In Crimea
e Ucraina orientale Putin non gioca il vecchio gioco di Stalin, di tenere
l’impero unito tramite le colonie russe trapiantate nei paesi vicini. L’Ucraina
di oggi è nata dalla pace russo-polacca del 1921, con cui la Polonia si annesse
la parte storica occidentale dell’Ucraina, comprendente la Volinia, la Galizia
e parte della pianura Podolica del Dnepr e del Donec, e l’Ucraina la parte
orientale, a predominanza russa e con capitale Kharkov. Per incrementare il
“peso” russofono in Ucraina, Krusciov, ucraino ma staliniano, la incrementerà
nel 1954 con la Crimea.
Sono
questi i territori detti della Nuova Russia, da fine Settecento. Da quando cioè
Catarina la Grande riuscì a riconquistare Kharkov, Donetsk e Odessa, dopo aver
colonizzato le “lande selvagge”, le steppe del mar Nero, e si annesse la
Crimea. Territori che ribattezzò Nuova Russia perché erano russi prima di
diventare cosacchi, con l’apporto di servi russi in fuga e altri sbandati.
venerdì 27 giugno 2014
Europa all’ombra delle banche ombra
Si
chiamano “banche ombra” e l’“Economist” le ha così consacrate nel numero del 10
maggio, ma in realtà sono banche senza i doveri delle banche. Sono finanziarie
di varia natura e specializzazione, che però fanno tutto quello che fanno le
banche, e molto di più, ma senza dover sottostare alla vigilanza cui sono
sottoposte le banche, per il fatto che non raccolgono il risparmio – in realtà
lo raccolgono, purché in grande quantità.
Sono
fondi d’investimento, hedge fund, fondi
monetari, operatori di Borsa, veicoli di bond,
venture capital e di derivati, le carte
di pagamento mobili, postali, aziendali.. La tipologia è già nutrita, e continuamente
si reinventa. Il presidente della Banca d’Inghilterra, Carney, definisce il
fenomeno “la più grande minaccia alla stabilità finanziaria mondiale”, per l’attività
aggressiva svolta nei paesi emergenti. L’“Economist” le assolve, ricordando che
la crisi del 2006-2007 fu opera delle banche vere e proprie, che vendevano il
credito come titolo d’investimento. La funzione maggiore delle banche ombra è
però il finanziamento a lungo termine, che è quello che consolida le economie:
a caro prezzo ma senza alternative, poiché le banche non sanno non essere
prudenti.
Più della
tipologia è nutrito l’attivo: è superiore al pil delle grandi aree in cui le
banche ombra operano, Usa e Ue. E anche in Europa si avvia a superare, sul
modello Usa, quello delle banche vere e proprie. La Bundesbank ha calcolato a
marzo che l’attivo delle banche ombra è cresciuto tra il 2007 e il 2013 dal 163
al 197 per cento del pil europeo, due volte il pil – mentre in Usa, pur contraendosi
lievemente (dal 207 al 195 per cento) resta pur sempre il doppio del pil. Nello
stesso periodo, l’attivo delle banche si è ridotto nell’eurozona dal 299 al 288
per cento del pil – mentre è cresciuto, di poco, negli Usa, per effetto dell’intervento
pubblico salvabanche del 2007, dall’87 al 91 per cento del pil.
Il
Financial Stability Board, l’agenzia di controllo dei mercati finanziari creata
per prevenire altre bolle, definisce l’attività bancaria ombra come “credito di
istituzioni non bancarie”. E lo valuta in un quarto del sistema finanziario
globale. In rapidissima crescita: gli attivi delle banche ombra, che l’Fsb
valutava in 71 triliardi di dollari all’inizio del 2013, erano cresciuti in
dieci anni di 26 triliardi. In Cina, dove sono una novità crescono del 40 per
cento l’anno.
Vita da pensionato, alla Montaigne
All’improvviso è l’ora di Montaigne, di
cui si ripubblicano anche i “Saggi” di Fausta Garavini “riveduti e corretti” -
con l’originale fanno un libro di 2.500 pagine. Un doppio, uno specchio, un
compagno, mai impositivo. Uno che non dà una filosofia, nemmeno scettica. È non
dà soluzioni. La chiave del buon ricordo è questa, che non dà soluzioni? Ma uno
che aiuta a “scriversi”, a conoscersi.
Il miracolo è doppio, essendo il personaggio
invece uno che ha tutto per essere antipatico. Pre-pensionato, anzi pensionato
baby, coltivatore incapace, padre di famiglia assente – eccetto che per la “figlia
eletta” Marie de Gournay una giovane corrispondente alla sua tarda età. Da
tutti i punti di vista un egotista. Anzi un cialtrone: uno che vive di rendita,
dissipandola. Con appossimazioni. Quella per esempio, I, 25, di
associare i turchi agli spartani in quanto negatori della cultura, e di tenerli
per questo in gran rispetto – cosa non vera, e comunque, se lo fosse,
ingiustificabile. Tutta roba che la biografa, competente archivista, non manca di sottolineare
un po’ in tutti i venti capitoli, in ognuno di quelli che chiama inviti o tentativi
di dare una risposta al quesito montaigniano “come vivere?”.
Titolo originale “How to live. Or A Life of Montaigne, in one question and
twenty attempts at an answer”, questa “arte di vivere” è un esercizio in
biografia, attraverso la rilettura dei “Saggi”. Una biografia un po’ acida. Prolissa
a volte, ripetitiva, per indirizzarsi pedagogicamente a un grande pubblico. E,
forse, per voler essere equanime, cosa
di cui Montaigne non ha bisogno. Con qualche faglia. Pietro, il padre, rappresenta
dapprima soldato di ventura al seguito dei predatori francesi in Italia, e poi
commerciante di dubbia moralità. Mentre fu padre sempre attento ai figli,
quello che volle il piccolo Michel educato in latino, e alla moglie. Cui lasciò
nel testamento il patrimonio e la gestione, fatto allora inconsulto. Lo stesso
per varie idiosincrasie di Montaigne, di cui Montaigne era conscio, senza nello
stesso tempo dare loro eccessivo peso. Ma è l’opera che ha contribuito per
prima e con più sostanza al revival. E un saggio di grande cultura in tutti i
contesti, oltre che di rianimazione degli archivi, con piglio narrativo.
Coi “Saggi” e tutto, Montagne fu del
resto uno come tutti: non sapendo (volendo, potendo) più dedicarsi agli affari,
evita il rischio che il suo maestro Seneca aveva individuato, di cadere in
quella condizione che oggi si dice depressione, scrivendo le sue paturnie,
anche le deprimenti. Iniziò così i “Saggi”, e li raddoppiò e triplicò a ogni
rilettura, invece di “tagliarli”, come gli avrebbe imposto il moderno editor, semplificarli. La sua prima idea
era di un commonplace book, una sorta
di zibaldone, di chiose, glosse, appunti, promemoria, ma presto si esemplò su
Plutarco, sugli opuscoli, tutti a tema. La saggezza viene assaggiandola.
Sarah Bakewell, Montaigne, l’arte di vivere, Fazi, pp.443 € 19
giovedì 26 giugno 2014
La Kerneuropa sia italiana
La vera agenda europea
dopo il voto del 25 maggio, dietro le nomine e l’allentamento dell’austerità
economica, è la Kerneuropa. Un concetto ormai vecchio di venti anni, enunciato
peraltro, nel 1994, da due politici tedeschi, due cristiano-democratici, Wolfgang
Schaüble, ministro delle Finanze dei gabinetti Merkel, e Karl Lamers. Ma di
interesse precipuo dell’Italia: il nocciolo dell’Europa, attorno all’euro, dev’essere
politico. E la politica che l’Europa necessita è federale. L’Italia deve
lavorare a più federalismo e meno “assi”, tutti inevitabilmente a preponderanza
tedesca, meno “lasciamo le cose come stanno”.
La Kerneuropa è anche nelle corde della scelta europeista del
Vaticano. E del neo guelfismo europeo, innovatore, coraggioso, che Renzi dovrebbe
interpretare. Se non si lascia travolgere dalla retorica etnica su cui è ripiegato
nelle ultime settimane, i fiorini, i Medici, le repubbliche e i pricipati. E la strada,
volendolo, sarebbe spianata dal connubio Merkel-Draghi: un presidente della
banca centrale europea scelto dalla cancelliera come un “utile idiota” che ha
invece rovesciato i rapporti di forza con la Bundesbank e Berlino. Nell’interesse,
naturalmente, anche di Berlino.
Schaüble ha riproposto sul “Financial Times” tre mesi fa, il 27 marzo, insieme col cancelliere dello
Scacchiere britannico Osborne, il suo vecchio programma. Con una lista dei
benefici che Londra trarrebbe stando dichiaratamente, senza ambiguità, nel secondo
livello europeo. La strada è dunque aperta per un regime sempre più federativo,
che non si priverebbe del supporto della City, il maggiore mercato finanziario
del mondo.
Il passaggio a una
struttura politica e istituzionale di tipo federativo è l’unico mezzo per l’Italia
di uscire dal nanismo politico a Bruxelles e in ogni istanza europea. Minoritaria.
Inconsistente. Per un motivo o per l’altro sempre in quarantena.
Voglia di harakiri
Se Renzi voleva rifare Ballarò, non bastava la Serracchiani, che se ne intende?
Non faceva un bel
vedere Matteo Renzi, e quel che è peggio forse non se n’è nemmeno accorto, nell’incontro
in diretta con Di Maio. Già un incontro in diretta, una sfida. Poi con un sottoposto di
Grillo: il presidente del consiglio, presidente pro tempore dell’Unione
Europea, che tratta con un giovanottino senza nessuna credenziale. Il quale
peraltro è stato mandato perché è “uno che si presenta bene”, lo stile Ballarò,
ma migliore attore di Renzi, che è sembrato la caricatura del toscano facondo.
Forse Renzi non se ne
vuol perdere una? È lo stesso virus della facondia.
Un errore, o un segno
caratteriale? Quel che è certo è che Renzi è sceso di molti gradini nell’attendibilità.
Anche perché è, era, ancora da dimostrare che Grillo questa volta farà sul
serio. E ha messo a rischio l’unica riforma istituzionale che aveva sicura,
quella elettorale.
Il liberalismo è poesia
L’ultimo
Gobetti by Gobetti è questo, la raccolta e rielaborazione di saggi della sua
rivista dallo stesso titolo negli anni 1924-25, sottotitolo “Saggio sulla lotta
politica in Italia”. A cura e con un lungo profilo d Paolo Spriano, storico e “intellettuale
organico” del Pci. L’edizione è l’avocazione del liberalismo da parte di
Togliatti nel 1963 (l’anno di pubblicazione è il 1964), in concorrenza col centro-sinistra
di Nenni – ma Togliatti aveva adocchiato il conterraneo Gobetti fin dal ritorno
da Mosca nel 1944: “Era stato anche lui, volere o no, alla nostra scuola”, negli
anni 1918-1922.
Brillante
sempre, spesso acuto. Contro la filosofia tedesca: “Se la filosofia è storia,
perché la filosofia?”. “La nostra riforma fu Machiavelli”. “Un’indagine dei
motivi psicologici dominanti nella storia italiana potrebbe trovare
inaspettatamente il riserbo accanto alla retorica”. E “il movimento
democratico” che può diventare “arma dei conservatori” – del fascismo, avrebbe
dovuto dire. “Cavour, il Cattaneo della diplomazia, che seppe evitare
l’isterilirsi della rivoluzione in una tirannide”. Trovando, senza ironia
giustamente, “la più grave deficienza del liberalismo italiano nella lunga
mancanza di un partito francamente conservatore” – tutti radicali, quelli del “non
so che voglio”, avrebbe detto Croce, liberale con più sostanza, “ma lo voglio
subito”.
Con squarci
avventurosi. La “retorica del tiranno romantico” a proposito di Mussolini.
L’unità ideale della filosofia romantica e dell’economia moderna. La
“mediocrazia”. “L’esempio inglese e americano insegnano che solo con un
proletariato agguerrito e cosciente è possibile una serie politica
espansionista”. “La lotta di classe è stata l’experimentum crucis della pratica liberale; solo attraverso la
lotta d classe il liberalismo può dimostrare la sua ricchezza”.
E qualche
baggianata. Lutero è compassionevole e solidale. Compassionevole come il
taylorismo: “Lutero ha qualche diritto di precursore di fronte all’umiltà
moderna del taylorismo”. Il cattolicesimo anarchico. Contro Mussolini (la
malattia morale, etc.), l’“Elogio della ghigliottina”. E la più infettiva di
tutte: la democrazia debole in Italia per la mancata Riforma. La brillantezza
va a scapito anche della coerenza, della politica.
“Poesia”
era l’aria che si respirava in “Rivoluzione liberale”, disse Carlo Levi, e così
è.
Piero
Gobetti, La rivoluzione liberale”
mercoledì 25 giugno 2014
Liberare l’Italia, abolire le Autorità
Una capacità installata
pari a due volte e mezzo la domanda: un investimento pazzesco. Tanto più se
avviene nel mercato dell’elettricità, controllato da un’apposita Agenzia.
Peggio ancora se un tale sfacelo industriale lo pagano i consumatori, con
tariffe gonfiate: i singoli e le industrie.
Renzi non contempla le
Autorità di settore nella riforma della Pubblica Amministrazione, e questo è un
grosso danno. Le Autorità sono il veicolo massimo, e anzi il Lord Protettore,
della corruzione, con gravi danni per i consumi essenziali, i costi dell’industria,
e la qualità dei servizi.
Il caso abnorme delle
centrali elettriche in sovrappiù, con tutti gli oneri economici e di
inquinamento che impongono, non è il solo. È tutto il mercato “made in Italy”
sregolato, sotto forma di regolazione, e iugulatorio. In tutti i mercati liberi
le tariffe sono più che raddoppiate, e mai diminuite. Con una caccia all’utente
esasperata, in tutti i luoghi e i momenti della giornata, senza alcun vincolo
di privacy. E una serie di fatturazione sempre fasulle – a consumi “calcolati”.
Un “mercato” prepotente
appunto perché forte della acquiescenza delle costosissime Autorità pubbliche
preposte al suo controllo. E del predominio, proprietario e ideologico, dell’opinione.
Tanto da sbracarsi negli eccessi, che non camuffa nemmeno.
Troppi sono ormai i
casi – in cui la “non privata” Acea romana si distingue – di fatturazioni a
conguaglio, per migliaia di euro, a distanza di tre e quattro anni (sperando
che l’utente non abbia conservato le bollette). Ci sono sovrapposizioni industriali
enormi anche nel campo della telefonia, grazie a tariffe compiacenti. Ce ne
sono perfino per le trasmissioni tv.
Fisco, appalti, abusi (53)
Tocca ai Beni Culturali
la palma della corruzione diffusa. In tutti
i luoghi che capita di dover frequentare, Roma, la Versilia, la Calabria, non se ne
possono non notare gli sprechi. Edifici storici restaurati in Toscana per
essere abbandonati a nessun uso e senza sorveglianza (tutti mancano dei
discendenti di rame, qualcuno delle serramenta). Musei rifatti due volte a Roma
in cinque anni e mai aperti (tre nel solo Monteverde: Garibaldino, di villa
Pamphili, della Matematica), il palazzo Incontro, etc. La biblioteca civica in
paese che si rifà per la terza volta in dieci anni senza essere stata mai
aperta – anche perché non ha libri né bibliotecario.
La corruzione dei Beni
Culturali è quella degli ingegneri e architetti. È una prassi inaugurata a
Roma, dal sindaco Rutelli, nella spesa dei quattromila miliardi di lire – poi ridotti
a due – per il Giubileo. Che fu spezzettata in duemila appalti, di un miliardo
in media l’uno, a beneficio di architetti e ingegneri, in qualità di consulenti
e\o titolari di imprese ad hoc. Spesso composte da uno o due immigrati. Tutti
impegnati al restauro e alla conservazione. Di cui niente è rimasto. .
Si apra il sito di Borsa
Italiana, Forex vi invita a investire 40 mila euro con soli 100 euro. “Scopri
la leva finanziaria è l’invito”. Forse pubblicità, forse no. L’avviso: “Training
su Forex| CFDs con Leva finanizria
Comporta considerevoli
rischi”, è meno del nero che lista i pacchetti di sigarette.
Il sindaco di Roma Marino
ha cambiato i comandanti dei vigili urbani, e la cosa si è risolta in una revisione
dei permessi per i tavolini all’aperto: non più il rinnovo ma una
riperimetrazione. I vigili volentieri si sono mobilitati per la riperimetrazione
e il rinnovo dei permessi. Ma non per tutti. Alcuni esercenti – non molti –
hanno avuto i vigili più volte, ma il
permesso non è stato rinnovato.
I gestori implicati
ritengono di sapere cosa manca in realtà, ma non vogliono cedere. Anche se
hanno già perduto due mesi di attività. Solo, sono ora un po’ più scoraggiati:
segnalazioni di questi ritardi al gabinetto del sindaco non hanno sortito alcun
effetto. A meno che la posta non
venga smistata al sindaco dai vigili urbani.
Il fenomeno interessa i gruppi I e II dei vigili, Centro e Parioli.
Il fenomeno interessa i gruppi I e II dei vigili, Centro e Parioli.
Il Comune di Roma, padrone di almeno 30 mila locali, uffici, appartamenti, palazzi, da cui ricava,
con difficoltà, 8 milioni di canoni, ne paga 180-200 ogni anno per gli uffici
comunali e delle municipalizzate.
Lo Stato, gli enti
pubblici, e le amministrazioni locali (Regioni, Province, Comuni) spendono ogni
anno per affitti circa 14 miliardi. La cifra, su cui il rapporto Cottarelli
sulla spending review insiste poco, è
calcolata per difetto: la massa dei contratti è talmente enorme e variegata che
è impossibile quantificarne il valore.
In particolare a Roma,
lo Stato e il Comune sono padroni di alcune migliaia di ettari, e di alcuni miliardi
di metri cubi, di terreni e edifici ex demaniali, in zone anche centrali, come
il Testaccio e Prati, che non utilizzano.
Lo Stato imprenditore
L’economia
prospera con l’innovazione, e l’innovazione è opera dello Stato, più che di
ogni altro. La potenza e la ricchezza degli Stati Uniti si fondano
sull’innovazione, e l’innovazione è voluta e pagata dalla Stato federale, sia
esso a gestione democratica o repubblicana, anche ai tempi di Reagan. In tutti
i campi di preminenza: l’informazione, la biotecnologia, l’energia nucleare, le
nanotecnologie. Mazzuccato cita cinque agenzie federali: la Darpa, Defense Advanced Research Projects Agency, il National Institute
of Health, con una dotazione che, grazie
ai successi, oggi ammonta a 32 miliardi di dollari, lo Small Business
Innovation Research, voluto da Reagan, che ha distribuito due miliardi di
contributi e incentivi (a Symantec e Qualcomm tra gli altri), l’Orphan Drug
Act, per la cura delle malattie rare, anch’esso voluto da Reagan, e la National
Nanotechnology iniziative.
La Darpa
lavora con 240 impiegati in tutto, di cui 140 esperti, e non fa ricerca, ma
promuove, valuta e finanzia le ricerche, con una dotazione di tre miliardi, e
risultati ovunque sempre eccezionali, da internet alle microfibre. Una pioggia
benefica per gli Usa. Al punto che la questione etica si pone, della ricerca
pubblica con profitti privati. Tanto più che molte aziende beneficiarie, la Apple
è famosa per questo, si sottraggono poi alle imposte. traendo vantaggio da ogni
possibile esterovestizione di comodo.
Torna lo
Stato imprenditore? È il titolo originario. In Italia lo diciamo innovatore
perché l’editore, vice-presidente della Confindustria, fa anche lui finta che quello
imprenditore era corrotto. Ma è la stessa cosa. Forse per un movimento di
pendolo: troppo Stato? vogliamo il
mercato, troppo mercato? vogliamo lo Stato. Ma la studiosa italo-americana dice
un’altra cosa – più in linea in effetti col titolo italiano: l’economia
progredisce con l’innovazione, e l’innovazione è, più o meno, di Stato. Pagata
dallo Stato, direttamente o attraverso le finanze pubbliche, fondazioni e
centri di ricerca esentasse, programmi settoriali internazionali (europei,
transatlantici), programmi comunitari. E più volte che non anche progettata e
patrocinata. È l’uovo di Colombo. Difatti, nessuno ha osato controbattere.
L’innovazione
non crea direttamente, né univocamente o prevedibilmente, ricchezza: lavoro, reddito,
salari, salari elevati. Ma la ricchezza non può fare senza. Gli Usa, il paese liberista
per eccellenza, hanno più Stato nell’economia che ogni altro paese europeo. Una
presenza diretta, secondo i dati Ocse: vi si fa ricerca con investimenti e partecipazioni
dirette, più che con gli incentivi fiscali, con i quali la Ue camuffa gli aiuti
pubblici all’industria. Internet è stato sviluppato dal ministero Usa della
Difesa. La Silicon Valley è nata con contratti militari. C’è lo Stato dietro l’algoritmo
google. Tutti i prodotti innovativi Apple, iPod, iPhone e iPad, si basano su
ricerche di scienziati e ingegneri europei e americani in centri di ricerca
pubblici, specificamente la tecnologia touch-screen.
Solo il disegno e l’uso commerciale, nota Mazzuccato, sono dovuti a Steve Jobs.
Sui semiconduttori, tecnologia in cui il Giappone aveva la leadership, gli Usa
hanno riconquistato le posizioni, con Intel, Microsoft e Apple, grazia e
ricerche e fondi federali. Molta green
economy si è sviluppata con fondi federali.
Un libro controcorrente? Un libro onesto. Negli Usa, patria del mercato, è tollerato: la verità si può almeno dire.
Mariana
Mazzuccato, Lo Stato innovatore,
Laterza, pp. XXVI + 351 € 18
martedì 24 giugno 2014
Non c’è più lo spazio delle riforme
Si fanno
oggi riforme su riforme, si annunciano perlomeno anche se poi non si fanno, mentre
lo spazio delle riforme è esaurito, o così sembra. La riforma è un progetto
politico, e non si può escludere un politico di genio che abbia
un’illuminazione imprevista. Ma sociologicamente si individua e si prepara
analizzando criticamente la realtà, quando essa mostra crepe e insufficienze.
Oggi è come se la globalizzazione avesse chiuso o esaurito ogni spazio di
riforma. In Italia come in Cina.
Si
prenda il mercato del lavoro. Ovunque in Europa (di più nell’Europa più ricca,
occidentale) va nella duplice direzione di una domanda iperqualificata che non
trova offerta, e di un’offerta non qualificata che non trova domanda. Da cui il
doppio sovraccarico di disoccupazione e di immigrazione in eccesso e
clandestina – una doppia negatività, che si somma invece di elidersi, che
curiosamente colpisce da qualche tempo anche la Cina, regina della
globalizzazione. O si prenda la produttività. Che necessita investimenti.
Mentre i capitali sono dirottati, per la rendita materie prime o la rendita
lavoro (sottopagato, ipersfruttato) all’esterno dei sistemi produttivi
nazionali e dell’Europa.
È questo
il nodo dell’Europa e dell’Italia: conquistarsi spazi di riforma. È anche la
via per sfuggire alla jugulazione germanica attraverso il compact fiscale: trovarsi uno spazio di riforma nel più ampio
mercato globale – ogni ipotesi è possibile: una burocrazia che facilita gli
investimenti invece di scoraggiarli, la defiscalizzazione degli investimenti,
la riqualificazione professionale dei tanti laureati in scienza delle
comunicazioni o discipline umanistiche. La Germania, come si sa, si è liberata
della jugulazione globale attraverso la “riforma” radicale del lavoro – che può
essere anche superpagato in alcune aziende, in proporzione ai benefici, ma non
ha più nessuna garanzia contrattuale.
Se Napolitano difende Bruti Liberati per Ruby
Si sveglia
il presidente Napolitano dal sonno novennale nella sua carica di presidente del
Csm per intimare al Consiglio di non sanzionare il Procuratore Capo di Milano,
Bruti Liberati, nella lite col vice Robledo. La lite verte principalmente
sull’avocazione da parte di Bruti Liberati dell’inchiesta su Berlusconi per
l’affare Ruby. Napolitano protegge Bruti Liberati per quest’avocazione. Il che,
sillogisticamente, porta a Napolitano persecutore di Berlusconi.
La cosa
non si dice, ma si sa. E oggi più sinistramente s’illumina del goffo no dello
stesso Napolitano alla riforma della P.A. Un no che si sa essere stato
argomentato e pronunciato da Donato Marra, segretario generale del Quirinale,
che ha 74 o 75 anni e non vuole andare in pensione. La riforma prevede infatti
la pensione dei giudici a 65 anni, come tutti, e questo non piace ai giudici –
Marra è un giudice. La riforma prevede anche che i giudici non possano avere
doppi e tripli incarichi, peraltro in conflitto d’interesse, nella P.A. e nella
giustizia, e anche questo non piace ai giudici e a Marra.
Dunque,
si può riformare la P. A. ma non i giudici, sua eccellenza non vuole – forse nel 2016, quando
lui non ci sarà più (e un’altra legge sarà fatta, non c’è dubbio). Così una
presidenza che si poteva finalmente ritenere avulsa da cordate e ricatti
precipita nel discredito. Si dice: bisogna andare cauti, i giudici scioperano.
E allora? C’è il diritto di sciopero, l’hanno già fatto. Cossiga non li ha
puniti, e loro si sono vendicati – sono venticinque anni che si vendicano. E
anche fuori del diritto, non si può argomentare con i giudici, solo obbedire? I
giudici sono l’unica casta privilegiata, di tipo fascista, a settant’anni dalla
caduta del fascismo, con gli ermellini, le eccellenze, e l’attendente (la
guardia del corpo), e non si vede perché.
Per non
dire delle illegalità. Napolitano forse non lo sa, ma col suo “invito” al Csm
ha sancito che privare un cittadino del suo giudice naturale non è più un reato.
Di questa Costituzione intoccabile è stato forse abolito l’art. 25, comma 1, che
assicura: “ Nessuno
può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”?
Non è la sola anomalia del caso Ruby. Il caso è
nato dal fermo della ragazza su denuncia di una sua amica, e dall’intervento di
Berlusconi in questura per farla rilasciare. Era l’amica di Ruby una confidente della
Polizia? Sì. Era, è, Ruby una confidente della Polizia? Sì. “Repubblica” ha una
foto giovedì di Ruby in primo piano e della sua giudice che la osserva sullo
sfondo, fresca per l’occasione di parrucchiere e visagiste, che guarda la ragazza col sorriso atteggiato di chi va allo zoo, e il
lettore si smarrisce come in una giungla, sia pure a quatre épingles.
Sotto lo stupore niente
Il presepe ha il Guardincielo, che fa la
bocca a O, pastore dello Stupore. Patrizia
Cavalli (“Datura”, p. 108) si chiede: “Possibile\ che solo a noi sia dato lo
stupore?” Jeanne Hersch aveva già concluso, qui alla prima pagina: “Stupirsi, è
proprio dell’uomo”, lo stupore adottando come innesco della conoscenza (il
titolo originale è “L’étonnement philosophique”).
Vico non
sarebbe stato d’accordo, che voleva gli uomini “bestioni tutto stupore e
ferocia”. Ma è indubbio: la filosofia nasce con esso, lo stupore è ciò che ha
portato gli antichi greci a porsi “le loro strane domande”. A cominciare da
Talete e la scuola di Mileto. Che posero la questione: che cosa persiste
attraverso il cambiamento? La sostanza. E cos’è la sostanza? Tema che Platone riprende, “Teeteto”, Aristotele, “Metafisica”, Plotino più di tutti, “Enneadi”. Ma a mano a mano,
bisogna pure dire, lo stupore scema, la scoperta: le ultime domande, se non le
risposte, sono sempre la prima.
Le ultime
risposte, per quanto sofisticate, variano peraltro poco: il nominalismo, vedo
il cavallo ma non la cavallinità, il realismo, la soggettività, da Descartes a
Nietzsche, inclusa l’impossibilità del Cristo o della fede (Kerkegaard), e l’irriducibilità
dell’essere (Begson), l’inconscio, la rimozione (Freud), la trascendenza, la
temporalità – l’opera è del 1981, Jeanne Hersch si ferma a Heidegger e Jaspers.
E non più risolutive che l’aria, l’acqua,
fuoco e l’infinito dei milesi, nemmeno tanto nuove. La capacità di
stupire della filosofia è limitata? Specie nel mainstream, da Kant in qua, della filosofia sistematica, assertiva.
“Che cos’è l’essere”, direbbe ancora Hume, o la scuola di Mileto. La ricerca dell’“essere dell’esistente” è piena
Mileto.
Curiosa
opera, che in una prospettiva evolutiva, una storia della filosofia dal punto
di vista della novità, della scoperta, finisce per metterla in surplace da 2.500 anni. L’esito è
quello di Kant: il soggetto non può aggiungere nulla all’essere. Hegel, che
pensava di aver quadrato il cerchio, col pensiero totalizzante in grado di
fissare la verità, riduce il razionale al reale – neppure consolatorio. La libertà dell’etica (del pensiero) e la necessità della geometria vanno in
simbiosi, direbbe Spinoza: la libertà è necessità,
la necessità è libertà – promettente,
ma Spinoza a 45 anni morì. Il resto è religione (il mondo creato), col problema
insoluto del male, oppure vanità, nichilismo (materialismo), con la fine della
filosofia. Siamo sempre al paradosso di Zenone: il moto e il mutamento dominano
la nostra esperienza della realtà, ma noi siamo incapaci di pensarli.
Opera
arguta, forse involontariamente. Montale, cronista maligno, che ha incontrato
Jeanne Hersch nel 1949 a un convegno ginevrino delle Rencontres Internationales
di cultura, la ricorda così nel quinto di una serie di servizi che scrisse
sul”Corriere della sera” il 16 settembre (ora in “Ventidue prose elvetiche”, p.
88), dopo aver introdotto Karl Jaspers, l’oratore della seduta, un uomo altissimo,
dai capelli bianchi un po’ a zazzera e dagli occhi chiari metallici e severi,
che “parla in tedesco, un tedesco così scandito e aristocratico che tutti
(anch’io) hanno l’illusione di capirlo”: “Lo accompagna la sua interprete,
Jeanne Hersch, che registra ogni sua parola: una donna piccola, bruna, scuretta
di pelle, coi capelli accercinati attorno alla testa, che passa per essere la
più fedele depositaria del suo pensiero” – con un sussulto in fine: “Quando
però la Hersch traduce il verbo del maestro, non dirò che le cose
s’intorbidino, ma certo si fanno chiare fino all’evanescenza”. Una filosofa che
di preferenza ha lavorato “sul terreno”, dei diritti civili all’Onu, la cui
opera principale s’intitola “L’illusione della filosofia” – Abbagnano, che
“L’illusione della filosofia” curò nel 1942, a guerra ancora vinta, lo sapeva
già: “Certo, l’essere non può più costituire l’oggetto della filosofia, se
questa ha perduto la sua ingenuità primitiva”.
Jeanne
Hersch, Storia della filosofia come stupore
lunedì 23 giugno 2014
Secondi pensieri - 179
zeulig
Diaspora – È un senso di appartenenza e di mancanza. È
un fatto storico, di persistenza di fattori religiosi, culturali, cultuali, etnici,
familiari, psicologici, anche linguistici, più che idi una condizione sociale o
materiale. Ma è sempre una scelta.
Non è
l’emigrazione in sé, ma un modo di affrontarla, e il confronto con
l’emigrazione pura e semplice aiuta a definirla. L’emigrato, pur non rifiutando
le origini, mira a integrarsi nel paese di elezione, più o meno volontaria, di
destinazione. Se ne fa anche un motivo di orgoglio. Questo procedimento, che è
stato chiamato dell’assimilazione, è prevalente – è all’origine dell’incontro
delle culture, il meticciato di Senghor, il meccanismo attraverso cui
cristallizza e “avanza” la civiltà. Ed è anche ragionevole e giusto, posto che
l’emigrazione, sia pure pacifica, riconoscente,
servile, è comunque un’invasione
di campo. La prevalenza accordata alle radici, fino al rifiuto della residenza,
variamente espresso oppure riservato, è anch’essa ragionevole, e giusta. Ma non
nel senso di un pacifico sviluppo quanto di una rivalsa.
Ironia – È critica e scettica. Contrasta con la
certezza, della prima età, la prima scoperta del mondo, che è densa e si
vorrebbe di verità (unica) e autenticità. I cui approfondimenti successivi porteranno
a un distanziamento. Nella forma della critica del reale – ovvero la sua
costruzione. Dell’ermeneutica. Dell’ironia, o scetticismo.
È anche
una forma di socievolezza, per il sottinteso umorismo, di condivisione del
sottinteso codice, oltre che di conoscenza. Come una serie di cerchi
concentrici sull’acqua attorno a un punto, che vanno via e si dissolvono per
l’impeto impreso dal corpo centrale, ma senza dissolversi. Con increspature più
o meno lievi – sempre lievi.
Memoria – Si ricorda
a lungo, anche in dettaglio, una lettura noiosa, per esempio il Proust della
“Ricerca”. Mentre si dimentica tutto di una lettura che pur si ricorda saporita,
e avida. Tipo Soldati, o anche Scerbanenco. Capita di rileggere di quest’ultimo
“Dove il sole non sorge mai”, dopo non più di dieci anni, come se fosse la
prima volta, in tutto, senza memoria di nulla, nomi, personaggi, città, che
pure sono stati e sono familiari e riconoscibili, individualizzabili. Dunque,
la memoria va scolpita, e sempre rinfrescata. Ma, allora, a maggior ragione più
di tutto dovrebbe venire scolpita la memoria remota. In età non alzheimer:
quella dell’infanzia. Che è invece la più privilegiata. Per il motivo che la
psicoanalisi ne ha fatto il centro del suo business?
Morte – “Voglio che la morte mi sorprenda mentre sono
nell’orto a piantare i cavoli”. È difficile immaginare il signor de Eyquem a
piantare cavoli, però modernamente sì, il giardinaggio è un passatempo per gentlemen, Montaigne è credibile.
Modernamente, invece, Montaigne sembra cinico. In quest’epoca che pure è
salutista e pacifica, non più assediata dalle pesti e le guerre come all’epoca:
il pensiero (rifiuto) della morte incombe più che mai, deprime su vasto raggio,
si può dire a strascico. Forse perché non ci sono più gli orti? E comunque non più
cavoli? I cicli della natura.
Natura – Non è ecologica? Sembra – è – scomparsa in
questa era ecocompatibile. Non tanto nella flora e nella fauna, accudite come
non mai, ma nel rapporto umano. L’ecologia è applicazione asettica
anestetizzante.
Psicologia – Un scienza svanita, appena concepita? Quella
del profondo messa in crisi dalla psicoanalisi. Quella prenatale dalla riproduzione
in vitro. Quella dell’infanzia dal marketing, la commercializzazione.
Riproduzione – La funzione genetica si è ridotta alla
riproduzione. Da creativa a riproduttiva. Si era ritenuto che i tratti somatici
e del carattere si trasmettessero col seme, e si ritiene tuttora, per una scelta
(d’amore, ma non importa), ma ora il seme è indifferente. Anche l’utero – l’humus di coltivazione, il sistema ecologico – è indifferente. Solo il meccanismo della
riproduzione è calcolato: considerato, protetto.
Suicidio – È voglia di non
lasciarsi fare? Il suicidio è atto assertivo, che si pone a contrasto
dell’unico evento comune a tutti gli uomini, la morte, la quale si vuole
incerta. Il suicida vorrebbe schivare questa ineluttabilità, rendendola
volontaria. Ma la fa doppiamente volontaria: è la famosa servitù volontaria. Né
è detto che ci riesca. Il moralista Chamfort, il trovatello divenuto l’“Ercole
in forma di Adone” delle nobildame della Reggenza, nonché della corte di Luigi
XVI, poi giacobino, quando temette di restare vittima del Terrore si sparò in
testa ma si staccò solo il naso e mezza mascella, si tagliò il collo ma non
trovò l’aorta, si squarciò il petto ma non trovò il cuore, e quando si recise
le vene dei polsi il cameriere lo soccorse, per cui visse altri sette mesi agli
arresti domiciliari, con l’onere di pagare la diaria al gendarme. La vita si
gioca a rimpiattino con la morte, finché riesce - anche la nascita è evento
comune a tutti gli esseri, che altrimenti non sarebbero, e indipendente, così
come la morte, dalla volontà del soggetto.
È
voglia di eccezione? Comune, giusta, il proprio dell’uomo d’eccellenza,
dell’uomo. La morte ugualizzando tutti, il suicidio si prospetta quale marchio
di differenza. Ma ha l’effetto di anticipare l’immota uguaglianza: la morte può
fare di ognuno un eletto, nelle opere, nel ricordo, mentre il suicidio
cristallizza in sé, soverchiando ogni altra sfumatura. Ciò è vero anche in
senso metaforico: nessun suicida ha mai cambiato nulla, non l’equivalente del
battito di ciglia a Manhattan, del volo di farfalla a Singapore. I letterati
suoi simili, gli intellettuali dell’epoca, Chamfort diceva “simili agli asini
che scalciano o s’azzuffano davanti a una mangiatoia vuota”. Il suicida rende
ineluttabile una morte che, in teoria, potrebbe non venire, per longevità,
resurrezione, il modulo più frequente tra le forme di vita, oblio.
“Dove sono cresciuto io”, è uno dei motti
celebri di Woody Allen, “a Brooklyn, nessuno si suicidava. Erano tutti troppo
infelici”.
Umori – La
diffusione della depressione in tempi di ricchezza senza precedenti (agiatezza,
servizi, sicurezza, innovazione) riporterà la medicina alla teoria di Ippocrate
degli umori? Oggi più che mai l’assunto basico della sua teoria si conferma,
che la salute è una combinazione di elementi e fattori fisici, ma anche di
umori e carattere, la somatizzazione è un fatto.
Anche i
fattori della “teoria umorale” di Ippocrate si confermano, con qualche
sofisticheria in più. I fattori umorali correlati ai quattro elementi, aria,
acqua, fuoco e terra: rispettivamente sangue, flegma, bile gialla, bile nera. O
del temperamento flemmatico, sanguigno, collerico, malinconico. Il carattere,
la tipologia fisica e fisiologica, e conseguentemente la salute, o l’equilibrio
psico-fisico, sono diversi per ognuno e correlati, più che alle condizioni
esteriori, agli “umori”.
zeulig@antiit.eu
Essere Montaigne, al mare
Successo
alla radio, 39 mezzogiorni d’estate su France Inter, per un pubblico, si
pensava, di pensionati a casa refrattari all’ombrellone. Ma il successo si è
duplicato col libro che riunisce le conversazioni: uscito in sordina a metà
maggio l’anno scorso, ebbe un solo “passaggio” in tv, due mesi dopo a Télématin,
che però bastò a venderne tra luglio e agosto 100 mila copie, secondo solo all’“Inferno”
di Dan Brown e alle “Sfumature”. Un miracolo? Non senza motivo.
Compagnon
evita il massimario – cui Montaigne peraltro non si presta, gli almanacchi alla
Schopenhauer: Charron ci aveva provato subito, ma il “Traité de la sagesse” fu
un fallimento. Lega Montaigne alla sua vita, al modo di vivere (la solitudine,
la famiglia, il cavallo), ai retroscena necessari, e alla storia del tempo, in ognuno
dei quaranta capitoletti tematici. Al modo di Montaigne o della casualità, dell’ordine
disordinato. Ma il successo è indubbiamente di lui, di Montaigne, solo reso
leggibile, in cento invece che in mille pagine. Uomo attivo, in tempi di guerre
e di pesti, diplomatico, “per esempio, mediatore tra i cattolici e i
protestanti, tra Enrico III di Valois ed Enrico di Navarra, il futuro Enrico IV”,
sindaco energico di Bordeaux in una pausa del buon ritiro nel castello di
famiglia e della scrittura dei “Saggi”, l’opera della vita di Montaigne.
Compagnon sa anche darne con semplicità
le chiavi dell’interesse costante che suscita nel lettore: “è uno scrittore”, “è
un relativista”, è il cavaliere “in
equilibrio, in assetto precario”, è uno che non dispera e non si piange
addosso, che ha e dà fiducia. La parola appartiene per metà a chi scrive e per
metà a chi legge, si può dire parafrasandolo,
e nel suo caso l’equilibrio c’è e si rinnova.
È un
moderato, senza essere un conservatore. E uno che sa ascoltare – fino a un
certo punto. “Propone un’estetica”, come dice Compagnon, e un’arte di vivere nella
bellezza (serenità d’animo). Nel gusto. Nel tempo sempre alla giusta cadenza –
“quando danzo, danzo, quando dormo, dormo. E quando passeggio solo in un bel
bosco, se i miei pensieri capita che si occupino di occorrenze estranee, io li
riporto alla passeggiata”. Che sembra zen e lo è, senza
l’applicazione dell’ascesi orientale, il maestro col bastone, e non per
annullarsi ma per prendere possesso, della vita e di sé, nei limiti del
possibile. Non presuntuoso, non ultimativo, non misogino, mai
cattivo. Diretto: scrive breve come Cesare, nota Compagnon, con la “sprezzatura”
che aveva trovato nel Castiglione, quello del “Libro del Cortegiano”. “Un
antidoto contro la malinconia”, non, come lui stesso diceva ridendo, “una
statua da collocare a un crocicchio”. O della perfezione dell’imperfezione.
Uno che vive
solo e scrive solo, benché per un pubblico – dopo La Boétie, dai 25 ai 30 anni,
non ebbe altri interlocutori. Che la solitudine rende amabile, attitudine non
facile - non cedere all’amarezza. Per un equilibrio spontaneo oppure coltivato,
non fa differenza. I “Saggi” si compongono per aggiunte, riletture, riscritture.
Non come sistema filosofico e non per esercizio di saggezza – e come avrebbe
potuto? Montaigne era scettico di proposito. Perciò curioso sempre: è questo il
meccanismo. E tuttavia di giudizio certo (solido).
Il segreto della
longevità di Montaigne è di aver dovuto cominciare a parlare in latino? Con
istitutore tedesco inflessibile, su prescrizione del padre, legista altrettanto
inflessibile; Cui il resto della casa doveva acconciarsi: “Mio padre, mia
madre, i servitori e le fantesche in mia presenza dovevano usare soltanto
quelle poche smozzicate parole latine che ciascuno di loro aveva imparato per
comunicare con me”. Che sembra ridicolo, certamente non utilitaristico, ma è un
progetto pedagogico degno di nota.
Antoine
Compagnon, Un’estate con Montaigne,
Adelphi, pp. 136 € 12
Stupidario ordinario
“La
Livorno-Civitavecchia rischia di diventare un’incompiuta. Esauriti i fondi.
Verso lo stop ai lavori. Esultano gli ambientalisti e i capalbiesi: fine di un’orribile
utopia”
“Bombe
d’acqua a Roma. Indaga la Procura”.
Lunga intervista
del tagliente Roncone a Franceschini su “Style”: personaggio chiave, decisivo,
grande romanziere, di successo, fidanzata giovane. Da leggere, Franceschini se
l’è messa online:
“L’Italia
è il primo paese al mondo per visite dei bambini su siti di gioco d’azzardo (il
16 per cento degli accessi) e con carte di credito a pagamento (8 per cento)”.
È secondo, dietro la Russia, per armi e “contenuti senza censura”, cioè
pornografia, crudeltà, droghe. Bisogna rivedere l’Italiano brava gente. O
l’attendibilità della ricerca: su che basi si dicono queste sciocchezze – il
bambino con carta di credito? C’è da vendere un dispositivo internet di
bloccaggio?
Perché
in Italia si pubblica di tutto? Per il sorriso di una pr? Per stupidità? C’è un
fee?
“Le Grandi Opere che
l’Italia non sa più costruire. Dalla Salerno-Reggio al Ponte sullo Stretto”,
“Corriere della sera” 9 giugno: “Spesso indicata come l’emblema delle opere
incompiute. L’autostrada A 3 Salerno – Reggio Calabria aprì il primo cantiere
nel 1963. L’attuale rifacimento è iniziato nel 1997 e forse verrà finito entro
20 anni”. Mentre è vero il contrario: tutti
lavori appaltati sulla Salerno-Rc sono stati completati, più o meno nei
tempi – se ci sono 395 “cantieri mai portati a termine” non è su questa
arteria. Dal 1971 l’A 3 è percorribile per intero. L’ammodernamento è
cominciato nel 2002.
Crollano gli investimenti esteri in Italia. In cinque anni,
dal 2007 al 2013, il calo è stato drammatico: -58 per cento. A dirlo è il
Censis, nel sesto numero del “Diario della transizione”: “Gli investimenti
diretti esteri nel nostro Paese sono stati pari a 12,4 miliardi di euro nel
2013”. Cioè un ammontare enorme.
domenica 22 giugno 2014
Problemi di base - 187
spock
È arrivato prima don Matteo della Rai in bicicletta
oppure padre Brown della Bbc? (Maigret)
Supermario supersanto subito? la cresta ce l’ha già
Ma Balotelli che ha più di Pulici?
Ha segnato più gol, ne ha segnati di più belli?
Beckham è – era - lanciatore migliore di Pirlo?
E lo avrebbero costretto – Beckham – al tiki-taka,
anche lui?
Perché Paletta è meglio di Bonucci?
E Thiago Motta?
E perché portare Bonucci fino in
Brasile?
spock@antiit.eu
Ombre - 225
Creste, tatuaggi, pettorali, scarpini
bicolori, i capricci per il 9 e il 10 in Nazionale, le cuffie, twitter, e la
capigliatura scolpita nel gel, anche al novantesimo. Il calciatore non si
segnala più per l’atletismo, ma per fare personaggio: più gel più milioni. Da
sponsor, pubblicità e club.
James Murdoch va, col suo ad in Italia
Zappia, a trovare Renzi a Palazzo Chigi. Zappia è democrat professo. Ma i
Murdoch sono conservatori professi, e anche reazionari. E la visita è alla vigilia dell’assegnazione
dei diritti tv sul calcio. Poi dice Berlusconi.
Ricevendo Sky alla vigilia della contesa
assegnazione dei diritti tv sul calcio, Renzi vuole mostrare di avere le spalle
larghe? D’Alema prima di lui, altrettanto franco, uscì di scena con la nomea
di Finanziaria Palazzo Chigi. Una
battutaccia della malalingua Cossiga, ma inventata?
Il giudice Esposito non si presenta al
Csm, al procedimento disciplinare. Manda un certificato medico. Lo manda con la
figlia, che è anch’essa giudice. E col difensore Davigo, il giudice - missino - dei
“pedalini”. Nobiltà delle toghe?
Il certificato medico del giudice
Esposito è per tre giorni. Quelli dell’udienza al Csm.
Berlusconi non è simpatico, ma che dire
dei suoi giudici?
Si fa la gara per i diritti Champions, tutto
semplice, tutto limpido, Murdoch (Sky) perde, niente da ridire. Si fa la gara
per i diritti della Serie A e Sky trucca le offerte, ogni squadra si vende
(vende il suo voto), i giornalisti benpensanti intimano di non considerare Mediaset
– Sky paga bene le collaborazioni. L’Italia
in effetti non se la passa bene.
“Quello del giornalista è un mestiere di poco futuro e scarsa moralità”, stabilisce Piero Ottone con Vittorio Zincone dall’alto dei suoi novant’anni. E su Montanelli: “Su di lui ne posso raccontare molto”. Coraggio. O aspetta i cento? E l’omertà, sarà morale?.
Ottone fa un’eccezione per Londra. A
Londra il giornalismo è puro, dice. Un dubbio facendo insorgere: ma lui, c’è
stato?
Si premiano i pubblici accusatori di
Tortora a Napoli, un processo che fu la punta estrema della stupidità o abiezione
che ingombra la giustizia. A opera di un sindaco “civico” del Pd.
Un processo che non ebbe mai un pentito. Uno vero, tra i tanti giudici che Tortora perseguitarono per partito preso, senza mai un indizio.
Nei sette anni precedenti Napolitano è stato presidente del Csm in sonno. Non al modo massonico, evidentemente. A quello dei sapienti dell’antichità? Anche loro dormivano, in genere per multipli di sette.
Un processo che non ebbe mai un pentito. Uno vero, tra i tanti giudici che Tortora perseguitarono per partito preso, senza mai un indizio.
Nei sette anni precedenti Napolitano è stato presidente del Csm in sonno. Non al modo massonico, evidentemente. A quello dei sapienti dell’antichità? Anche loro dormivano, in genere per multipli di sette.
All’ottavo Napolitano si scopre
presidente del Csm e lo “invita”, autorevolmente, ad assolvere Bruti Liberati.
A questo punto, Napolitano non potrà dire che non c’era.
Dunque,
Bruti Liberati si sostituisce al giudice naturale di Berlusconi nell’affare
Ruby – art. 25, comma 1 della Costituzione: “ Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Bruti Liberati è protetto da Napolitano. Napolitano si è sostituto al
giudice naturale di Berlusconi. Oggi non si può dire, non è tollerato. Ma è la
storia.
Per il Mondiale, alcuni giornalisti sono stati mandati all’estero, e hanno scoperto che l’Italia non è il paese di merda dei loro giornali. Non si potrebbe mandarli in gita fuori più spesso? Magari tagliando gli uffici di corrispondenza a Bruxelles e Berlino – tradurre Angela Merkel si può fare a Roma o Milano.
L’Europa al guinzaglio
Nell’incontro a Parigi
il 21 marzo 2011, indetto dagli Usa con la Ue, la Lega Araba e l’Oua (Organizzazione
per l’unità africana), tre “ruote di scorta” per l’attacco a Gheddafi, Sarkozy
fregò tutti attaccando per primo all’insaputa degli altri. Sembrò un gesto glorioso
d’indipendenza. Che Hillary Clinton però,
segretario di Stato (degli Esteri) Usa
all’epoca, e futuro presidente, così ricorda nelle memorie “Scelte difficili”.
“Il segretario alla Difesa Gates era assolutamente contrario. Era un
veterano dei conflitti in Iraq e in Afghanistan, e realista sui limiti del
potere americano, dunque non riteneva che i nostri interessi in Libia
giustificassero il sacrificio”. Non era solo: “Sapevamo tutti che le
conseguenze di un intervento potevano rivelarsi imprevedibili…..
“Poi, prima ancora dell’inizio della riunione ufficiale, Sarkozy prese
da parte me e il premier inglese, David Cameron, e ci confidò che gli aerei
francesi erano già in volo verso la Libia.
“Quando
scoprirono che la Francia era partita prima del via, gli altri Paesi (europei)
si inalberarono… Berlusconi, caparbio e smanioso di protagonismo quanto
Sarkozy, si mostrò particolarmente indignato….
“Sentendosi
messo in ombra da Sarkozy, Berlusconi minacciò di abbandonare la coalizione e
sbarrare l’accesso alle basi aeree italiane”. Una muta di barboncini dispettosi.
Ed è tutto.
“Suscettibilità
a parte”, concede H.Clinton in conclusione al (breve) episodio, “il disappunto
italiano e di altri paesi era giustificato”.
Gli americani
non sono teneri, si sa. Ma la volitiva Clinton sembra più che altro divertirsi:
troppo facile, troppo stupidi. I prim’attori di una guerra.
I liberali al cimitero
Passato
dallo zoo al cimitero, ma sempre nel cuore di tutti, il liberalismo è tanto più
simpatico nel nome di Gobetti. Ma basta scorrerlo, scorrere Gobetti, per
capire: molti buoni propositi e molta confusione. Fortemente attratto dalla
personalità di Gramsci e dal movimento comunista torinese fin dal 1918, ben prima
della scissione, attorno alla Fiat-Centro, cresciuta nella guerra a “piccolo
Stato capitalista”, Gobetti non si decise personalmente al gran passo ma volle
convertirvi il liberalismo. Un
destra-sinistra oggi indigesto - rileggere Gobetti oggi è come leggere
Scalfari, contro ogni partito e contro ogni politica in realtà, per i “tecnici”
illuminati e onesti, la “classe dirigente” di cui il giovane torinese vaticinava (non ridicolmente definita
infine degli “apoti”, di “coloro che non la
bevono”, né il fascismo né il sovietismo, in realtà degli apolitici).
Questa di
Pietro Polito, l’ultimo confidente di Bobbio, è un’altra antologia della “Rivoluzione liberale”, con una mezza
dozzina di articoli tratti da altre testate. Rispecchia quindi l’antologia che
lo stesso Gobetti aveva estratto dalla rivista a marzo del 1924, ma la scelta e
l’impianto cronologico ne mettono in evidenza, più che la brillantezza, le incongruenze.
Un ritorno all’ordine in una prospettiva sempre palingenetica, terribilista.
Ai collaboratori
della sua prima rivista, “Energie nove”, scrive il 30 novembre 1920: “La
scissione del partito socialista è il cimento estremo. Riusciranno gli operai a resistere alla crisi? a
cacciare i socialisti destri che sono il compromesso che tenta di negare le
posizioni nette? Questo è il problema. I borghesi (accettiamo dal linguaggio socialista
il termine) lavorano per scindere l’unità ideale degli operai. Non riusciranno.
La loro opera è ad ogni modo il massimo delitto della nostra storia. Spezzare
il movimento operaio oggi vale distruggere l’unica realtà ideale e religiosa d’Italia”
– ideale? religiosa? “Io non coltivo miti: non credo che la massa sia evoluta e
cosciente: non vedo nei più neanche il preludio a una coltura politica che sia
pratica politica. Pure questo è meno importante. Il fatto gigantesco è che il
popolo (quello che era il fantasma di Mazzini) chiede il potere. Il popolo diventa lo Stato” – con Mussolini? “È
venuta l’ora di affermare e dimostrare il valore
nazionale del movimento operaio” – contro i socialisti?
Poche
settimane, e il 20 febbraio Gobetti si inorgoglisce: ha “dimostrato”, dice, che
la rivoluzione russa “è essenzialmente un’affermazione di liberalismo”. Sulla
fede di Trockij: “Trotski afferma, per primo in Russia, una visione liberale
della storia”. Ma “La rivoluzione liberale”, il suo nuovo giornale, porrà
subito dopo al primo punto della sua azione “la mancanza di una classe
dirigente come classe politica”.
Gobetti sarà un martire di Mussolini, e il suo riverbero resta luminoso. Ma che altro? Il compito
che si dava, “una ripresa del movimento rivoluzionario del Risorgimento, che
entri alfine nello spirito delle masse popolari”, è immane e benemerito. Ma a
che prezzo? “Tutti questi propositi sono schiettamente liberali e autonomisti”,
i propositi dei “comunisti torinesi” subito dopo la scissione di Livorno: la
disciplina, autorità, l’unità, e la violenza – “la violenza, sopra i
sentimentalismi e i danni contingenti, dimostra fermenti vitali, energie decise,
pensieri maturi”. E il disegno è mettere “un’aristocrazia politica liberale” ‘n
coppa “al movimento sorto dal basso”.
Piero
Gobetti, La rivoluzione italiana,
edizioni dell’asino, pp. 255 € 15
Gobetti sarà un martire di Mussolini, e il suo riverbero resta luminoso. Ma che altro?