede questo indirizzo, in una “esortazione apostolica” che intitolò “Marialis Cultus”.
Nucleare – Ha introdotto il disordine nelle relazioni internazionali. E sopravvive come un reperto non nobile, del tipo rifiuti, non smaltibili. Decaduto come strumento politico dopo le “guerre stellari” di Reagan che costrinsero l’Urss alla resa, sta lì come un mondo di dinosauri, pericolosi ma screditati. Sono all’improvviso desueti, e retrospettivamente folli, i concetti che si elaborarono a giustificazione: la deterrenza, la dissuasione, il containment, il rollback, l’attacco preventivo o first strike.
Ora che è residuale e senza scopo – un problema, non indifferente, di decommissioning – manifesta evidente la regressività che ha introdotto nelle relazioni tr i popoli. L’armamento nucleare è stato incongruente fin dall’inizio. Se non per il radicamento della potenza Usa nel mondo. Ma inutile nelle guerre americane successive, tutte o quasi perdute. O, se vinte, non per l’arsenale missilistico-nucleare.

Partitocrazia – Il tema di battaglia dei radicali e di Scalfari sarà infine di Berlinguer. Che ne estese la critica a tutti gli enti economici pubblici, presentati come feudi. “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela” disse a un forum al giornale “La Repubblica” il 28 luglio 1981 che abbiamo avuto l’onore di editare. Era il tema d battaglia, anni 1950, di Giuseppe Maranini, costituzionalista e preside dell’istituto fiorentino di Scienze politiche “Cesare Alfieri”, e lo fu poi della sua “scuola”, Tosi, Spreafico, Sartori, et al. Maranini era un vecchio liberale, con simpatie per Saragat.

Privacy – Si pubblicano subito, per esteso, senza nessuna cautela, ripetutamente, i nomi degli intercettati, anche abusivamente. E dei loro interlocutori, siano pure occasionali, il salumiere, la lavandaia. E sempre in un quadro spregiativo, di accusa e derisione, anche senza colpe o imputazioni. Moltiplicando ove possibile le foto “rubate”, magari al bagno o in camera da letto, in cucina, a tavola. Si danno invece solo le iniziali di assassini, grassatori, ladri, delinquenti comunque acclarati, oppure nomi di fantasia, a loro e anche alle loro compagne e ai congiunti complici, con l’uso di attenuativi, “supposti”, “presunti”, e condizionali. È l’epoca dei delinquenti? 

Slavofilia – In Dostoevskij è sinonimo di libertà, degli “umiliati e offesi”. Nel “Diario di uno scrittore” così la propone: “Essa non vuole invadere né conquistare ma vuole liberare gli umiliati e offesi, ridare loro una vita nuova per il bene loro e dell’intera umanità”.  Ma sapendo di essere minoritario, se non solo: “Questa è la mia fede. Non c’è da ridere”. E: “L’Europa naturalmente non capirà e ci tratterà nuovamente da barbari”.

Unione Europea – È nata occidentale, è diventata orientale. L’annessione rapida, promossa da Romano Prodi, degli stati dell’Est Europa ne hanno sbilanciato la composizione, facendone un complesso germanocentrico, con i satelliti baltici e balcanici, dalla ex Jugoslavia all’Ucraina, riducendo e quasi annullando il peso dei componenti occidentali, Francia, Italia, Belgio e Olanda, mentre se ne allontanano la Danimarca e il Regno Unito. Undici dei 27 stati membri sono dell’Est, ex comunisti, di fresca adesione – dodici considerando anche la Finlandia, col suo statuto di neutralità con la Russia. Diventeranno più della metà dell’Ue tra un paio d’anni, con le adesioni previste di Ucraina, Serbia, Montenegro, Macedonia, Albania, Bosnia, Kossovo.

astolfo@antiit.eu

Malvagie e furbe le donne, anche a Magliano

Con questo libro che è il suo capolavoro, Tobino commosse l’Italia e mezza Europa. Magliano è Maggiano, il manicomio di Lucca. Dove l’autore, viareggino e fortemarmino, psichiatra, poeta, a suo modo anticipatore della psichiatria libera, diarizzò le avventure tragicomiche delle sue internate. Cioè, dice, “la malvagità e la furbizia tipica delle femmine di ogni specie”. L’Italia che si commosse non è remota, solo sessant’anni fa.
Mario Tobino, Le libere donne di Magliano

lunedì 24 marzo 2014

Problemi di base - 174

spock

De bello ukraino?

Se dobbiamo salvare l’Ucraina con mille miliardi, non era meglio salvare prima la Grecia con cento?

E l’Italia?

È più corrotto Yanukovich o Timoschenko?

E Yushenko, col 5 per cento del voto?

Perché c’è più pil ucraino all’estero che in Ucraina?

È la stessa Ucraina che era il granaio d’Europa? Dove hanno messo ora il grano?

L’Ucraina ci raddoppiava la fattura del gas e ci tagliava i rifornimenti. Ora che ci farà?

Dicono che Obama non sappia dov’è l’Ucraina. E se invece lo sapesse?

Conviene tenere la Russia impegnata a lucidare i missili e le atomiche, invece che a farne ferro vecchio?

spock@antiit.eu

Le elezioni antieuropee

La sconfitta socialista in Francia era prevista, ma non la disfatta. E il balzo dei voti dalla sinistra al Front National, oltre che tra gli astenuti. Nel segno dell’antieuropeismo.
C’è un fattore francese nel voto: la singolare incapacità di Hollande, un ometto governato dalle sue donne, Royal e Trierweiler. Che in pochi mesi ha svuotato un grande patrimonio elettorale. I francesi si erano affidati ai socialisti, dopo le brutte esperienze incorse con la destra di Sarkozy. Ma di più pesa la delusione verso ogni politica tradizionale, se non il disinganno: c’è la crisi, e la crisi è imputata all’Europa, al modo come l’Unione Europea si regola, di cui i partiti tradizionali sono ritenuti succubi o complici.
Certificano la delusione il voto per il Front National e le astensioni. Il gollismo che dichiara la  fine del “patto repubblicano”, e cioè la preclusione verso il Front National, il vecchio “arco costituzionale” italiano, ne fa una presa d’atto importante. Testimoniando quanto la delusione si ampia e ormai radicata.