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sabato 30 agosto 2014

Il mondo com'è (185)

astolfo

Africa – È sempre terra incognita, a partire dalla Libia, che l’Italia con le cattive e con le buone per un secolo ha occupato, fino alla caduta di Gheddafi. Ma non è l’Africa che è sconosciuta, in tanti ci viaggiano, dalla Cina e da San Francisco, e tutto del continente è noto. Solo in Italia l’ignoranza resiste, e anzi si accresce: se ne sapeva di più qualche decennio fa.
È stata anche campo d’esercitazione del bisogno italiano d’imperialismo, nonché fonte di afflittivi mal d’Africa, in versione “principessa” etiope e vergine somala di tribù. Ma resta incognita, sempre più col passare del tempo. In tutti i suoi aspetti: la cultura non solo, ma le condizioni di vita, perfino la fauna, la flora. Si accettano gli africani ambulanti e dei mercatini, come se fossero alla fiera.

Automatismi – Si dice dei servocomandi quanto siano utili. E invece sono traditori. Chiunque può permettersi una macchina tedesca lo sa, che si allarmano a ogni movimento. Non avendo la macchina tedesca, siamo comunque tutti vittime, anche i navigatori esperti,  del correttore automatico, specie con le tastiere inglesi, e con l’i-phone: bisogna non solo ingegnarsi a scrivere ma anche esercitare una vigilanza costante, il correttore è traditore.
Strafà pure google. Una ricerca di Uomini Tedeschi, da intendersi il titolo di Walter Benjamin, provoca una valanga di incontri con uomini. Un p digitata per Palmi Mare, una consultazione interrotta momentaneamente per altre evenienze, dà una valanga di P-Mate, “anche le donne possono fare pipì in piedi”. Ripreso il meccanismo a distrazione conclusa, ce ne vuole per raccapezzarsi su chi possa avere mandato il messaggio, o come funziona un potenziometro: l’apparecchio è invaso da P-mate. In tutte le lingue – The reliable Stand and Pee device for women. No need to undress. Eùkola, aneto, diakritikò, allà propantòs, gpeino!... Con youtube se si vuole vedere, l’assicurazione di “Tuttopodismo”,  varie offerte al ribasso su eBay, etc.

Galileo – Strano destino, quello di Galileo, misirizzi fastidioso della ragione e della libertà. Nel 1982, il trecentocinquantesimo del “Dialogo dei massimi sistemi” (1832) fu celebrativo. L’anno dopo, il trecentocinquantesimo della condanna del Sant’Uffizio fu perplesso: che processo era stato quello. Cinque anni dopo sarebbe stato il turno dei “Discorsi intorno a due nuove scienze”, 1638, la meccanica e la dinamica, ben chiari malgrado la condanna e l’abiura (“che i teologi non condannarono perché non li avevano capiti”, Timpanaro): Galileo vi rafforza le fondamenta del copernicanesimo e apre l’indagine sulla struttura della materia. Si ebbero invece due Galilei “rovesciati”: la chiesa ne fece un precursore e quasi un santo, con la collettanea “Galileo Galilei, 350 anni di storia”, mentre i laici, con il “Galileo eretico” di Pietro Redondi, lo rivendicarono appunto come eretico, ma rinnegato. Se ne è riparlato quest’anno, per i 450 anni della nascita, ma poco. Senza interesse. 
Le ricorrenze di malavoglia sono piuttosto l’espressione non di una diffidenza verso il personaggio quanto l’effetto di un rifiuto generalizzato, della storia, della scienza, dei saperi. Perché cadono nella crisi. Nella crisi della civiltà della crisi. E più in Italia.
L’impasse è profondo in cui si trova l’Italia, delle istituzioni ma anche della cultura, della psicologia nazionale (ne esiste una). E forse della piega del secolo, della sua visione senza radici, e senza visione, solo accelerato. 

La sonda Galileo, lanciata nel 1989 per cercare su Giove la chiave del Big Bang, non ha dato risultati, ma il vero Galileo non ne ha colpa. Lui era un artigiano, il vecchio uomo artifex, il tecnico coscienzioso e senza complessi, si direbbe oggi, non il teorico visionario.

È l’emblema della simulazione? È l’immagine che ne ha proposto Redondi in “Galileo eretico”. In armonia, si può aggiungere, col primo Seicento. “Procedo mascherato” era il motto di Descartes, che si vuole il fondatore della logica – cui si devono pure queste altre parole famose: “Bene vixit qui bene latuit”, per giustificare la mancata pubblicazione del “Trattato del mondo”, è meglio camuffarsi. Era l’epoca della “Dissimulazione onesta” di Torquato Accetto, una sistematica della simulazione – per la verità poco diffusa (prima che Croce la scoprisse) - fuori di Andria e Trani. Hobbes, altro contemporaneo, aveva si può dire come motto: “Auctoritas non veritas facit legem”. Ma era anche l’epoca delle certezze. Bacone – cui Marx fa risalire nella “Sacra Famiglia” l’origine del materialismo storico – l’aveva bollata come indice di debolezza mentale. Galileo è comunque umorale e anche collerico, tutto l’opposto dell’ipocrita o “fingitore”. L’uomo aveva tanta forza da reggere da solo alla chiesa e ai tanti cardinali. Gli piaceva litigare. Duro in famiglia, e anzi collerico: alle due figlie, che aveva avuto dalla veneziana Marina Gamba e non volle riconoscere, impose il convento.    
  
Magna Grecia – È stata, con più continuità e propriamente, costituita dal Salento e la Calabria. Entrambe, a turno, chiamate Calabria, come regno dell’abbondanza. E entrambe greche (bizantine) più a lungo, fino alla discesa dei Normanni. Specie nella lingua, con persistenze tuttora consistenti. Ma due regioni antitetiche: il Salento piatto la Calabria quasi ovunque montuosa, il Salento mite la Calabria eccitabile e violenta.

Opinione pubblica – Non è più pubblica nel senso della rappresentanza del grande pubblico, ma in quello inglese di “privato”. A favore di padroni, corporazioni, gruppi d’interesse. Già sconfitta – rovesciata – dai poteri dominanti nell’analisi di Walter Lippmann, 1922, poi rigenerata come veicolo politico da Habermas quarant’ani dopo, è oggi per ogni aspetto il segno e il fondamento del potere. Non il potere di critica – di evoluzione, rinnovamento – che fonda la democrazia secondo la formulazione originaria di Locke (e poi di Kant, Burke, Bentham, Topcqueville, Constant, Guizot), cui compete la legge morale, mentre quella normativa è funzione del potere politico. Ma il controllo della stessa, attraverso l’informazione, controinformazione compresa. All’insegna della disinformacija sovietica, l’uso dell’informazione. Nessun dubbio che questo avvenga anche oggi che, col mondo in rete, l’informazione si presenta atomizzata, in reti, forum, sondaggi, blog, giornalismo libero. L’opinione dominante è qui quantitativa.

La recessione. Lo spread trattato come un arcano. Le “riforme”. La corruzione. Il blocco della Pubblica Amministrazione. Berlusconi per lunghi anni, come oggi, specularmente, Renzi. Il Parlamento inutile. I femminicidi. Lo sterminio delle famiglie. L’immigrazione nel mare Libico. La Libia, che pure è un paese confinante e a lungo italianizzato: non sappiamo cos’è, e dov’è. Le guerre, che pure combattiamo. Non sappiamo niente di quello che succede. Fuori d’Italia e anche in Italia. Che ora si pretende di difendere, nel nome della libertà, a base d’intercettazioni.
Non c’è mai stato un distacco come oggi tra i giornali e la realtà. O meglio ci sarà stato, ma oggi è insopportabile e forse pericoloso. Meglio ancora: sempre lo sarà stato, ma ogni volta è male, e anzi peggio. Qualsiasi questione si guardi con l’ottica dei media si vede travisata.

Totalitarismo – Quello contemporaneo è persuasivo. Quello del Novecento, fascista, sovietico, comunista, castrista, militare, era di polizia, così come in questo secolo quello dei regimi islamici. Ma da tempo passa, anche nel khomeinismo e negli altri regimi islamici, per l’informazione e l’opinione pubblica. Per il dominio, o il controllo, della stessa: la creazione di miti forti, il mercato, la giustizia, l’ambiente, la sharia, e indiscutibili. Che non sono quello che dicono, ma esprimono e proteggono gli interessi in controllo – si veda il mercato, o lo stesso fondamentalismo islamico.

astolfo@antiit.eu



Il libraio è eroico sotto l'Aspromonte

Pochi abili tratti – Coloprisco di professione insegna Omero, per passione è teatrante – tracciano l’ambiente nella memoria: il grecale di tre giorni, che fa gemere gli ulivi, le fosse del carbone, il braciere, zappatori e raccoglitrici all’alba, il mare sotto la nevicata, tra Palmi, il Sant’Elia, la Marinella, la Tonnara, le zeppole, il Torbido. Nello sguardo del protagonista che Coloprisco vuole puro, e quindi di mestiere libraio – uno che non vende non s’infetta.
Libraio era anche il protagonista un paio d’anni fa di un altro autore del territorio che lo vuole puro, Vincenzo Caccamo – che però è di mestiere lui stesso libraio, i libri riuscendo in qualche modo a venderli, perfino a Reggio Calabria. Questo di “Meladoro”, il nome fittizio del paese del libraio, è realista, oltre che puro, un commerciante che sa unire i capi del filo. E la vicenda di soprusi e delitti finisce in qualche modo bene, seppure non si dica per scongiuro, e per lo stesso motivo anzi solo si prospettino dolori. Lontano comunque da casa, dalla famiglia, gli affetti, i progetti, dall’Aspromonte, dalla Calabria.
Con la vivacità del dialogo, maturata nell’esperienza teatrale, Coloprisco ha costruito un apologo, della bontà che sempre vince. Ma di personaggi senza storia e senza spessore. Eccetto naturalmente i mafiosi – che nella vita vissuta sono invece poveri di mente, al limite della follia, anime irsute, e sempre brutti. Senza armi per combattere il male, senza idee, senza appigli. E senza nemmeno il candore, giusto il vittimismo.
L’apologo non è una forma tradizionale: la narrativa di e sull’Aspromonte, di Alvaro, Perri, Zappone, Delfino, Gangemi, è ben scultorea, rilevata, intrisa di umori, passioni, accensioni, ire, beffe. È una forma imposta forse dalla nientificazione, che da un mezzo secolo circa opprime il Sud con accumulo di detriti e scarichi tossici, nei libri, nei giornali, alla Rai, e ormai, dopo due generazioni, con più forza nella psicologia stessa dei meridionali. Un modo di dire mea culpa.
Aldo Coloprisco, Il libraio di Meladoro, Laruffa, pp. 173 € 13

venerdì 29 agosto 2014

La chiesa senza il sacro

Sono state abolite le processioni in Calabria per più motivi. Per una questione d’opinione pubblica anzitutto: poiché la Rai dice le processioni mafiose, non si sta a sottilizzare, si taglia l’evento. Per questioni di potere, tra i parroci e i comitati delle feste. Quando i vescovi hanno abolito le processioni, i comitati hanno abolito  le feste. Per questioni di soldi anche: i santi, le Madonne, le processioni generano una raccolta di fondi che i comitati delle feste pretendono di gestire e i parroci vorrebbero fare proprio. Questo motivo è stato anche discusso pubblicamente, con manifesti e manifestazioni, ed è l’argomento dei pettegolezzi. I comitati fanno valere di avere rimborsato – niente processione niente festa - tutti i contributi, piccoli e grandi, già raccolti poiché ne tengono la contabilità, mentre le offerte i parroci intascherebbero senza renderne conto.
Le Madonne del resto, esposte in chiesa nei giorni canonici senza processione, raccolgono sempre bigliettoni in forma di offerte, ex voto, segni di devozione, sacrificio personale, acquisizione di meriti – dell’Assunta e della Catena possiamo testimoniarlo di persona. In molti paesi i fedeli sono contro le feste civili, senza la processione – la festa religiosa. Appoggiano cioè i comitati laici delle feste. Specie in tante feste della Madonna di Porto Salvo, nei paesi di mare, Gioia Tauro Marina, Siderno, Melito. La Varia, invece, a Palmi, proprio quest’anno si è disgiunta dal suo senso religioso, che pure ne condiziona l’impianto e il senso, e si celebrerà domenica come evento tradizionale-folklorico, sotto il patrocinio dell’Unesco.
L’insolenza non è da escludere, né la stupidità. Non delle forze dell’ordine, per definizione furbesche: la 
mafia c’entra poco. Finora nulla: le processioni sono finite sotto accusa nel quadro del “tutto è mafia”, ma non ci sono incriminazioni. Non ci sono nemmeno indagini. Gli stessi adepti del tutto è mafia, essendo di solito anche devoti, non trovano fatti da contestare, volentieri s’impappinano. Non una misura di ordine pubblico, dunque. Piuttosto una rivoluzione dall’alto, come una volta si chiamavano quelle fasciste. Per ora solo sociale: una condanna aggiunta alle tante altre, una convivialità sempre più spenta. Uno stato d’assedio quasi perfetto, comprensivo del coprifuoco. L’esito è l’abbandono.
Neo catacombale
Il tema reale del divieto è un’altra chiesa. E forse nessuna chiesa. Che sembra eccessivo, ma è il filo forte della questione. Il neo vescovo di Locri nella sua prima lettera ai fedeli ha detto le processioni un residuo di paganesimo: “Resistono processioni dalla lunga durata, durante le quali tutt’altro si fa che pregare. Esse nascondono radici che sanno di paganesimo, o comunque sono evidente commistione tra sacro e profano”. Che non è un senso beghino della preghiera, come salmodia di un testo scritto. Piuttosto è detto, anhe se non si dice e forse non si sa, nel quadro di un’altra idea della chiesa, quella cosiddetta post-conciliare o neo-protestante, che è in realtà neo-catacombale. L’effetto è paradossale – ma evidente a chi lo vive: l’idea ammazzasanti è ecclesiastica. E così, mentre il laicismo ripropone il paganesimo, con altri dei, mitici, storici, avventurosi, galanti, la chiesa abdica ai suoi. 
Il clero ha sempre odiato le processioni: troppa fatica, troppa polvere, canti, musiche, offerte, invocazioni, lacrime. Che si labellano riti pagani. Negli ultimi decenni, postconciliari, anche la chiesa, nella sua ansia protestante di religione nuda, spoglia di tradizioni, ha patrocinato il sospetto, se non il rifiuto, del rito. Niente più incensi, labari, congregazioni in costume, statue, quadri, Madonne. Ma il rifiuto non è tanto ovvio quanto sembra.
Il rito è un bagaglio di cui sarà difficile liberarsi, per una miriade di ramificazioni e stratificazioni. Sulla Madonna, il Cristo stesso, gli innumerevoli santi. Di fatti magari inafferrabili, se non di leggende, ma oggetto di forti passioni – la volontà di credere è sempre forte. A meno di un effetto Sansone: se la chiesa non vuole tutto l’edificio crollerà, per quanto robusto e complesso, l’edificio della chiesa. 
Superstizione e paganesimo sono concetti polemici. In sé sono indefiniti: vaghi, inadeguati, scivolosi. Di essi si è sempre cominciato a indagare senza andare a fondo. E quindi vasti, tali da ricomprendere il rito, ogni rito. Lombardi Satriani, che più vi si è avvicinato, non dismetterebbe come irreale, e anzi peccaminosa, la funzione rituale. Il sacro è esso pure indefinito, e forse indefinibile, ma ha segni tangibili. Si prendano i miracoli. I due vescovi che hanno proibito le processioni in Calabria come pagane celebrano negli stessi giorni san Francesco da Paola che attraversa lo Stretto di Messina volando – ma il santo da Paola è tutto discutibile: un santo, lo ricorda Gay Talese che ne ha vissuto il culto in casa da parte del padre, che “si era fatto un credo di punire le pie pratiche e i rituali che persistono nell’Italia meridionale, ancora oggi dopo quasi sei secoli dopo la nascita del santo”, che moltiplica cioè, nel mentre che la vitupera, la sua propria devozione, la devozione di se stesso. La stessa devozione, il colloquio col sacro, è pagana, come no, la preghiera. Sciamanica, stregonesca. E i sacramenti?
Del resto, la chiesa può abolire il rito ma non la festa. Che dunque continuerà senza i santi e le Madonne. E già si fanno, per lo stocco, il pescespada, la patata, la soppressata, e perfino per la birra. Tutto il sacro, si sa, è discutibile. Specie alle menti semplici. Gli inchini della Madonna ai mafiosi sono il segno della confusione che periodicamente investe i fedeli, scuotendone la fede. Oggi della chiesa suddita della pubblica opinione. Anzi del talk-show, un tribunale di belli, dalla voce rotonda, e per questo persuasivi, quelli che dicono comunque le cose giuste. Sotto le parole niente.

F & L idraulici della poesia

Una corposa plaquette di versi di varia ispirazione, ironici e non solo, composta dal duo nei tardi anni Sessanta, mentre scrivevano “La donna della domenica”. Quattordici poesie di Fruttero e tredici stanze, il Libro I del poemetto “Epigrafica e Metafisica”, del filosofico Lucentini. A essi confidavano i loro “sogni di gloria”, diranno all’ultima riedizione, vent’anni fa, alla “Donna” il fabbisogno alimentare.
Le cose sono andate diversamente, ma non sono versi da buttare. Non poetici, prosastici, non un apparato di note, ma di taglio ogni componimento in piccola misura memorabile. “Da Ninive, con amore”, per esempio, cinquant’anni fa. Ironico, ma anche cattivo, Fruttero, serioso, anzi serissimo, Lucentini – troppo, forse, per credere in se stesso? Una bella mescolanza.    
Fruttero & Lucentini, L’idraulico non verrà

giovedì 28 agosto 2014

Problemi di base - 194

spock

La riforma della giustizia è che siamo tutti colpevoli? Ma non c’era nella Bibbia?

Sulle processioni, non sarà guerra tra cupole?

Il vudù è meglio in chiesa della tarantella?

Lo sciamanesimo è meglio del latino?

E i sacramenti, dove li mettiamo?

Anche le chiese, non sarebbe meglio una  tenda?

Perché le leggi salvano sempre un Ex Cavaliere?

E chi è questo Ex Cavaliere che occupa i nostri titoli? Tutto maiuscolo, non sarà un tedesco?

spock@antiit.u

L'universo concentrazionario era in Alvaro

Una lettura consigliabile a scuola per i venticinque anni della caduta del Muro, anche se di autore meridionale, e perciò bandito dai programmi ministeriali. “Sotto il potere di mille occhi, di mille volontà, di mille forze che dominavano su ciascuno”, parlarsi era “un fatto come medicarsi e asciugarsi le ferite”. In una città in cui “una folla spenta e informe… camminava a uno a uno”. Larve che vanno per strada “tutti di fianco, come per evadere da un varco troppo stretto”. La socialità estrema, per legge, per forza, senza colloquialità, senza personalità. Per una storia d’amore che evidentemente non ci può essere, fin dalle prime righe, la vita di ognuno gli è stata estratta, e sfugge: “Ognuno era chiuso in una sua idea segreta, e questa idea spesso era futile, ma molto importante, come se fosse passato sul mondo il diluvio”.
Un romanzo claustrofobico. Di violenza sorda, che non si manifesta ma si respira: niente accade, ma c’è, si sa – il verbo è giusto, la violenza è interiorizzata. Un romanzo ancora vivo, vittima alla riedizione nel 1946 della guerra fredda, quasi fosse opera di propaganda antisovietica, e anzi di apologia fascista. Mentre è il romanzo del totalitarismo, dell’orrore – ambientato in Russia da una nota aggiunta su pressione della censura all’uscita nel 1938, spiegherà Alvaro alla riedizione nel dopoguerra (ma Stalin c’è, benché non nominato, alle pp. 70-71, ed è anzi un ritratto notevole, di “un uomo piccolo come un idolo”. È il romanzo del regime carcerario, invisibile e onnipresente, che resterà stigma del Novecento, un  secolo detto breve e invece interminabile. Con code nel Duemila, nel khomeinismo e nel castrismo.
Alvaro lo tratteggia in profondità, nella psicologia – la violenza più radicale. Col merito non minore, in lui ineguagliato seppure sulla traccia di Flaubert, di saper leggere la coppia dal alto di lei, della femmina nei confronti del maschio – oggi eretica, nella conformistica indifferenza dei generi, e perciò forse più sorprendente. Con un altro merito non dirimente ma non da dismettere: dopo Huxley, “Brave New World”, il totalitarismo tecnologico, ma prima di Koestler e Orwell, di quello più propriamente politico. Con l’idea interiorizzata della colpa, come avviene nell’educazione religiosa (“che quando ti sei messa nell’animo l’idea del peccato non te la levi mai più. Ti sembra sempre che qualcuno ti veda e ti giudichi”), che germinerà anch’essa in un genere, del comunismo chiesastico: l’Inquisitore è uscito dal seminario. Con un punto d’osservazione migliore, dell’“estero”. I protagonisti venendo dall’“estero”, possono mettere in quadro meglio la situazione, con quinte e termini di confronto. A beneficio del lettore, oltre che della cosa – il romanzo è “lungo” senza esserlo.
Alvaro avrebbe potuto vantare il primato dell’“Uomo è forte” sul fantapolitico “1984” di Orwell e sulla testimonianza di “Buio a mezzogiorno” di Koestler, dell’“uomo chiuso nel labirinto dei processi” – Kafka . “Non lo fece, per non dare esca all’anticomunismo”, nota Nino Borsellino in una succinta prefazione che è il saggio più penetrante dello “scrittore nel fascismo”, e della personalità di Alvaro. Che non reagì alla richiesta del regime di dire in nota il romanzo ambientato in Russia. Un segno di debolezza: Alvaro era uomo retto ma non un combattente. Un “resistente dell’interno” si direbbe, con la terminologia adottata in Germania sotto Hitler.
Resta comunque il narratore di fine introspezione sempre. Oltre che il “coscienzioso informatore”, come si definiva, dei tanti itinerari di giornalista, a Parigi, in Germana, in Turchia, e nell’Unione Sovietica. “I maestri del diluvio. Viaggio in Russia” sarà l’epitome giornalistica di questa missione, “L’uomo è forte” quella narrativa. Il richiamo a Dostoevskij è d’obbligo, per la figura dell’Inquisitore e per lo scavo nelle psicologie interminabile, ma non rituale: questo universo concentrazionario è di intensità ineguagliata nella pur corposa pubblicistica di genere successiva. Per la paura: la libertà, possibile, fa paura, l’amore fa paura. Per la corruzione sistemica – questo fatto resta inesplorato anche nell’affollatissima pubblicistica sulla Germania nazista: “Abbiamo bisogno di corruttori come di un servizio pubblico”, dice l’Inquisitore amabile.
Anche la breve nota biografica di questa riproposta è pregnante: “Arruolato nel 1915, viene ferito alle braccia e congedato con una decorazione”. Non ne abbiamo saputo mai nulla. Mentre la stessa ferita diventa segno e materia di tutto Céline – il riserbo era un tempo virtù dei calabresi, ora legnosissimi.
Il romanzo “più bello” di Alvaro lo dice Borsellino. Uno dei migliori del Novecento, si può aggiungere a distanza. Cadde stroncato da Giacomo Debenedetti sull’“Unità” - prima che “l’Unità” stroncasse Debenedetti, la sua giusta ambizione a una cattedra: “Il più infelice e il più sbagliato dei romanzi di Alvaro”. Che però, anche a prenderlo come antisovietico, era solo antiveggente. L’universo concentrazionario è stato rimosso ma era con noi appena un quarto di secolo fa. Chiunque sia stato a Mosca ancora negli anni di Breznev, non molto tempo fa, trent’anni, vi si riconosce.

La riedizione si fa nella collana Scrittori di Calabria di Aldo Maria Morace, che mette alla prova “la storia delle marginalità” proposta da Dionisotti in una ideale Biblioteca delle Regioni. Prima del ministero, dunque, lo scrittore meridionale si autoespelle dai “programmi nazionali”. Non è detto che sia un male.
Corrado Alvaro, L’uomo è forte, Ilisso-Rubbettino, pp. 219 € 5,90


L'Eurogruppo è cosa di Angela merkel

Presidente uscente dell’Eurogruppo, il consiglio dei ministri dell’Economia dei paesi che hanno adottato l’euro, è un olandese. Uno cioè che è come dire un tedesco. Il presidente uscente ha anche un nome ma non importa, lì ce l’ha messo Angela Merkel. Dopo che ci aveva messo Juncker – il cui successore si è immortalato definendolo “uno che fuma e beve troppo”.
Nuovo presidente dell’Eurogruppo sarà De Guindos, candidato di Angela Merkel. De Guindos viene dalla Spagna, un feudo fedele della Germania. È un democristiano, ma non fa differenza. Non rispetto al presidente olandese, che invece era laburista. I partiti a Bruxelles sono di colore diverso, germanici e non.
De Guindos è peraltro somigliantissimo all’altro spagnolo di fiducia della Germana a Bruxelles, il commissario alla Concorrenza Almunia. Che invece è socialista. E questo la dice tutta: la Germania li fa con lo stampo.
È una squadra che gioca con le ali, quella tedesca – sulla “fasce” si dice in gergo. Ma senza strafare, le ali anzi le nasconde: lascia sbizzarrire gli altri e si limita alla cosa giusta. Renzi, per esempio, che ci si diverte, avrà la politica estera, che non esiste.
È anche il metodo Merkel, che non si sgola, e non dice battute. Lascia che gli altri si strozzino da soli – Monti, lo stesso Napolitano. E poi, in area, tempestiva piazza la palla giusta. .

mercoledì 27 agosto 2014

Quant'è mafioso lo Stato

Finalmente sappiamo perché Riina si confessa. Perché vuole incastrare lo Stato nel processo Stato-mafia. Il boia di Corleone girovaga nei ricordi, ma mettendo dei paletti: quello fondamentale è ora Andreotti.
Tutto concorre. Che Riina operi d’accodo col Procuratore di Palermo Di Matteo è da farsa. Ma è quello che avviene: che un processo si basi sulle accuse di supermafiosi, Ciancmino, Riina, per giunta nemmeno “pentiti”.
L’autore di una diecina di stragi parla davanti a un microfono, che la registrazione venga bene, nel carcere milanese di Opera. Sta al 41 bis, ma parla in compagnia, sempre. Qualora la registrazione non venisse bene, che ci siano delle orecchi pronte a testimoniare.
Nella condanna per mafia dell’ex presidente della Regione Sicilia, Lombardo, si dice che l’intermediario era Mario Ciancio Sanfilippo. Giornalista. Editore. Amico e socio sostenitore di Carlo Caracciolo e Scalfari a “la Repubblica” quando tentavano di resistere a De Benedetti. Non c’è più religione?
Quando tutto è mafia, non lo è solo lo Stato. Anche i giudici, quindi? La logica è quella. Anche i Carabinieri? Perché no, anche loro sono lo Stato. Lo Stato, non ci si pensa, ma è la cupola per eccellenza. 

Il male c'è, grazie a Dio

Due edizioni inattuali della filosofa forse più contemporanea, certamente la più letta, amata. L’edizione paolina è la parte centrale di “Attesa di Dio”, che padre Perrin compose con gli scritti inordinati a lui confidati da Simone Weil nel 1940, nei disordini della guerra – una raccolta tradotta subito da Orsola Nemi e ora in edizione Adelphi. L’edizioncina francese, che pesca dalla raccolta poi canonica dallo stesso titolo, attualizza il tema allora centrale, col saggio “Dio e il male”, la “Lettera a Joë Bousquet”. Bousquet, poeta allora di nome, viveva recluso a Carcassonne paralizzato dal 1918, quando aveva vent’anni, per una ferita di guerra alla schiena.
Il domenicano Jacques-Marie Perrin, un coetaneo da Simone conosciuto e frequentato a Marsiglia nei mesi della sconfitta prima dell’emigrazione, è centrale – come stimolo e come testimone, nella corrispondenza, la discussione e la custodia dei testi – nella parabola di Simone Weil al misticismo. In un sincretismo a fondamento greco (stoico, platonico), più che biblico, e cristiano. Ma non c’è dubbio che questi “pensieri senza ordine” sono weiliani.
“Una sorta di atrio alla vita mistica”, così presenta il nucleo scelto di “Attesa” Natale Benazzi. Non più un’attesa ma un’anticipazione. La scelta, dice il curatore, “è dell’amore «laico» nel senso più nobile”. Dell’amore di Dio e degli altri “prima che Dio si faccia presente”, come Weil dice. Che  distingue l’amore “per amore di Dio” e “nell’amore di Dio: non è la stessa cosa quando si ama prima che Dio si manifesti e quando si ama in sua presenza.
Un esercizio di ricerca senza consolazioni. “Ma poiché è solo la Croce che è necessaria agli Stati e non le complicazioni del dogma, è disastroso che la Croce e il dogma siano legati con un legame così solido. Questo legame ha sottratto il Cristo ai suoi fratelli i criminali”. Sembra banale, anzi triviale, e invece è Simone Weil, apocalittica. “Il vero male, una sola cosa permette di accettarlo, è la contemplazione della Croce del Cristo”.
Simone Weil, L’amore di Dio, San Paolo, pp. 123 € 7,90
Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, Folio, pp. 109 € 2

martedì 26 agosto 2014

Ombre - 233

Litizzetto s’immortala sotto il gavettone brandendo due pezzi da 50: sono il suo tributo alla lotta contro la Sla. I comici non conoscono il ridicolo?

Solo Jerry Cala, nel gioco dei gavettoni, ha versato qualcosa alla Fondazione contro la Sla, gli altri se ne sono dimenticati. È un gioco. Ma dei furbi: rubare una pagina ai giornali, Che ce ne informano. Con divertimento di nessuno.
La tipica furbata che fa l’informazione dell’epoca.

Chi ha scelto, nell’Emilia del dopo-terremoto, di ricostruire coi fondi privati, deve pagare allo Stato una tassa. La “riforma” sarebbe dunque abolire lo Stato.

L’Europa difende la democrazia in Ucraina, dove il presidente eletto Yanushenko è stato cacciato con un colpo di Stato. Il presidente del golpisti Poroshenko si fa ora un Parlamento su misura, sempre democratico. La Ue non salva i disoccupati ma  golpisti sì.

Sono quattrocento, almeno, i cittadini britannici terroristi islamici. Singolare, in un paese il cui servizio segreto si vanta di aver rovesciato Saddam, Gheddafi e molti altri, e di sapere tutto di Putin, Berlusconi, Angela Merkel & co. Oppure no? I cittadini britannici terroristi islamici poterono attentare con comodo alla metropolitana di Londra – strage di cui non si parla.

Anche il linguaggio-messaggio di questo terrorismo è molto inglese, da tabloid, giornale scandalistico popolare.

La ‘ndrangheta nel pil. Da non credere. Ma l’Europa è al di sopra di ogni sospetto, il grosso mercato della droga del Nord Europa lo esige.

Uno dei misteri dell’ultima guerra era – è – la mancata reazione all’Olocausto, una sollevazione generale, degli ebrei se non dei popoli circostanti, che non vedevano e non sapevano. L’Olocausto è unico, ma la caccia al cristiano, dal Pakistan alla Nigeria, è la stessa cosa dal punto di vista della debolissima reazione.

La mancata reazione ai pogrom anticristiani nel’ìslam si giustifica per evitare guai maggiori. Un’assurdità – Hannah Arendt che l’ha rilevato  aveva ragione, per quanto incommestibile.
Doppia: ideologia, organizzazione, armamento e finanze per questo islam vengono dall’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, cioè dal petrolio, cioè da noi tutti, i grandi consumatori sono i cristiani.   

Il giudice Esposito di Milano non va sanzionato. Ha accettato soldi per aggiustare una sentenza, ma il suo capo Bruti Liberati lo vuole esente da sospetto. Una storia di napoletani a Milano? Anche. Ma con un forte sospetto che tra Esposito padre e Bruti Liberati sia stato stretto un patto per condannare Berlusconi. Anche perché – questo è il peggio della cosa – i due ne sarebbero capaci. 

La storia vince la violenza, anche nell'Aspromonte

Tra gli aranci “d’ogni mese” e i ritmi “alla ricottara”, vicende sempre truci si succedono attorno all’Aspromonte. A una montagna che pure ispirò canzoni di gesta, e a molti viaggiatori sorrise, di misteri e di miraggi. Ma pesa come una stigmata “Gente in Aspromonte” di Alvaro, una sorta di tradizione o maledizione di abbandono e violenza. Una letteratura potente ne ha fatto la realtà, più della natura e della società.
Pasqualino Marcianò, che ci ha lasciati ai settant’anni, era persona amabile e portata alla leggerezza – per un decennio a Ravenna, dove lavorava, assessore alla Cultura. L’invenzione alvariana della tradizione ha contagiato anche lui: non c’è violenza che non venga esercitata in questo racconto. Che però s’immagina abbia concepito sempre col sorriso: la violenza, così distruttiva, non lascia traccia, la storia va avanti.
Pasqualino Marcianò, Peccatrice al ruscello, Nuove Edizioni Barbaro, pp. 101 € 10

Stupidario scolastico

“Nessuna università italiana tra le 150 migliori del mondo”. È la classifica di Shangai.

Eccetto che per la Matematica: l’università della Calabria è tra le prime cento - tra le primissione europee dopo quelle americane.

E per l’informatica: idem.  

I programmi ministeriali hanno bandito gli scrittori meridionali, Verga, Deledda, Ptrandello, Sciascia, etc.

“La ministra Giannini ha annunciato che non ci sarà più la figura del supplente. Al suo posto insegnanti con supplenza annuale”.

Momento topico della riforma della Pubblica Amministrazione e della scuola, annuncia la ministra Madia: dal primo settembre rientro a tempo pieno per 1.500 dipendenti statali distaccati presso i sindacati, di cui 480  insegnanti.  

“La rivoluzionaria visione della ministra Giannini sarà sottoposta a consultazione online”.

“La prossima frontiera (della ministra Giannini) è il superamento «dei pregiudizi culturali verso i privati, tuttora esistenti»”.


lunedì 25 agosto 2014

Il mercato osceno dell'immigrazione, e dell'accoglienza

Sbarcano in gran parte senza documenti, e sempre con identità incerte. Con troppi bambini soli. A volte con i morti a bordo. Con malattie desuete, ora la scabbia. Non sono in prevalenza, come si dice, siriani o iracheni, per facilitarne lo stato di rifugiati. Sono asiatici e africani in massa, indistinti. Arrivano ogni pochi giorni in numero elevato, tra mille e duemila. Sono, da ogni punto di vista, un mercato dell’emigrazione. Non schiavista nel senso classico, ma sì in quello contemporaneo, del lavoro obbligato, poco o nulla retribuito. Con duemila morti, quelli noti, morti in mare, in pochi mesi: cifra da razzia.
Vista a Reggio Calabria da vicino, niente dell’immigrazione selvaggia, ora dalla Libia, è come viene rappresentata dall’industria dell’accoglienza. Non c’è “accoglienza” possibile in realtà, esauriente, umana, risolutiva (sanitaria, alimentare, logistica, reddituale, perlomeno linguistica), per mille o duemila disperati al giorno: Reggio Calabria, o Crotone, come già Lampedusa, sono la retrovia di un fronte di guerra.
Centomila arrivi in otto mesi, e altri centomila in arrivo sono un mercato molto organizzato. Di venditori ambulanti, uomini e donne, per le cricche africane e asiatiche, ognuno con precisi punti di riferimento in Italia, di ricongiungimenti familiari negati o impervi, di giovani all’avventura, di spacciatori, ladri e prostitute, anch’essi provvisti di recapiti sicuri, noti alle polizie e alle stesse organizzazioni umanitarie, e in minima parte di rifugiati, gente in fuga da guerre civili.
Le anime pie hanno abolito la geografia. Ma non si arriva a piedi in Libia dalla Siria o dall’Iraq – meno che mai dal Pakistan o il Bangladesh. E anche dall’Eritrea e la Somalia, come dal Senegal e dal Ghana: bisogna fare molte migliaia di chilometri, attraversando alcuni deserti. No, tutto è organizzato, per via aerea, low cost. Di dilettantesco c’è solo l’accoglienza. Il ministro dell’Interno che twitta, la commissaria europea all’Immigrazione che promette visite, i vescovi che fanno i buoni disperati, sono di fatto degli sciocchi incapaci, o sono parte del mercato.
Non si può fare una colpa ai buoni di cuore, ma dietro la bontà c’è la furbizia. Anime pie, forse, e tuttavia parte di un business. Anche per loro lucrativo, come per i mercanti africani e asiatici. C’è un mercato europeo e italiano dell’accoglienza che svia la questione: non si tratta di essere buoni ma di smantellare un mercato osceno. Una forma di sfruttamento incredibile nel 2014, con tanta bontà appunto in primo piano, talmente è feroce.
Per chi opera nell’informazione l’aspetto più desolante è che, con tanti inviati al mare (Lampedusa, Reggio), in Africa e in Asia, giornalisti anche rinomati, non uno abbia sentito il bisogno di informarsi e informare. Il buonismo ottunde – o il giornalismo? Si dà notizia, al più, dell’arresto degli scafisti, la personificazione del male. Che invece non si arrestano e non si condannano, si rimpatriano – viaggio di ritorno gratis. Nessuno che abbia sentito l’urgenza di spiegare o mostrare questa cosa inconcepibile nel Duemila, un mercato degli schiavi – non c’è la razzia, ma la propaganda ha lo stesso effetto e non costa. 

Fratello Himmler

Le Sturmtruppen erano, sia nel fumetto di Bonvi (Franco Bonvicini) che nel film di Cochi e Renato diretto da Samperi, che nella realtà, le truppe d’assalto delle SS naziste, attive sul fronte francese. Non esclusive dello schieramento tedesco, ma nella trattazione di Lunsden sì. C’è una sottile identificazione sempre, si sa, tra il biografo e il biografato, e lo storico e la sua storia. Tanto più, è da supporre, nel caso di Lusden, storico dettaglista ma non di professione – un ispettore di polizia di Fife pensionato baby e largamente autodidatta, benché laureato dalla St. Andrews. E c’è soprattutto, al fondo, ma anche in superficie, l’identificazione inglese con la Germania, di cui la storiografia inglese è sempre rispettosa.
 L’editore italiano lo presenta il libro come “un agghiacciante racconto di intrighi e nepotismi, deliri di onnipotenza e stermini di massa nella Germania del Terzo Reich”. No, è una storia, se lo è, molto rispettosa. Una  storia, se lo è, comunque molto dettagliata, che tende mettere da parte il risaputo: “Le SS sono una delle organizzazioni più note della storia”, comincia il suo discorso, “ma anche una delle meno comprese. Lager, stermini, torture, “questo lato oscuro rappresenta soltanto una parte della storia delle SS”. Evidente, ma Lunsden ne fa il nostro parente “meglio organizzato”.
È la parte più interessante di questa storia: la fascinazione inglese per la Germania, tutta  la Germania. A preferenza di qualsiasi altra potenza o cultura continentale, la Francia, o la Russia, In Lunsden, in particolare, è forte la fascinazione di Himmler. Mortuaria: soprattutto insegue le teste di morto, nelle tante variazioni e applicazioni – “Fratello Hitler” è titolo funerario di Thomas Mann, “Fratello Himmler” potrebbe esserlo di Lunsden.
Nella estesissima trattazione non si trova mai la verità di Himmler, che pure è breve: il capo della più vasta rete terroristica mai ideata al mondo, mezzo milione di persone dalla Vistola al Manzanarre, addestrati, armati, ben pagati, fanatizzati, che di suo era padre di famiglia e pollicoltore, la pace impegnato a imporre coi suoi agenti in Europa. Un dettaglista, come il suo impiegato Eichmann, che qui non si ricorda nemmeno per caso. Cultore delle genealogia, con l’apposito istituto da lui creato dell’Ahnenerbe, che cercò fino in Tibet, e si convinse di averne trovati a Taormina. Gli zingari volle morti quando scoprì che discendevano anch’essi dai goti e dai vandali, gli invincibili, che erano cioè suoi parenti stretti. Una tale bestia che si fatica a pensare che un paese gli abbia obbedito. Era capodistretto degli Artamani in Baviera, gli scout di destra. Teneva riunioni esoteriche nel castello di Wewelsbug a Paderborn, l’accampamento di Carlo Magno, Jünger vi ha partecipato: inviarono Ernst Schäffer a cercare il Graal a Montségur, vicino Lourdes, e dal Dalai Lama. “Il mio onore si chiama fedeltà” fu la sua divisa – e quella dei neofascusi italiani fino al 1992 – mentre aveva il gusto del tradimento. Tradì la Germania, e lo stesso Hitler, da ultimo con gli angloamericani. Non era infatti scemo: alla fine, da lui antiveduta, trepido consigliava si suoi eroi “Nascondetevi nella Wehrmacht”, nell’esercito cioè regolare, “meglio ancora nella Marina”.
Poco o niente sappiamo delle funzioni specifiche delle SS, il corpo, si può dire, del nazismo: insieme partito, polizia, esercito, polizia politica, schiavismo, applicato al lavoro obbligatorio ne lager. Nulla delle loro funzioni nei lager, quelli politici e poi quelli di sterminio. Con la Gestapo. Nei paesi occupati. Nell’eugenetica. Poco o nulla sappiamo della loro internazionalizzazione: l’internazionale del terrore che arrivò a contare mezzo milione di volontari, dall’Ucraina alla Croazia, il Belgio, l’Olanda, la Norvegia, e l’Austria beninteso. Con qualche svizzero. Per esempio il dottor Leonardo Conti, che fu fatto generale per dirigere meglio l’eugenetica. Nulla sappiamo dell’eugenetica, alla nascita e soprattutto alla morte, un piano di sterminio di tedeschi “ariani” che Himmler dovette sospendere per l’opposizione delle madri.
Il resto è per cultori della materia: c’è tutto. Diagrammi, nomi, gradi, avanzamenti, date, imprese quasi sempre eroiche, E moltissime foto (un libro regalato, si consiglia per questo), che, non ci si pensa, ma da sole, a guardarle, fanno la vera storia della razza eletta: non si salva nessuno, era brutto anche Heydrich, l’unico biondo - ma era ebreo per parte di madre.
Robin Lunsden, La vera storia delle SS, Editori Riuniti, pp. 348, ill., ril., € 5    


domenica 24 agosto 2014

I preti contro i santi

La natura del bene si comprende solo comprendendo la natura del male, Giovanni Reale fa dire a sant’Agostino su “La Lettura” oggi. Agostino non l’ha detto, ma ci può stare: il santo è un peccatore, anche lui. “La lettura” fa dire a Reale pure che tutti, da sant’Agostino a  don Gelmini, sono “macchiati da alcune vicende giudiziarie”. Questo non è vero, le “vicende giudiziarie” sono cosa recente, un termine generico coniato per quel groviglio di accuse e sospetti che da un quarto di secolo sostituiscono il giudizio e assommano a una condanna. A opera di giudici in genere corrotti – giudici propriamente detti e giornalisti.
Il caso dei preti santi e peccatori, quelli accusati perché di destra e quelli non accusati perché di sinistra ma mormorati (per esempio di “Libera”), era stato anticipato in chiave anticlericale a carico di don Bosco. Che però mise gli accusatori nel sacco – i Savoia erano, oltre che laici, anche beghini. E si fece santo vero, produttivo.
Le “vicende” di don Gelmini e don Verzé sono analoghe, ma in ambito clericale. Per appropriarsi delle risorse pubbliche da parte di preti concorrenti, nel caso di don Gelmini – accusato di violenze sessuali a 82 anni, da drogati… (bisognerebbe mandare i giudici, e i cronisti giudiziari, ad assistere i drogati, anche solo per un giorno). Le “vicende” di don Verzé sanno tutti che erano una sola: aveva novant’anni e non voleva mollare il San Raffaele alla cricca Rotelli-Bazoli.

Milano non è signora

Reggio Calabria avrebbe tutto da guadagnare dai Bronzi all’Expo. In fama, attrattiva, specie per il pubblico di una Expo, altrimenti irraggiungibile, e come consolidamento di un certo immaginario. Ci sarebbe solo da decidere se i Bronzi sono trasportabili. E invece no, è una lite.Il senso della lite si poteva intuire prima. Ora è manifesto col no di Cremona al prestito di un Arcimboldo agevolmente trasportabile. Cremona, che ha altro di cui occuparsi piuttosto che disegnarsi un improbabile futuro turistico attorno a un pittore di curiosità, dice no al modo in cui Milano ha chiesto l’Arcimboldo. Milano non chiede, vuole.
Milano deve dire che i Bronzi a Reggio sono sprecati, che i Bronzi sono dello stato Italiano, etc. Che, insomma, vuole i Bronzi, come l’Arcimboldo, perché ne ha diritto, come marchio di potere. Magari mentre fa della Calabria tutta, col suo potente Dalla Chiesa, un’associazione mafiosa.
È Milano contro. Senza necessità, talmente è ricca e strapotente. È che non è signora, si capisce che non sia una capitale. Non per nulla è città leghista, e non se ne vergogna.

Il fuoco vivo di Kafka

Una piccola riscoperta, di un personaggio notevolissimo. Per l’acume politico nella Praga di prima e dopo l’occupazione tedesca, per il quieto radicale anticonformismo di ragazza liberata tra Vienna e Praga vent’anni prima, e naturalmente come creatrice di Kafka, che tradusse in ceco quando ancora nessuno lo leggeva in tedesco. Qui si occupa della scomparsa della Cecoslovacchia. S’interroga sulla mancata reazione all’occupazione tedesca, che tanto aveva sdegnato, cioè preoccupato, Mussolini. Il razzismo tedesco subito dispiegato correttamente analizza come “pogrom freddo”, come faranno Hannah Arendt, gli storici, e qualche tribunale israeliano. E sa anche che la guerra ci sarà, che l’appeasement la rende inevitabile.
Sullo sfondo è un personaggio amabile quanto pochi altri. Nelle lettere di Kafka, e nei ricordi di quanti la incontrarono. Quelli di Margarete Buber-Neumann, sua compagna di lager, forse generosi, i più incisivi. Margarete era stata isolata dalle politiche per il suo comunismo. Dapprima dalle stesse internate comuniste, le quali la dichiararono traditrice per il motivo che diffondeva menzogne sulla Siberia, e di conseguenza da tutte le politiche, per l’ascendente che le comuniste avevano sulle altre. Eccetto che da Milena. Milena di Praga: così Milena Jesenskà le si presentò, giornalista, comunista, destinataria di tante lettere di Kafka, fra le più fantasiose lettere d’amore passate agli archivi.
Milena chiese a Grete se era vero che i sovietici avevano consegnato a Hitler gli antinazisti rifugiati a Mosca, e le due donne divennero amiche. Per Milena Grete era una Madonnina di campagna, che ama la vita per trasporto naturale. Per Grete Milena era la tenerezza femminile unita a un’energia tipicamente mascolina.
Milena, appena uscita dal liceo femminile Minerva a Praga, sedeva intrepida al caffè Arco, ritrovo dei letterati germanizzanti, baffuti, gnoccoloni, e presto se ne fuggirà sola a Vienna. Non femminile, il cappello portava da uomo, ma presto si sposerà. Grete e Milena progettavano a guerra finita un libro, “L’era dei campi di concentramento”, di Stalin e di Hitler. Ma Milena, il “fuoco vivo” di Kafka, morì prima.    
Milena Jesenskà, In cerca della terra di nessuno, Castelvecchi, pp. 90 € 12


Letture - 182

letterautore

Africa – Era stata “scoperta” prima di Gesù Cristo. È stata teatro scelto dell’imperialismo italiano. Per esempio la Libia. E alimenta tuttora, tra le onlus e i cooperanti, un acuto mal d’Africa. Ma resta incognita, un puro nome. Si vede dalla Libia, che pure è un paese confinante: non sappiamo quanti sono i libici, cosa fanno, se fanno qualcosa, cosa dicono e pensano, se pensano, e stanno alla porta di casa. L’Africa è ancora il poema epico di Petrarca, che nessuno ricorda, nemmeno i petrarchisti, o “L’Eritrea”di Cavalli, 1656, che è un’opera in musica, per intendersi. È un puro nome. Per un  rifiuto? Una segreta attrazione – le nostre Madonne sono quasi tutte nere? Per la generale ignoranza.

Galileo – È letterato tanto quanto scienziato, per vocazione e per qualità. Tuttora godibile, scrisse una delle prose italiane più vive, e si dilettò dei linguaggi. Tra le sue opere anche un libello in veneto-padovano contro alcuni dei suoi accusatori, “Dialogo de Checo Ronchitti da Bruzane in Perposito de la Stella Nuova”.
Calvino ha rintracciato nella prosa di Galileo, nella sua narratività, il mezzo per passare dall’esperienza al ragionamento, dalle figure del mondo a quelle del discorso.

Fu probabilmente il più falsificato da Denis Vrain-Lucas, il falsario. Non nella teoria scientifica ma nelle lettere, da lui scritte o a lui indirizzate, con Descartes, Hobbes etc. Pietro Redondi aveva censito trent’anni fa, in “Galileo eretico”, duemila autografi galileiani redatti in tre anni, e venduti, resistendo strenuamente a ogni esame di autenticità, da Vrain-Lucas. Su un totale di 27 mila, si può  aggiungere – tutte in francese… Di cui sarà chiamato a rendere conto in tribunale nel 1870, ma con una condanna a due anni, con la condizionale, e 500 franchi di multa.

Italiano  - Non è genere italiano, si diceva del romanzo, del giallo, del libro di viaggio. Ora siamo sommersi da romanzi, gialli, e libri di viaggio italiani. Ma degni del nome – romanzo, giallo, libro di viaggio?.

Marito – Non ce ne sono molti nei romanzi, se non nella forma del marito cornificato del romanzetto, o teatro leggero, borghese o di costumi. È soggetto trascurato anche in quest’epoca di femminicidi.  Il Bloom di Joyce potrebbe esserne uno, ma è troppo ingombrante – in pratica c’è solo lui. Il più in tono è quello di Pirandello, “Giustino Roncella nato Boggiòlo”, prima cioè di prendere il nome della moglie, scrittrice di cui vuole creare la fama. La prima edizione del libro, 1911, era anzi intitolata “Suo marito”, il saprofita di lei.

Polizia – È istituto del Settecento, da policé, ordinato, pulito, educato. E come tale si rappresenta nell’immaginario, a protezione dell’ordine - ancora gode di credito incondizionato la Polizia propriamente detta, come i Carabinieri e la Guardia di Finanza, la cui ambizione nemmeno  recondita è invece lo sbirrismo. Nonché a fondamento del gallo, in qualsiasi forma, anche cioè quando si fa giustizia contro la polizia. È invece di fatto, nella realtà, all’origine del disordine: si vede nei casi concreti come opposti ai serial tv e ai gialli. Intempestiva, lenta, sciatta. Sempre burocratica, e tendenzialmente superficiale, senza formazione specifica, sprovveduta.
Come tale, senza polemica, la rappresenta Mankell, lo scrittore svedese che un poliziotto ha eretto a suo protagonista, in cui tutto l’ordinario dell’attività di polizia è casuale, distratto, e spesso nocivo..
 
Statue – Quante animazioni, soprattutto muliebri, promuovono, nell’immaginario e anche nella realtà (follia). Di un certo tipo di dame si diceva a Venezia nel Seicento che erano amanti di stature di marmo. L’Ermafrodto alla Galleria Borghese presenta un’oscena testimonianza di assidua frequentazione nelle parti sensibili. Heine comincia a far rivivere i vecchi nomi, ne “Gli dei in esilio”, ritracciando i racconti che gli stessi facevano rivivere in forma statuaria. Giovani che perdono la testa, in senso proprio, per simulacri di bellezza. Spiriti malefici che s’incarnano in belle sembianze. E la Venere del Venusberg che innamorerà pazzamente Tannhäuser, l’eroe-giovane che Heine in più versioni immortala, anche per Wagner. Di autori noti e meno noti: Kronmann, Delrio, il teologo fiammingo del secondo Cinquecento esperto di stregonerie, Eichendorff, Wilibald Alexis, Merimée.
Il genere restò vivo anche successivamente. La fontana delle Naiadi in piazza dell’Esedra a Roma,  opera dello scultore palermitano Mario Rutelli, bisnonno di Francesco, si discusse un secolo fa se recintarla, contro le troppe visite notturne che si facevano alle statue.
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Viaggio – Le lett(erat)ura dell’erranza, come oggi si nomina, poiché se ne fanno festival, e il festival vuole novità, non è genere italiano, si diceva, ed è  vero. Se ne scrivono molti, nessuno si ricorda - se non forse, ma in pochi, Machiavelli in Germania, o Algarotti in Russia - e quasi niente si apprezza leggendo. L’“Impegno controvoglia” di Moravia ne registra involontariamente il motivo, alla p. 98. Agli studenti della Sapienza Fuksas, Scalzone, Valerio Veltroni, Duccio Staderini e Sergio Petruccioli, con i quali è in dibattito e che lo contestano, Moravia ribatte da pari a pari. Finché Fuksas non gi contesta il libro appena pubblicato sulla Cina: “Tutto sommato, quel suo libro assomiglia molto a un viaggio di un certo De Amicis in Africa”. Allora Moravia sbotta. “E perché non ai viaggi di Goethe, di Stendhal, di Hemingway, di Freya Stark?” Perché no, ce lo chiediamo ancora, di Moravia e di ogni altro letterato italiano in viaggio.
C’è una tradizione di viaggio e una letteratura di viaggio sempre viva, inglese, in parte americana, anche francese, tedesca, russa, ma non italiana. Ci sono molti libri di viaggi, che non dicono niente. Dopo un anno o due, e anche quando escono. A proposito della Cina Moravia aggiungeva: “Non è un saggio politico-sociologico, è un libro in cui racconto quello che ho visto e pensato personalmente”. Il letterato italiano vede allora poco, a giudicare da quello che scrive, mentre pensa politico-sociologico. Cioè pregiudiziato. Su frasi fatte, perfino di (ex) partito. Non dal punto di vista della grande storia dei popoli, anche comparativa – con l’Italia, con l’Europa, con l’Occidente. Per la quale il letterato viaggiatore italiano non ritiene necessario possedere i necessari riferimenti. Né dal punto di vista dell’altro, né antropologico, né etnico e neppure sociologico: no, dal punto di vista del suo ordinario, quello che al tempo di Moravia si chiamava politico-sociologico – le frasi fatte 
Il letterato italiano, anche giovane e giovanissimo, non ha occhi in realtà. Un piccola moda di viaggi in Italia si è diffusa qualche anno sull’orma umorale di Ceronetti, ma come un altro modo di esternare i problemi adolescenziali, con tocchi di neorealismo, scolastici. Gli articoli di Moravia in viaggio per il mondo, per il “Corriere della sera” e “L’Espresso”, raccolti in “Impegno controvoglia”, solo testimoniano la polemica Est-Ovest: Moravia va a Cuba, in Messico, a Kyoto, in Bolivia sule tracce del Che, e trova solo l’antiamericanismo. Poteva fare a meno.

Montale ci sarebbe riuscito. Lui che ha i platani bianchi a Ginevra. E “i gabbiani si spollonano”. Ma era pigro. E non ci teneva – genere infimo, giornalistico, rispetto alla poesia.

Non c’è rimasto che Rumiz - a distanza di decenni i suoi lettori girano col foglio di giornale stropicciato, per l’Appennino, per Costantinopoli, mai si vede delusi. Che però, a differenza della sue prime corrispondenze dalla Jugoslavia in fiamme, in tempo di pace  ha bisogno di teatralizzare, mettere in scena: la 500, Annibale, il treno. Trovarobato che si ricorda più delle cose.

letterautore@antiit.eu

Cosa vuole Draghi lo dice la Bundesbank

Cosa vuole Draghi si trova scritto, prima, negli studi e i bollettini della Bundesbank. Oggi non si sa se Draghi è quello che dice “Il Sole 24 Ore”, col ministro Padoan, in procinto di rilanciare l’economia. Oppure quello che assicura Martin Feldstein, che Draghi ha ascoltato anche in privato, che non farà nulla. È come dice Feldstein: non ci sono novità. Perché è come dice la Bundesbank.
Nel 2014, con la recessione che non è più solo un peccato dell’Italia ma minaccia la Germania, Francoforte è sempre per l’austerità, Bce e Bundesbank unite nella lotta. Il credito è troppo facile. L’euro non è troppo forte. Ci vuole rigore nella spesa. E naturalmente bisogna “fare le riforme”. Una politica monetaria suicida, che Angela Merkel, che l’ha voluta in passato a fini concorrenziali, per stringere il cappio a qualcuno, ha difficoltà a dismettere. Il resto del mondo va forte in questo 2014, la Ue no, e non si vede rimedio.
Questo del “fare le riforme” senza dire quali fa pensare alla stupidità – al burocraticismo – più che all’errore.
Cosa sono le “riforme”? Chiudere gli ospedali? Chiudere la scuola? Vendere la pubblica amministrazione, anzi no, darla in comodato? Draghi, che ha fatto le privatizzazioni vent’anni fa a beneficio dei privati, magari ci pensa, ma non è uno stupido.