Il
fragoroso Renzi a questo punto potrebbe andare a Bruxelles e dire: vedete, le
riforme le abbiamo fatte! Licenziamo chi vogliamo, anche i dipendenti pubblici.
Non
tutto il male viene per nuocere. Per una volta i proverbi hanno ragione, ma.
Si
possono licenziare 182 dipendenti su 460, quelli dell’Opera di Roma. Si possono
anche licenziare i dipendenti produttivi
e tenersi gli amministrativi, 280. Anche se sono due impiegati per ogni performer.
In nessun’altra “azienda” sarebbe successo, né l’una né l’altra cosa, ma non è
mai troppo tardi. Si possono anche pensare un’orchestra e un coro “esternalizzati”,
a contratto, invece che una squadra affiatata che giochi all’unisono – in fondo
la musica è oggi dissonanze. E si può annunciare il licenziamento come fanno il
sindaco di Roma Marino e il direttore generale Fuortes, ridendo di gusto. Marino
oggi non prenderebbe più del suo voto, e Fuortes è un “manager” con talmente
tante direzioni generali che è meglio lasciar perdere – per l’Opera di Roma aveva
appena annunciato una stagione trionfale.
Ma la cosa più fragorosa della vicenda non è il licenziamento dell’orchestra, del coro, del corpo di ballo, è il silenzio. Non è successo nulla, su tutto questo c’è il silenzio dei giornali, e soprattutto dei giornalisti. Di
quelli politici, che ogni giorno ci assillano con l’art. 18, e perché quel
Renzi che vuole abolirlo è un fascista. E di quelli della cultura, che hanno
condotto l’assalto all’Opera per amore di partito o magari per una consulenza,
fosse pure un articolo sul programma di sala. Nessuno ha nulla da dire sulla
chiusura dell’Opera stessa.
Per
non dire del sindacato. Per esempio della Cgil. Ma questo perché forse non c’è,
il sindacato c’è solo nei giornali.
sabato 4 ottobre 2014
Muti Day a Gioia Tauro, la musica rinasca dal nulla
Il maestro Muti si rifarà in
Calabria dei dispiaceri di Roma e Chicago. Il 13 ottobre sarà in Calabria,
nella sua zona più malfamata, la Piana di Gioia Tauro, in visita a tre o
quattro scuole musicali locali, per giovani e giovanissimi.
Non è una delle solite promozioni d’immagine presuntuose di cui la Calabria è
specialista – Muti non fa le “presenze”. È un modo per un musicista, che tra
Roma e Chicago subisce la “Prova d’orchestra” che Fellini profetizzò 35 anni
fa, di vivere la sua arte come ispiratrice di buona coscienze e passione. Fuori
dalla politica politicante.
Dopo Roma, aveva detto che si sarebbe
dedicato solo alla sua propria orchestra di giovani talenti, la “Cherubini”.
Nella scuole della Piana di Gioia Tauro, non si propone di trovarne, ma di
testimoniare che la passione musicale è ancora possibile. Fuori dai sindacati e
le loro burocrazie troppo furbe, troppo esperte - sterminatrici.
Nazionalizzare il vincolo esterno
Basta
così poco per uscire dal “vincolo esterno”? Basterà Renzi, egli pure (forse) un
democristiano, come lo era (forse) Guido Carli, che il vincolo esterno teorizzava,
per uscirne? Uscirne significa che l’Italia, potenza industriale, sa e fa
quello che deve, per l’economia come per i diritti civili, della salute,
dell’ambiente, etc., senza aspettare il “vincolo esterno”. Il “monito” di
Bruxelles, quasi sempre “severo” - che orami da più anni significa Berlino.
È presto
per dirlo. Renzi in realtà non ha una politica estera – non ha neanche un
ministro degli Esteri. E non sa personalmente come si fa, a quello che mostra.
Il vincolo estero comunque c’è, poiché l’Italia è membro della Unione Europea e
ha adottato l’euro. Si tratta di gestirlo senza vincolo. Senza moniti, cioè, né
rimproveri.
Molto
tuttavia è successo in questi mesi. Ancora nell’ultimo volume delle opere di
Guido Carli, uscito in primavera, il sesto, dedicato alle testimonianze di chi
lo ha conosciuto o ci ha lavorato, Mario Draghi, che di Carli fu direttore
generale al ministero del Tesoro, e poi successore al governo di Banca
d’Italia, ne ricordava cinicamente divertito la genealogia.
Carli disprezzava i politici, disprezzava la pratica
“schizofrenica”, dice Draghi, dei governi italiani, e “sperava nell’azione del
vincolo esterno”.
Era la chiave dell’antipolitica. Magari autoinflitta – il politico che cavalca l’antipolitica
è una nuova maschera (macchietta) italiana. Che Carli consolidò con Draghi a Maastricht,
nelle trattativa per l’euro e poi nel trattato, confidando che il “vincolo
esterno” avrebbe poi costretto l’Italia a soddisfare i relativi parametri. Una
deificazione dei parametri, senza riguardo all’interesse nazionale.
Ménage a tre coi cognati
Fra i segreti delle donne c’è anche
l’amore diviso fra i cognati, il marito e il fratello, le complicità. Nessuno
ci aveva mai pensato, benché la cosa sia comune. Margaret Millar ne ha tatto un
racconto travolgente. Con molti cameos,
com’è nelle sue corde di narratrice: la ragazza messicana senza legge
morale, americanizzata, che sogna
Hollywood, la tedesca nubile, a servizio nelle case, sospettosissima, il
testimone oculare, inattendibile per natura, e un investigatore privato che
finalmente si dichiara, d’intuito rapidissimo perché baro di natura.
Non è il solo romanzo della pruderie americana smarrita nella tequila a Città del
Messico, Margaret Millar ne ha scritti altri. I soli detective seriali che ha
usato - in pochi libri, perché non ama la serialità (la ripetitività) - sono
messicani di origine, Aragon e Pinata. Pur non essendo mai stata in Messico,
nei suoi tanti viaggi. Questo suo Messico “vero” è costruito con le ricerche, e
coi tanti messicani con cui aveva da fare a Santa Monica, in California, dove
abitava. Per il suo libro preferito, “Cercatemi domani, sarò morto”, titolo
shakespeariano, “avevo delle mappe”, ha confidato in un’intervista (pubblicata
sul Giallo Mondadori n. 2318, nel 1993), “che indicavano persino l’ubicazione di
ogni singolo albero”.
È “The listening Walls” in originale –
con questo titolo, “I muri ascoltano”, già tradotto da I Romanzi del corriere.
Qui con una nota convincente di Maurizio Costanzo, direttore dei “Gialli”, sul
racconto nel libro e il racconto del film, sulla creatività del lettore e la
coazione dello spettatore – “Quando si legge un romanzo è come se, pagina dopo
pagina, ci si cucisse un vestito addosso, quando si vede un film è come se il
vestito fosse una taglia unica”.
Margaret Millar, La scatola d’argento, Gialli Mondadori, pp. 176 € 4,90venerdì 3 ottobre 2014
Problemi di base - 199
spock
Putiniana
Chi bombarda a Donetsk le scuole e la Croce
Rossa? Sarà il solito Putin
Chi vuole l’Europa in guerra per l’Ucrana? Sarà
il solito Putin
E l’Isis perché non dirlo (che lo ha armato Putin)?
Anche la depressione, perché non dirlo – che è
il solito Putin?
E Della Valle, che tresca ha con Putin, il
sovversivo?
Della Valle dà alla Fiat 128 mila cassintegrati
– su 29 mila dipendenti?
Ma Della Valle-Marchionne è una partita da
ridere o da piangere?
Incoronato da Marchionne a Detroit, Renzi è
silurato il giorno dopo dal giornale di
Marchionne a Milano: per un problema di fuso orario?
Chi ci vuol male?
La testa mozzata di Taurianova “è storia
interamente inventata”. Basterebbe questo per dire il libro. Ma Varano e Veltri
sono a caccia di spiegazioni, non di controscoop. Di una spiegazione di un
fenomeno insopportabile e anche incomprensibile: la dannazione della Calabria.
C’è bisogno d’inventare le teste mozzate? E perché tutti ci credono, hanno
voglia di crederci? Con Duisburg dopo Taurianova, la strage avventata
e stupida, contro gli interessi della stessa mafia. “Una botta di barbarie”, che però ha “blindato… l’immagine
nuova del calabrese che tra industria dei sequestri, guerra di mafia e testa
mozzata si era già affermata”. Dunque, basta un atto di follia? Calabrese rimava con crazy, pazzo, già sessant’anni fa, ma era in “Mambo italiano”, per ridere, la canzone di Rosemary Clooney, la zia.
“Riflessioni sulla Calabria e i
calabresi” è il sottotitolo: gli autori, giornalisti sperimentati, calabresi
attivi in Calabria, sono costretti a chiedersi “ma chi sono?”, e non sono i
soli. Hanno anche l’ottima idea di ristampare in anastatica una parte dello
speciale sulla Calabria che Piero Calamandrei organizzò nel 1950 con la sua
rivista “Il Ponte”, specchio e memoria di un’altra realtà. Povera, dolente
anche per molti aspetti, ma dignitosa, intelligente come tutti, e piena di
energie. Come a dire: se il seme buono c’era, la malattia non è etnica, ereditaria.
Cosa non ha funzionato, si chiedono allora, se
la maledizione si è abbattuta sul nome, i luoghi, le persone, tra il
barbarico e il diabolico, indistinta e ribadita? Se lo chiedono più angosciati
che critici, e nello stesso modo, sotto lo stesso peso, tentano qualche
risposta.
La
polvere della democrazia
“Indistinta”
è già una chiave: la dannazione è uno stereotipo, un luogo comune, ripetuto
nella disattenzione. E la disattenzione nella pubblicistica è troppa. In parte
giustificata da ragioni commerciali: se vende il genere dell’orrido, le vite
dei delinquenti, ancorché pentiti, perché no? In parte più larga effetto della
rapidità (superficialità) dei mass media,
che lavorano per accumulo, ripetendo il già detto. Si leggono i giornali della regione, dove magari si vive pure allegramente, ogni mattina con lo stomaco chiuso, cronaca nera e nerissima dalla prima all’ultima riga, mafia, malasanità e malaffare, e questo non è senza conseguenze nella psicologia locale: è come avere introiettata ogni giorno una dose di violenza. Anche delle eccellenze. Il porto di Gioia Tauro è dei
Molè o Piromalli, le locali cosche mafiose, delle mafie colombiane, delle mafie
cinesi, non l’interporto più efficiente del Mediterraneo, anche per la qualità
dei servizi locali ai mezzi e le infrastrutture. La Salerno-Reggio Calabria è
la disperazione degli automobilisti e non un gioiello tecnico, tra viadotti e
gallerie, con 50 chilometri a tre corsie, e 300 a due corsie larghe con sorpasso, senza
nessuna menzione mai dei veri inferni della viabilità, la Firenze-Bologna, con “variante di valico” annessa, 33 anni di lavori
– per 32 km. – di cui non si sa la fine, la
Milano-Genova, l’Aurelia da Civitavecchia a Livorno, né dei ritardi enormi e i costi
superfetati dei relativi adeguamenti - senza contare che gli automobilisti della
Sa-Rc sono pochi e l’autostrada è gratuita.
Varano
e Veltri fanno grande caso, e una utile disamina, dell’identità, di come si
disaggrega e si aggrega l’identità, locale e etnica oltre che individuale. Ma i
media sono rimasti l’unica pedagogia in questa società di mercato atomizzata,
senza più mediazione politica né ideologica né religiosa o culturale, e sono
tutti subdolamente traumatizzanti: più leggiamo e più ci sentiamo impotenti e
restiamo inerti. Specie in una società, andrebbe aggiunto, che si è perduta con
la necessaria democratizzazione, polverizzata. L’indifferenza al bene comune, il
disordine, edilizio, alimentare, comportamentale, il deperimento politico, del
giudizio, delle scelte, sono derivate del miglioramento economico delle masse,
che pure c’è stato. È qui la radice
dello scadimento della classe politica: non ha più un ruolo il vecchio ceto
notabilare, la borghesia delle professioni, del prestigio, della cultura, e la
nuova fatica ad affinarsi. A entrare nel ruolo del buon amministratore, e anche
in quello, che pure ricerca, dell’affermazione personale, del potere politico
correttamente (proficuamente) inteso. Prevale il sottogoverno: gli affari, l’avidità, l’intrigo.
L’argomento della corruttela epifenomeno della democrazia è indigesto, ma basti
il raffronto con Gullo, Mancini, Misasi, Guarasci, che pure erano anche loro
calabresi, ma grandi borghesi. O, come Varano e Veltri propongono, con la cultura di cui “Il Ponte”
è specchio, prima del boom.
Di
più pesa il leghismo, sulla Calabria come sul resto dell’Italia, superficiale e
apodittico. Varano e Veltri fanno grande caso di Bocca, del suo malevolente
“L’inferno”, contro l’Aspromonte e la Calabria tutta, che invece è semplice:
nel 1992, anno dell’“Inferno”, Bocca era leghista, come tutta Milano 1 – questo potevamo registrare già in “Fuori
l’Italia dal Sud”, 1993. Milano 1 è la circoscrizione elettorale di Milano
centro, che raggruppa l’élite
finanziaria e intellettuale della città e dell’Italia, ed era stata in
successione spadoliniana, craxiana, leghista, sempre cioè à la page. Il leghismo si è voluto molte cose, superficiale e
contraddittorio come è nel dna di Milano, autonomista e ministeriale, antinazionalista
e sciovinista, tedescofilo e antitedesco, ma una con più costanza:
antimeridionale. Senza argomenti, abbandonandosi alla stupidità. La quale però
è violenta, ed è contagiosa. Bocca aveva esordito nella chiave dell’“Inferno”
quarant’anni prima, l’11 settembre 1955, sul milanese “L’Europeo”, titolando
“Delianova paese del West” una serie di delitti culminati nell’assassinio del
maresciallo dei Carabinieri Sanginiti, originati da una vicenda di gelosia, o
storia d’amore tradita. Che “L’Inferno” sia stato riproposto prefato da
Scalfari, calabrese eminente, non cambia.
La Calabria è quella che è, insomma, per
molte ragioni. Alcune senza sua colpa. La più importante resta però da dire: il
senso dell’ordine pubblico. Che sembra un titolo di Garcia Marquez, ma è una
triste realtà, di realismo non magico.
Ho
visto nascere la mafia
Mimmo Gangemi, ricordano gli autori, ha
testimoniato che adolescente, quindi a metà degli anni1960, ammirava, come
tutti, gli uomini d’onore del suo paese, Santa Cristina d’Aspromonte. Che però
non erano ancora mafia. Questa stava crescendo da alcuni anni, poco discosto da
Santa Cristina, a Castellace di Oppido Mamertina, come mafia dei terreni. In
contemporanea con i Piromalli di Gioia Tauro, la mafia del commercio, piccolo e
grande. Abbiamo visto nascere, e anzi sperimentato in prima persona, come
piccoli proprietari da espropriare, la mafia della Piana di Gioia Tauro, un
fenomeno nuovo, della Repubblica, al coperto anche della Legge – le prime
mutazioni sono arrivate una quarantina d’anni dopo, quando il maltolto era già
miliardario e non più confiscabile ( http://www.antiit.com/2013/10/ce-la-mafia-quando-il-delitto-e-impunito.html ). Cos’era
cambiato? Una mutazione razziale? sociale? Nella nostra esperienza una sola
cosa: i Carabinieri. La proprietà non era da proteggere e i Carabinieri, che
tutto sapevano, non si sono mossi. Magari creando all’Aspromonte la fama
d’inaccessibilità.
Lo stesso per i sequestri di persona, su
cui Veltri ha condotto al tempo più di un’indagine, che hanno fatto la metà del
nuovo business mafioso dell’altra
faccia dell’Aspromonte, la Locride (Platì, San Luca, Bovalino e Siderno più che
Locri). Nel sottinteso che chi ha i soldi paga. Di 180 sequestri di persona a
scopo di estorsione censiti in quarant’anni nell’Aspromonte, a partire dal
primo, di Ercole Versace, il 2 luglio 1965, di cui 124 in Calabria - 18 nella
sola Bovalino - e 56 in altre regioni, non uno, si può dire, è stato
perseguito, o altrimenti dopo molti anni. Pur essendo un delitto complicato,
prolungato nel tempo, con uno schieramento criminale largo e larghissimo:
rapimento, trasferimenti, nascondigli, vettovagliamento, trattativa, pagamento
del riscatto, in genere ingente. Come dire impenetrabile l’Anonima Sequestri? Achille
Serra, parlamentare di destra e poi di sinistra, ha capitalizzato politicamente
la straordinaria esperienza di questore e poi prefetto a Milano nel 1992-1993.
Anni nei quali semplicemente “ordinò” che non ci fossero più sequestri di persona
sotto la sua giurisdizione.
Lo stesso per la droga, l’altra metà del
business mafioso di nuovo conio nella
Locride. Maria Serraìno, di Cardeto, moglie di un contrabbandiere di sigarette
condannato 65 volte in 35 anni, divenne “La Signora” e “Mamma eroina” a Milano,
dove praticò di tutto, dalla ricettazione allo spaccio e all’usura, liberamente
in casa sua, in piazza Alpi, per trent’anni. Con sfoggio di fuoriserie e
stravaganze dei figli, specie del primogenito, che liberamente intermediava i
fornitori sudamericani a Marbella, la Forte dei Marmi spagnola. Indisturbata,
fino a che una figlia, in crisi di eroina, non crollò, si sfogò, e gli arresti
furono obbligati.
Questo il fatto decisivo: la criminalità
prospera se indisturbata. Non ha mai vinto, non che si ricordi nella storia, ma
bisogna contrastarla: l’unica cosa che il criminale teme è il Carabiniere, la
prigione. Nel Seicento di Manzoni la criminalità più diffusa era in Italia nel
milanese.
Il
romanticismo naturale
La tela di fondo certamente c’è. Ma non
etnica – che vuol dire, la Calabria è ben parte dell’Italia, la più indifesa.
Né storica: il brigantaggio, si ricorderà, fu anche calabrese (e siciliano) ma
soprattutto fu lucano, della regione cioè oggi la più immune alla criminalità. Vincenzo
Padula e altri scrittori risorgimentali ne hanno tramandato racconti di
efferatezza ineguagliabile, dei briganti calabresi di inizio secolo, borbonici
antifrancesi. Ma al loro terribilismo fa da contrappeso, credibile, l’ironia di
Paul-Louis Courier, lo scrittore che a quel tempo ne fu la controparte
designata, ufficiale napoleonico. C’è d’altra parte, negli stessi scrittori, un
certo romanticismo del brigante – di Mimmo Gangemi ragazzo. Radicato nel
“romanticismo naturale” del “gruppo calabrese”, il gruppo dei letterati
individuati da De Sanctis a metà Ottocento, autori di novelle in versi di
briganti buoni, Miraglia (“Il brigante”), Mauro (“Errico”) e ancora Padula
(“Valentino”, “Antonello”). In linea con Schiller, Byron, Walter Scott (il
Robin Hood di “Ivanhoe”), e la grande opera italiana, di Verdi, Bellini, Mercadante,
che Napoli allora praticava al meglio. Nella temperie ribellistica (carbonara,
mazziniana, libera pensatrice) che distingueva gli spiriti avvertiti
dell’epoca. Che Hobsbawm – Varano e Veltri lo ricordano – fa viva ancora nel
dopoguerra. Anche se contraria all’indole e agli interessi delle masse, allora,
e ancora nel dopoguerra, contadine. Ultimamente è prevalsa la lettura contadina
dell’anarchismo calabrese, da Berto a Saviano, ma così non è, per nessun
aspetto, né psicologico né sociale e certamente non storico. Il ribellismo in
Calabria, in Italia, è borghese – fu
borghese la “repubblica di Caulonia”, opera in larga misura di Felice
Cavallaro, insegnante, sindaco. E più oggi, quello delle armi, della droga,
delle intimidazioni, più spesso giovanile: sconsiderato ma consumista (la
scorciatoia, l’avventura, il potere).
Il razzismo c’è pure, come no. Il
razzismo (leghismo) è facile. A opera più spesso degli stessi meridionali, e
calabresi. Compresi, inconsciamente, i compilatori delle gazzette quotidiane in
Calabria. Ma nella sua forma “milanese”, del mondo cioè che ha governato
l’Italia per un venticinquennio, coi suoi giudici, le banche, i politici, gli opinion makers (libri e librerie, autori
celebrati, autorità morali, le tecniche di persuasione - marketing - di cui
Milano è padrona e maestra). Che può essere cattivo ma non è irresistibile. Milano
è soprattutto la capitale della “moda” – vuole essere in voga, all’ultima moda
– e dell’industria del consenso. Dell’“industria della parola” – bisognerebbe
catalogarne una. Riduzionista, semplicista, perché la voga è passeggera – deve
esserlo, bisogna rifare la spesa a breve termine. E poco compassionevole,
riguardosa, perché gli affari si fanno così. A Milano, diceva Malaparte, la
spazzatura “sempre quelli di su la scaricano sulle spalle di quelli del piano
di sotto”. E “parlano a voce alta, spesso gridando” (“E questo credo avvenga
non perché siano sordi, o credano tutti gli altri sordi, ma per tenersi svegli…
(e) per mostrare che non han soltanto del denaro da spendere e da buttar via,
ma anche fiato da sprecare: il che, in un popolo di mercanti, è sempre segno di
ricchezza e di abbondanza”). Ma bisogna anche dire che in questa ottica, magari
non cattiva, solo superficiale, ma dissolvente, la Calabria non fa eccezione: Roma,
Napoli, la Sicilia, la stessa Venezia che si fa affondare dalle navi crociere,
Genova sotto l’acqua, L’Aquila sotto il terremoto, l’Italia tutta è deprimibile
e depressa, “Milano” non fa sconti.
L’ordine
che non c’è
La differenza ha altre cause. La razza
non c’entra: in fatto di crimini di sangue la Calabria è nella media, comprese
le guerre di mafia, coi loro morti a grappolo, e anche al di sotto della media.
Anche negli affari poco puliti, droga, grassazioni, appalti, corruzione,
nepotismo, le percentuali pro capite sono nella media. C’è sicuramente da
qualche tempo un eccesso locale di violenza estemporanea, soprattutto
giovanile, ma c’è anche un libero mercato di esplosivi e armi – trent’anni fa
nella scuola di Totò Delfino e don Pino Strangio a Bovalino solo un ragazzo
aveva la pistola, figlio di un mafioso esibizionista, e la nascondeva (nello
sciacquone del gabinetto), gli bastava far sapere che ce l’aveva, ora “tutti”
hanno un’arma, la esibiscono e la usano, hanno rispolverato pure il coltello. Ma anche la
violenza estemporanea è un fatto di ordine pubblico, i calabresi ne sono le prime
e sole vittime.
Le repressione è la chiave: l’apparato
giudiziario e le forze dell’ordine. A lungo non c’è stata, ora evidentemente è
sfocata. Con troppe assoluzioni. Pentiti troppo inattendibili. Ne furono messi
in campo 28 contro Giacomo Mancini, che certamente non era un mafioso. Più di
recente, si è avuta l’evizione del vescovo di Locri Bregantini, che fu la
migliore diga al malaffare, e proprio nella Locride, sul quale almeno due Procure
litigavano per abbattersi.
Aldo Varano-Filippo Veltri, Una vil razza dannata? Città del Sole,
pp. 230 € 15
giovedì 2 ottobre 2014
Secondi pensieri - 190
zeulig
Tolleranza – È anticristiana
(sant’Ambrogio, “Contro Simmaco”) oppure cristiana ( Cusano, “La verità della
fede”)? È cristiano l’individuo – il
Crocefisso riporta Dio dentro ognuno. È cristiano san Paolo, il sovversivo,
nelle lettere alle chiese che via via fonda, che critica le burocrazie, il
gregarismo, i “principati e potestà”.
Sono cristiani i diritti soggettivi, seppure tardi, dei canonisti
dell’anno Mille. È anzi chiesastico tutto l’armamentario del costituzionalismo,
la rappresentanza, il corpo elettorale, l’eleggibilità, il corpo sociale (il
contratto di Rousseau).
zeulig@antiit.eu
Anima - Non c’è, non immortale, nella
Bibbia. Lo dice Voltaire nella n. 59 al “Trattato sulla tolleranza”, ma non è
sbagliato. Non c’è in Mosè, come si fa supporre. E in Giobbe in modo contestabile
– dipende dalla traduzione, lo stesso suono tradendo molti significati. È come
Voltaire dice, “sulla traccia del grande Arnauld nell’apologia di Port-Royal: «L’immortalità
dell’anima, le pene e le ricompense dopo la morte, sono annunciate,
riconosciute, constatate nel Nuovo Testamento”.
L’anima è poi ebraica, ma in forma di “qualcosa
di slegato, aereo, una sostanza leggera”. Come la concepiscono alcuni padri
della chiesa, Tertulliano, sant’Ireneo. Con la pesatura, gli innesti, la covatura
delle anime, e altre stravaganze.
Sant’Ireneo dà all’anima natura corporea.
Animus e Anima, i due archetipi sessuati della
psicopatologia di Jung a spiegazione della psicosi, segnano e sono un mundus imaginalis della psicofilosofia islamico-iranica,
secondo Henry Corbin che Jung ebbe amico, e col quale discusse più volte il
tema. Due concetti che sottendono una metafisica - allo stesso modo che la
junghiana Imago, argomenta Corbin.
Corpo - “La nevrosi è il corpo che prende il comando”,
dice Jung. Può essere, ma non c’è relazione funzionale rilevabile, che il corpo
al comando produca nevrosi.
Dio
– Effettivamente è ubiquo: il
credente e l’ateo entrambi convivono con Dio – anche l’agnostico, ma un po’
meno pressato. L’uno se ne ritiene salvato, l’altro abbandonato.
Non si è
peraltro credenti solo per atto di fede, cioè per grazia ricevuta. C’è chi,
come Croce, crede per abitudine (consuetudine), per storia familiare, personale.
Lo stesso molti atei, in sé fortemente teisti.
Empatia
- Meglio adattabile appare al contesto
socio-politico. Sviluppata a fine Ottocento dalla filosofia dell’arte, e
ripresa in chiave psicologica, specie dalla psicoanalisi freudiana, è nozione
forte, perfino condizionante, nel contesto sociopolitico, o della psicologia sociale.
Come “modo” del pregiudizio: il razzismo, la faziosità, la “chiesa”. Il pregiudizio
è concrezione di impulsi, linguaggi, storie - la “responsabilità anonima” di Jaspers,
1923, “Die Idee der Unversität”.
Essenza – Voltaire,
“Trattato sulla tolleranza”, nota 59: “Non sappiamo ciò che diciamo quando
pronunciamo la parola sostanza. Vuol dire, alla lettera, ciò che è sotto, e per
ciò stesso ci avverte che è incomprensibile”.
Fondamentalismo – È un disegno
politico e non religioso – un disegno politico che si fa scudo e arma della
religione. Cusano, nel “De pace fidei”, argomenta che la religione è un fattore
di pace e non di guerra. Che la comune ricerca di Dio porta alla pacificazione tra le religioni. E non al
sacrificio della pluralità dei riti bensì alla loro preservazione. Tutti essendo
manifestazione di una comune ricerca e preghiera a Dio, che per definizione dev’essere
unico.
Galileo - Con Galileo più che con
l’isolato Leonardo nasce l’uomo moderno che inventa, riflette Ernst Bloch
nell’aurea “Filosofia del Rinascimento”: le procedure dell’esperimento ci sono
tutte, e c’è anche la coscienza dei limiti dell’esperimento. Dell’esperimento
come innovazione, oltre che come ipotesi:
“vedere per prevedere”, si dirà più tardi. Esponente della dinamica
società borghese fiorentina, come lo inquadra il biografo più fedele, Antonio
Banfi, Galileo voleva “un sapere fatto di concrete esperienze, di dottrine tecnicamente provate, anzi
fiorite dalla tecnica stessa… Tecnica vuol dire coscienza della struttura
obiettiva dei corpi, dei rapporti di connessione e di dipendenza tra i
fenomeni”.
La
teoria dell’ignoranza, della cospirazione del Maligno, Popper vuole speculare
all’ottimismo della verità. Forse l’ottimismo di Galileo non è “vero” ma, dice
Popper, la concezione che “la verità può forse essere velata, ma può rivelarsi”
promosse “il più grande movimento di liberazione” dell’umanità: “La cosa più strana
di tutta questa storia è il fatto che questa falsa epistemologia è stata la
fonte maggiore d’ispirazione di una rivoluzione intellettuale e morale che non
trova riscontro nella storia. Incoraggiò
gli uomini a pensare da soli; diede loro la speranza di poter liberare dalla
miseria se stessi e gli altri grazie alla conoscenza. Rese possibile la scienza
moderna. Divenne la base della lotta
contro la censura e la soppressione del libero pensiero. Divenne la base della coscienza non
conformistica, dell’individualismo e di un nuovo senso della dignità umana;
dell’esigenza dell’educazione universale, di un nuovo sogno di una società
libera”.
Realismo – Deve sopravvivere
alla battuta di Kierkegaard al ricordo delle lezioni di Schelling a Berlino, da
cui tanto si aspettava e tanto invece lo delusero: “Quello che i filosofi dicono della realtà
spesso è deludente. Come quando da un rigattiere si legge un’insegna con su
scritto: «Qui si stira». Se si andasse a fare stirare il proprio abito si
resterebbe delusi, perché l’insegna è semplicemente in vendita”.
Tempo – La stazionarietà è impossibile. Impensabile. Non
auspicabile. E tuttavia: La storia è agli inizi, ancora corriamo, dopo il Big
Bang nel tempo non tempo. Sessantacinque milioni di anni fa c’erano i
dinosauri, gli esseri umani solo cinque milioni di anni fa, l’homo sapiens appena
duecentomila anni fa.
Ma senza una
scansione temporale la storia in realtà non è evolutiva. Se non per gli utensili
che si fabbrica, come in surplace.
zeulig@antiit.eu
Il bracciante fu l'eroe della Grande Guerra
“La
guerra ci ha educato alla lotta, e resteremo combattenti finché viviamo”. Anche
perché “la guerra non è solo nostra madre ma anche nostra figlia. L’abbiamo
cresciuta, così come essa ha fatto con noi”. Sinistra premonizione. Ma
corretta: questo di Jünger è il libro forse “più” vero sula Grande Guerra,
sulla guerra. Più del suo stesso “Nelle tempeste d’acciaio”, scritto a caldo
nel 1919. Degli istinti animali sempre vivi. Dell’orrore, costante nell’uomo,
fin dalle “paure” dell’infanzia. E la putrefazione. La trincea. La paura – il
nemico è sempre dentro. L’eros, il bisogno incontinente della scarica ormonale.
Uno sguardo a fondo sulla guerra che Jünger continuerà ad arricchire in testi
dispersi (ora raccolti nel primo dei tre volumi degli “Scritti politici”) che
accompagnano la riedizione di questa “Battaglia interiore” nel 1926-27.
Le pagine
sul “bracciante” sono tutto l’opposto del “Tutti a casa” di cui l’Italia si
compiace. Di rispetto, e anzi di ammirazione, motivata. Dopo una pagina, a metà
libro, molto jüngeriana e però singolarmente inattaccabile, sulla “riduzione a
massa” (“Ormai disabituati alle forti ebbrezze, il potere e gli uomini ci fanno
orrore, i nostri nuovi dèi sono la massa e l’uguaglianza. Se la massa non può
diventare come i pochi, allora i pochi diventino come la massa”). “Perfetto” al
fronte è stato solo lui, il bracciante. Viene in mente la Brigata Catanzaro,
passata alla storia – nel quadro del “contadiname” che stava per far perdere la
guerra all’Italia - per la ribellione al fronte, e la decimazione che subì a
opera dei Carabinieri, ma dopo una anno e mezzo di offensive senza mai un
turno, un giorno, di riposo.
La
battaglia è la liberazione, “energia fatta carne, carica di forza alla massima
potenza”. La guerra si capisce facendola: “La lotta si nobilita con l’azione. E
anche il motivo della lotta. Altrimenti, come si fa a stimare il nemico? Solo
un valoroso può capirlo fino in fondo. La lotta è sempre qualcosa di sacro”.
Concepito a difesa del combattente, del reduce, nella “follia collettiva”
dell’ingratitudine e del rifiuto del dopoguerra, pubblicato nel 1923, il libro
riesuma la visione della guerra da combattente che il lettore di Jünger già
conosce, ma con un occhio clinico più affinato. Al solito, non entusiasta e non
cattivo, di chi ha visto le cose, anche sgradevoli, e le dice. Ma con una pietas. Che la nuova
introduzione, alla riedizione del 1926-27, qui riproposta, espone senza
ambiguità.
Jünger ha
vissuto e rivive la Grande Guerra coma una guerra di Troia. Con le trincee e i
cannoni, ma come scontro ancora di persone. Di un’epica minuta, frantumata, ma
lui stesso è piccolo-grande eroe omerico. Con un’altra visione della guerra,
non politica, non razionalizzata: un evento. E nell’evento, con il massacro,
anche l’ineluttabilità. E il valore che ad essa si lega: “Noi abbiamo avuto
accesso anche allo sconvolgimento ebbro che sia accompagna alla consapevolezza
di compiere grandi azioni”, una “euforia”, il “senso morale” insito “nelle
grandi opere”.
Il
richiamo omerico Jünger non fa mai. Si appella a una “esperienza interiore”,
un’orma indelebile che la guerra ha lasciato, forte come è possibile ipotizzare
nel costruttore ignoto delle piramidi. È la guerra una carneficina e una
sperimentazione: “La guerra è il potente incontro tra i popoli…. Mediante la
guerra le grandi religioni sono diventate un bene per il mondo intero, le razze
più valorose si sono messe in luce prendendo le mosse da oscure origini, e innumerevoli
schiavi sono diventati uomini liberi”. Quando si dice “mai più guerra” bisogna
saperlo. Una dura verità. Il pacifismo è un segno epocale di fine imminente.
Jünger lo sostiene in polemica con l’antireducismo che lo umiliò a guerra
perduta. Ma allora le due guerre tedesche saranno state le ultime dell’Europa e
hanno segnato la fine dell’Europa stessa.
Ernst
Jünger, La battaglia come
esperienza interiore, Piano B, pp. 160 € 13
mercoledì 1 ottobre 2014
Ombre - 238
I più volenti col De Magistris condannato sono i giornalisti
che più hanno beneficiato delle confidenze del giudice. Che giustizia? Che
informazione?
Si vuole la ‘ndrangheta dominante a
Brescello, il paese di Peppone. Ma su Putin, niente?
Una professoressa di Procedura penale,
avvocato stimato, consulente del ministro della Giustizia, bella donna, bocciata
al Csm, dove vanno cani e porci: questa era ancora da vedere. O ha giocato la
“bella donna”? La bocciatura è stata letta da Maria Rosaria San Giorgio,
anch’essa bella donna ma con quindici anni in più, anch’essa neo eletta, ma
giudice a differenza della bocciata. di cui ha sentenziato appena convalidata:
“Si propone di non convalidare l’elezione dell’avvocato Teresa Bene”.
È vero che a Napoli tutto è possibile –
le due belle donne sono entrambe napoletane.
È la giustizia, che è sempre napoletana.
Sennò, che spettacolo è?
È
pure vero che i giudici non perdonano Orlando. Non possono metterlo dentro ma
non gliene faranno passare una.
I
giudici non complottano, gli viene spontaneo. Orlando vuole riformare la
giustizia, e questo bisogna assolutamente evitarlo: niente più comandi, vacanze
ordinarie, retribuzioni (quasi) ordinarie, dove si va a finire? L’indipendenza
dei giudici ha bisogno di molti soldi.
Il
sindaco di Roma Marino si dice “attratto” dalla drghe: “Vedendo l’energia de
Rolling Stones difficile dire ai figli di non usarle”. È una scemenza, e non è
nemmeno vero - Jagger e Richards sono sempre vivi perché non si drogano, non si
sono mai drogati mentre Brian Jones ne è morto, presto. Ma per dirlo ci vuole
Alemanno, l’ex sindaco che Marino ha sconfitto. Come se fosse un’accusa della
destra alla sinistra. La quale, di suo, è senza parole?
Salta
anche l’ultima inchiesta del De Magistris forzato in Calabria, la Drug
Off. Ottanta arresti in tutta Italia,
otto anni di processi, 51 rinvii a giudizio, ora tutti assolti, più 18 assolti
con rito abbreviato. Mai successo.
Di Pietro ha vinto tutti i sui processi,
trecento e più, e per la malversazione, accettata in tv, non è stato indagato.
De Magistris li ha persi tutti. Di
Pietro dunque è tutti noi. Ma in che senso?
Si lamenta il Procuratore Capo di Reggio
Calabria Cafiero de Raho: troppi sbarchi, i Carabinieri vengono distolti dalla
lotta alla ‘ndrangheta. Ecco perché.
D’Alema dice “Renzi istruito da
Verdini”, e si merita la prima pagina del “Corriere della sera”. Ne farà un
“Renzone”? Si è dimenticato di Prodi, De Benedetti e Scalfari che lo
affossarono quindici anni fa come “Dalemone”, una copia di Berlusconi? E
Verdini, chi era costui?
Ma tutto il Pd sembra ansioso di
confermare che Renzi fa bene a rottamare.
Dunque, Napoli si era eletto “Giggino ‘a
manetta” – si viene a sapere ora che “Giggino” De Magistria è a sua volta ammanettato. La cosa più
inverosimile del giustiziere condannato per ingiustizia è che la cosa sia così
ovvia una volta usciti da Napoli. Non
c’è altro rimedio?
Non perde tempo Paolo Scaroni. Accusato
di reati valutari e patrimoniali, si fa intervistare da “Repubblica”, la nemica
dei berlusconiani, e dice che ha fatto tutto su suggerimento dell’allora
ministro Tremonti. Cosa naturalmente non vera – Tremonti non è un cretino. Ma
la viltà è di destra (che differenza da un Greganti!)
Questo Scaroni, un manager rientrato
dall’estero senza gloria, deve tutto, presidenze e patrimoni, a Tremonti e ai
berlusconiani.
Delenda Fiat Italia
Sarebbe
tutto da ridere, se non fosse triste, il “processo” che la Commissione di
Bruxelles ha aperto, con condanna preannunciata, a carico del Lussemburgo per
“aiuti di Stato” a favore della Fiat. Non dei milioni di altri domiciliati nel
granducato, della Fiat tra tutti. Un processo aperto dall’ex commissario alla Concorrenza
Almunia, bieco tedescofilo, un uomo che Berlino ha sempre tenuto col morso
stretto, e perfezionato dal suo successore, la danese Vestager, tedescofila
promettente.Perché si tratta solo di fare un favore alla Volkswagen. La condanna
arriverà a ridosso del debutto della Fiat a Wall Street il 13 ottobre, per rovinare il collocamento..
Si
indaga anche su Apple e su Starbucks, ma per colpire la Fiat. La questione di
dove pagano le tasse le multinazionali è reale, ma non è di adesso. Lo è
diventata dal giorno, pochi mesi fa, in cui Fiat Finance and Trade è stata domiciliata
in Irlanda, Olanda e Londra: l’indagine è subito partita. Volkswagen invece si
può liberamente domiciliare per il fisco nel Liechtenstein e a Hong Kong.
La Fiat
troverà i mezzi per scapolarla. La tristezza sta nel fatto che niente è
cambiato a Bruxelles. Abbiamo votato a maggio, anzi non votato, contro una Commissione
di lupi mannari. Per ritrovarcene una eguale, anch’essa nominata da Angela Merkel,
L'islam tentato dalla barbarie
Un
processo di sette anni a una ragazza che ora ne ha ventisei. Anzi, non un
processo, ma un’impiccagione sospesa, la condanna è stata già comminata. Per l’assassinio
di un agente dei servizi segreti che la stessa ha sempre negato e l’accusa non
ha mai provato. Di un uomo comunque morto per un tentativo di stupro ai danni
della stessa. Tutto questo succede a Teheran, non nei deserti del califfato o
dei talebani. Ed è il segno, purtroppo non unico, della barbarie che minaccia l’islam.
Il
terrorismo talebano, dell’Isis, di Al Qaeda, non fa stato: si tratta di bande, più
violente – naziste, fasciste - che
islamiche. Quello degli ayatollah sì: sono tutti dottori della legge, e
governano il paese forse più civile di tutto l’islam e del Medio Oriente, di maggiore
tradizione e consideratezza.
Concedere
le attenuanti no. Accusare un congiunto della donna nemmeno: non avrebbe implicato
la pena di morte, e questo è tutto il succo della storia. L’impiccagione della
donna si vuole esemplare. Si voleva con la presidenza Ahmadinejad, l’uomo del
Guardiano della Rivoluzione, il grande ayatollah Alì Khamenei, capo dell’’islam
in Iran.
Quando le teste rotolavano per ridere
Nicolina Zumbo, una quasi miss Reggio
Calabria, quasi quarantenne, viene decimata oggi dai suoi nemici politici
appena si candida in lista, ventiquattresima, con un candidato a sindaco di
Reggio Calabria. A vent’anni stava con un boss, da cui ha mediato una figlia
non riconosciuta e un’accusa di favoreggiamento. L’accusa era a suo tempo caduta,
ma Nicolina è finita lo stesso impiombata alle Comunali. Un’altra Nicolina,
Licciardi, di Seminara e non di Reggio, si era invaghita di un capobanda due secoli
fa, il brigante Bizzarro, non altrimenti nominato, anch’egli calabrese. Un
tagliatore di teste che finirà anch’egli male, ma in altro modo – la “donna del
Sud” è sempre sorprendente..
La storia era dunque scritta, i
calabresi come i califfi dell’Isis sono mozzateste? Sì e no: questo racconto di
briganti è di prima del birignao sociale – sono cattivo perché sono povero, etc.
Dumas poi lo orchestra, benché agli esordi narrativi, con un’ottima dose di
suspense. Tra i suoi mezzi linguistici la laconicità, che da sola fa l’ambiente,
e il linguaggio allusivo, complice – reperito e memorializzato nei (pochi)
giorni di soggiorno, peraltro forzato, in Calabria,.
Il racconto è estrapolato dai ricordi di
viaggio a Napoli, in Sicilia e in Calabria di Dumas nel 1835, da lui pubblicati
in tre volumi, poi riuniti editorialmente in due volumi col titolo “Il capitano
Arena”, o “Lo Speronare”. Questa edizione reca le illustrazioni, altrettanto
poco compiaciute, di Clément Auguste Andrieux, pittore e incisore, collaboratore
di giornali umoristici, “Charivari”, “Journal amusant”, “Petit journal pour
rire”.
Alexandre Dumas, Cherubino e Celestino, Pellegrini, pp. 73 € 6,20
martedì 30 settembre 2014
Recessione - 25
La recessione è una depressione:
“L’Europa è in quella che si può
definire una triple dip recession,
con il reddito che è caduto non una ma tre volte in pochi anni, una recessione
veramente inusuale” – Josph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia, nella lectio magistralis cui è stato invitato dal presidente della Camera Laura
Boldrini il 23 settembre.
“L’Europa sta perdendo 2000
miliardi di dollari l’anno rispetto al proprio potenziale di crescita” - id.
“In molti paesi europei siamo di
fronte non a una recessione, ma a una depressione” - id.
“In Europa le riforme strutturali
sono quasi tutte viste dal lato dell’offerta, con obiettivi come l’aumento dell’offerta
o della produttività. Ma i problemi sono legati a una debolezza della domanda,
non dell’offerta. Le riforme strutturali sbagliate aggraveranno, attraverso la
riduzione dei salari e l’indebolimento degli ammortizzatori sociali, la
debolezza della domanda aggregata”, con più disoccupazione e incertezza - id.
I paesi Ue che hanno adottato i
maggiori tagli “hanno avuto le performance peggiori. Non solo in termini di
pil, ma anche in termini di deficit e debito pubblico… Se il pil decresce anche
le entrate fiscali si riducono e questo non può che peggiorare la posizione
debitoria degli Stati” – id.
“Un basso rapporto tra debito e pil
è l’idea che sta dietro il fiscal compact. Ma non c’è nulla nella teoria
economica che offra un sostegno ai criteri di convergenza adottati in Europa” -
id.
Il mondo com'è (189)
astolfo
Austerità – Si può dire
all’origine del grande crollo del 2006-2007. E secondo molti economisti, i più
quotati, è la causa principale della persistente recessione europea, che ormai
configura una depressione – una recessione dagli effetti cioè duraturi.
In
forma di rigore fiscale (una sua prima accezione è di compressione dei consumi
– è l’austerità made in Italy del 1974-1975, di Fanfani e poi di Berlinguer) è dell’amministrazione
Clinton, della seconda, 1996-2000. C’era stata una prima ondata liberista, con
le amministrazioni Reagan, sulla traccia dei governi Thatcher. Nella forma di una
riduzione della spesa sociale, però, e non del rigore di bilancio. Questo
intervenne con Clinton. Che nel 1992 vinse le elezioni contro Bush proprio denunciando
i “due deficit”, della spesa pubblica e della bilancia dei pagamenti con l’estero.
È sotto l’influenza del successo elettorale di Clinton che il Fondo Monetario e
la Banca Mondiale avviarono ovunque la politica del consolidamento fiscale, del
rigore. Nella aree però inizialmente extra Ocse. Nei paesi industrializzati prevalse
inizialmente la prima politica di Clinton, di ridurre il peso del debito
incrementando la crescita dell’economia con le riforme sociale – il
miglioramento dei salari e, per qua to concerne l’amministrazione pubblica, l’incremento
della spesa per la formazione.
Poi Clinton perse le elezioni di medio termine nel 1994, sotto le critiche
repubblicane di eccesso di spesa, e adottò rapidamente, a fini elettorali, una
politica di austerità, che caratterizzerà il suo secondo mandato, 1996-2000,
assortita dalla liberalizzazione totale degli affari – a fini sociali. Tagli alla spesa, con la fine proclamata del
“welfare che conosciamo” - una “politica di destra”, avrebbe detto l’Avvocato
Agnelli, per la quale c’era bisogno di “un governo di sinistra”. Dal 1998 al
2000 Clinton poté vantare un attivo di bilancio. Ma ai tagli di spesa
accompagnò la deregolamentazione totale del settore finanziario, banche
comprese. Banche e finanziarie si sostituirono al governo col credito facile –
il debito privato s sostituì al debito pubblico. Ne approfittarono i ricchi,
naturalmente, ma anche la middle class, lavoratori compresi. Tutti ebbero
accesso al credito per finanziarsi la casa, l’istruzione dei figli, la
formazione propria sul lavoro, il miglioramento dei servizi locali (scuola,
sanità pubblica, nettezza urbana). Sulla prima casa fu anche possibile
accendere ipoteche di secondo e più alto grado, per comprarsene una seconda, o
le vacanze, per investire, per speculare in Borsa. Fino al crollo del 2006-2007.
Funzione pubblica – Funziona poco
e male perché è privata. Politica. Patronale, nel senso del patronaggio. Democristiana.
Della Dc propriamente detta, ancorché sciolta sul piano giuridico, che la
controlla ormai da settant’anni e l’ha modulata (le ha dato un imprinting), e
dei residui laici e comunisti che si sono allineati. Per ‘anima cosiddetta
andreottiana della Dc, cui il Pci da ultimo ambì assimilarsi. La scuola e le
Poetse, che sono i due maggiori tronconi, lo sono a ogni evidenza. La scuola
fino all’università, il degrado della quale non ha altra causa se non il
patronaggio. Che la cura e le energie limita ai posti e le funzioni, bidelli,
amministrativi e qualche “cattedra locale”, feudo riservato per legge. Che
questa legge sia stata predisposta da Berlinguer, allora ancora mezzo Pci, non
cambia, conferma semmai l’allineamento dell’ex Pci alle pratiche patronali, di
controllo del voto. Gli ex presidi e ex provveditori continuano a esercitare i
loro piccoli poteri discrezionali, sempre e unicamente nella gestione dei
posti, una massa di precari che si aggira sulle 300 mila unità, fra aventi posto
(precario) e pretendenti. Per questo contro ogni disegno di stabilizzazione e
efficienza. Cinquant’anni di scuola media unica non sono bastati per assestare
l’insegnamento proprio per questo, per non inaridire il patronaggio, il piccolo
potere personale e politico - effetto e motore dell’inefficienza.
Nella
Sanità la privatizzazione, meno visibile sul lato gestione del personale, è
invece ormai straripante su quello economico, anzi affaristico. Già vent’anni
fa, quando ancora esisteva l’Iss, che ne censiva annualmente le spese, la
sanità risultava riprivitizzata a metà. A vent’anni appena dal Sistema Sanitario
nazionale. Con l’ausilio determinante delle stesse Asl.
La
Rai è altro esempio preclaro delo stesso fenomeno – la vecchia categoria del “sottogoverno”.
Intrasformabile. Immarcescibile. Nella politica delle assunzioni fino a quando
ha potuto esercitarla. In quello dei contratti a termine come più in generale
delle esternalizzazioni, degli appalti. Ma anche le altre aziende pubbliche,
Eni, Enel, perfino la Fimmeccanica, e le municipalizzate, Acea, A2A, etc.
In
Germania e negli Usa non è così, per dire le due democrazie più efficienti.
Negli Usa la Funzione Pubblica è ridotta ma intera: autonoma, efficiente,
efficace. In Germani la burocrazia è forse più invasiva normativamente che in
Italia, ma non c’era una tradizione di policanteria con i vecchi principati e
non è stata creata con i regimi costituzionali, partitici. stato creata. La pratica può essere lenta, ma non
patrocinabile. Lo steso le assunzioni, le carriere, i diritti e doveri - la “Filosofia
del Diritto” di Hegel ne fa l’incarnazione dello Stato etico.
Piccolo borghese – Categoria
sociopolitica disusata e invece utilissima, l’aggettivo più che il sostantivo:
del vorrei, non posso e non lo so, non
voglio saperlo.
È
la “cosa”, il modo (di pensare, reagire, decidere) che conforma una realtà. In
contrasto sempre coi propositi: i propositi sono buoni, e anzi virtuosi, i modi
inefficaci e anzi contradittori. Dei mezzi cioè sbagliati per il fine. Delle
velleità non commisurate alle forme e alle possibilità. Di un esito infine
contrario ai propositi: essere innovativi e progressisti e difendere lo status
quo. Essere radicali e conformisti.
Petty bourgeois, la
denominazione più pregnante, per i tanti sensi diminutivi di petty, piccolo, pignolo, arcigno, avaro,
presuntuoso, il Merriam-Webster e il Cambridge riducono a derivazione da petit bourgeois, termine ricavato dal linguaggio corrente francese a fine
Settecento-primo Ottocento, poi dismesso tra le due guerre. E definiscono come lower middle class, quindi negozianti,
artigiani, piccoli proprietari. Anche l’impiegato andrebbe incluso, privato e
pubblico, e la folla di chi non lavora ma presume di sé. Ma è una definizione
che non tiene conto dell’essenza della categoria sociale: di chi non ha, o la
nega, la coscienza di classe, cioè dei propri interessi reali, per cui lavora
magari per l’amico del giaguaro. In questo senso enucleato da Marx e più dal
marxismo. Come di un borghese malgrado se stesso, che va al carro della grande
borghesia, dei ricchi, i cui interessi e comportamenti imita, che invece sono i
suoi avversari reali, in fatto di reddito, fiscalità, mobilità sociale.
Spagna – Si vuole che il referendum
scozzese abbia raffreddato gli umori in Catalogna, e invece è certo che il
referendum del 9 novembre sarà per la separazione. Perché il catalano non è
scozzese – presume più di sé. Perché la Catalogna è molto legata economicamente
alla Germania. E per l’inaridirsi improvviso dell’immagine della Spagna,
soprattutto per egli errori ultimi del re Juan Carlos, compreso il suo mancato
controllo sui figli e eredi. E per la mancanza di spinta unitaria, di un
progetto - gli eccessi sui diritti civili hanno diviso più che unito.
astolfo@antiit.eu
Ringiovanirsi tra i vecchi
Racconti e abbozzi non memorabili. Se
non per il recupero della paternità, una rarità, della curiosità dello scrittore
per il proprio padre nella narrativa – dove quella figura, castigata dal
Manzoni, è poi rimasta sempre in punizione. Anzi obliterata, nemmeno rimossa
cioè, senza mai un’ombra di sensi di colpa.
Una serie di racconti, alcuni solo
abbozzati, recuperati nel lascito, non fulminanti. Se non per la messa in
prospettiva che Gabriele Pedullà fa in introduzione. Fenoglio è uno dei pochi
scrittori – a parte i veneti per ovvie ragioni di territorio – a legare la
seconda guerra alla prima. E lo fa per scoprire “i Fenoglio”, il padre e i
suoi. A ciò sfidato involontariamente
dalla madre, che non ne aveva buona opinione.
Sono racconti di vita paesana, piuttosto
scontati. Il disegno epico di Fenoglio, seppure lieve e a volte irridente e
irriso, rivolto al passato: il genere si presta ad avvicinare vecchi e giovani,
i giovani ai vecchi. Ma in questa risalita non sembra più nelle corde “del”
Fenoglio.
Beppe Fenoglio, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, pp. 192 € 10
lunedì 29 settembre 2014
La scoperta della Germania
La
vigilanza bancaria europea che partirà il 4 novembre “si applicherà solo a 120
banche”, annota Marcello De Cecco su “Affari & Finanza” di “Repubblica”,
lasciando fuori “ben 1.697 banche tedesche”. Sono le casse di risparmio, e le banche
popolari, cooperative e di rilievo regionale “che intrattengono fitte relazioni
con la politica locale”. La Germania fa eccezione. Come l’Italia, aggiunge l’economista
per non scandalizzare troppo. Ma non si esime dal dire “leggendaria l’opacità
dei bilanci bancari tedeschi”, per “una marcata debolezza e inefficienza
strutturale”.
Una “riforma”,
si può aggiungere, che né la Bce né Bruxelles chiedono alla Germania. La quale
ha imposto una vigilanza bancaria europea limitatissima perché non vuole
ficcanaso in casa.
Un caso
di Europa de facto. Di cui infine il “Corriere
della sera” prende atto, ma limitatamente all’opinione di Galli della Loggia: l’assetto
europeo è cambiato, l’Europa è a guida – egemonia – tedesca, con un gruppo di
Stati satelliti. “Da tempo tra i protagonisti a ogni effetto della
politica interna italiana ce ne sono almeno due che italiani non sono”, esordisce
lo storico: “l’Unione Europea e, principalmente per suo tramite, la Germania. E
la loro presenza dietro le quinte serve spesso ad alimentare qui da noi
progetti di natura ambigua, voci incontrollate”.
Due professori dunque per fare l’informazione. Non i
corrispondenti né gli inviati in Germania e a Bruxelles, che pure sono tanti.
Non i loro giornali. Né l’interminabile informazione Rai, dialoghi con gli
ascoltatori e talk-show compresi. Il “dietro le quinte” di Galli della Loggia è
per questo impressionante. Ma di una subalternità, va detto, che è solo “volontaria”.
L’informazione che i due studiosi recepiscono è infatti aperta,
libera e costante su tutti i giornali
tedeschi, con abbondanza di motivazioni pro e contro. Questo sito ne ha dato
frequentemente notizia. Una Germania diversa, e una Ue diversa, di cui “Gentile
Germania”, il libro di Giuseppe Leuzzi in libreria da inizio anno, dà conto in
dettaglio.
Stupidario sportivo
“Giocando così”, dice Inzaghi a
Cesena, dove rimedia un pareggino senza lode, “faremo divertire il nostro pubblico”.
Zoff va da Fazio e fa 10-0, benché
sia un (ex) portiere. Inzaghi, centravanti, va a Cesena e fa 1-1. Inzaghi è
quello che cacciò Zoff dalla nazionale.
È lo stesso Inzaghi che per un anno
preferì fare la riserva a Parma che giocare titolare a Napoli.
“Siamo affamati, arriveremo
lontano”, dichiara Ranocchia dell’Inter. Il giorno dopo perde 4-1, contro l’ultima
in classifica.
“Sette reti al Sassuolo, Icardi e
Kovacic continuano a maturare” – “Corriere della sera.
“I giallorossi appesantiti e
battuti dall’Inter”, “Corriere della sera-Roma”, 3 agosto. L’Inter li ha
zavorrati?
“Benatia? Ho venduto il suo
simulacro”, Sabatini d.s. della Roma. Ai tedeschi, che si sa sono stupidi.
Un italiano su dieci senza volto
La
“riforma” che non si fa è quella che più pesa sul futuro, anche prossimo. Agli
effetti del fisco, della previdenza, dell’istruzione, del mercato degli affitti
e dell’edilizia abitativa naturalmente, e dell’ordine pubblico: un diritto dell’immigrazione.
Che semplifichi la stabilizzazione di questa massa, agli effetti della
residenza o del permesso di soggiorno, e della cittadinanza attiva. Per un
dovere civico ma anche per un interesse pratico, di ordine (istruzione, sanità,
relazioni interindividuali) e di economia.
Al
primo gennaio erano presenti in Italia per l’Istat “regolarmente” 3.874.726
cittadini non comunitari. E gli irregolari, saranno stati un milione? Mettiamo
mezzo milione: ci sono in Italia stabili 4,5 milioni di cittadini extra Ue. Più
un milione di rumeni, altra cifra esatta. Più i polacchi, i bulgari, gli
slovacchi, mettiamo mezzo milione. Ci sono in Italia, quasi tutti regolarizzati,
sei milioni di stranieri. Il decimo della popolazione.
Da
considerare ormai stabili.
Sentire
al mercatino matrone africane toscaneggiare, o napoletaneggiare, non è più una
curiosità, è un modo di essere – molte attività sono ormai di immigrati. Anzi,
più che una curiosità, è un modo d’essere, di assetti socio-economici sempre
meno marginali molti ambulanti sono già negozianti, molti manovali sono
imprenditori, molti operai padroncini. Non ultimo per l’effetto demografico: la
percentuale di popolazione “non italiana” è la sola che s’incrementa, mentre
quella autoctona si contrae. Ed è anche la sola valvola di possibile sviluppo
economico.
La Salvezza è femmina
Un libro “su” Corbin, di metodologia
corretta della fenomenologia religiosa – la divinità si manifesta a chi ha fede,
all’“uomo di fede” di Kierkegaard: ”L’uomo di fede non è colui che una volta
per tutte si riconosce colpevole davanti a Dio, ma colui che, come Giobbe,
combatte per Dio contro Dio”. È la verità al fondo del saggio, e quello che ne
rimane.
“Sophia eterna” è titolo redazionale per
la lunga, argomentata, l’unica non distruttiva, recensione che Corbin dedicò nel
1953 al saggio scandaloso di Jung, “Risposta a Giobbe”. Benché giovane rispettoso
delle gerarchie, Corbin fu esplicito nella difesa. “Riposta a Giobbe”, scrive,
“con le emozionanti pagine consacrate da Jung al dogma dell’Assunzione della
Vergine (nella sua verità letterale e, come
tale, non fisica)” è una rifondazione: “Esistono l’esperienza, gli avvenimenti
e le verità fisiche, ed esistono l’esperienza, gli avvenimenti e le verità psichiche”. Uno. Due, Jung allarga la
realtà alla Sophia. Yahweh si manifestò a Giobbe come Dio di giustizia e
d’ingiustizia. Giobbe alla fine si dichiara vinto ma non è convinto. L’Antico
Testamento gli darà una riposta, continua Corbin citando Jung, con “l’idea di
Sophia o Sapienza di Dio (Sapientia Dei),
di uno Spirito (Pneuma) di natura
femminile, potremmo dire un’ipostasi coeterna, preesistente alla
Creazione”. Derivata, aggiunge di suo, dalla Sophia greca e dalla Shakti indiana, cioè da “un complesso
(gnosi, manicheismo, alchimia, etc.) il cui significato è stato analizzato
progressivamente da suoi specifici studi, ora illuminato nella «persona» di
Sophia”.
La risposta junghiana a Giobbe ”delinea
una straordinaria fenomenologia della religione sofianica”. La fenomenologia di
Jung è quella dell’anima: “Dalla domanda di Giobbe, rimasta senza risposta,
all’annuncio del regno della Sophia
eterna, che magnifica con un senso teologicamente imprevisto la recente
proclamazione papale del dogma dell’Assunzione della Vergine Maria, è stata
innalzata una fenomenologia senza precedenti”. Nella scia di Kierkegaard, “il
Giobbe cristiano”, “che attirava giovani filosofi all’avventura della
soggettività come verità”. Nel circolo di Eranos a Ascona che Corbin si pregia
di avere frequentato con profitto per la presenza fisica o aleggiante di Jung. E
“col p. Sergej Bulgakov, araldo della Sophia e del pensiero sofianico”, di
Berdjaev, di Florenskij.
Islamologo esoterista, specialista del
sufismo e lo sciismo, Corbin frequentò assiduamente Jung nelle sue conferenze a
Zurigo, Ascona, Küssnacht, Bollingen, e lo vuole ascritto, anche lui, allo
“spirito di Eranos”. Da psicologo, quindi da scienziato, e non da metafisico
quale Corbin si professa, ma con una comune identità di vedute. Anche perché lo
psicologo Jung Corbin accula a più riprese ai suoi interessi metafisici, degli “Studi
sull’alchimia” e di “Psicologia e alchimia”.
Si riproponeva in quegli anni il
problema del male assoluto. Di Dio e il male. Che Jung superava proponendo una
necessaria Sophia, una presenza archetipica di un’alleanza ininterrompibile tra
il divino e l’umano. Corbin trova a Jung un retroterra nel sofianismo – lo
spirito femminile, maternale – della filosofia “ortodossa” di Florenskij e Bulgakov.
Henry Corbin, La Sophia eterna, Mimesis pp. 79 € 4,90
domenica 28 settembre 2014
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (220
Giuseppe Leuzzi
Il padre di Francesco M. Cataluccio
immaginava la sicilianità sullo sfondo della morte, ricorda il figlio in un
omaggio a Sciascia che “Il Sole 24 Ore” ha anticipato domenica 21. “E pensava
che Verga, e i più grandi scrittori italiani del Novecento (Pirandello, Tomasi
di Lampedusa, Sciascia, Consolo, D’Arrigo e Bufalino), proprio perché
siciliani, l’avessero capita e rappresentata meglio di altri e non ebbe tempo
di apprezzare l’amaro Camilleri)”. È un refuso o un lapsus di Cataluccio, ma è
vero – Cataluccio trascura peraltro Vittorini, Brancati, Pizzuto. Fuori della
Sicilia si rileggono Gadda, Calvino, Pasolini – poco. Che i siciliani non siano
anche i più grandi lettori?
“Cronache del
Garantista-Calabria” fa una pagina sulle intercettazioni pere segnalare che la
regione ha perduto il primato. “Nel 2009 era il distretto dove si spendeva di
più, con oltre 42 milioni di euro, superata solo dalla Sicilia, con 47
milioni”, nel 2011, ultimo dato disponibile, è scesa a 39. No, era primissima
per spesa pro capite, in rapporto alla popolazione – due milioni i calabresi,
almeno cinque i siciliani. Effetto della pericolosità o dell’autocritica?
Ma il fatto non è questo. È che nella stessa pagina lo stesso
giornale registra cinque casi di errata o fraudolenta trascrizione delle
intercettazioni in Calabria, con la rovina di cinque persone: i sindaci Carolina
Girasole (arrestata) e Giovanni Piccolo (arrestato, la giudice Beatrice Ronchi,
la signora Valeria Falcomatà, moglie di Demetrio Naccari Carlizzi, esponente di
primo piano del Pd nella regione e figlia dell’ex sindaco di Reggio, e il frate
Fedele Bisceglia (arrestatissimo – lunga e contorta vicenda, questa). Non è
difficile trascrivere le intercettazioni – nei casi dubbi si lascia il dubbio.
È che le intercettazioni sono un’arma, talvolta a fini di giustizia.
Boemondo – crociato contro
Costantinopoli
Un normanno di Calabria, per
questo doppiamente nocivo? Il tipo dell’anarchico di potere. Primogenito del
Guiscardo, nipote di Ruggero il Gran Conte di Sicilia, zio di Tancredi
d’Altavilla, il figlio di Oddone Marchisio del Monferrato e di Emma d’Altavilla,
la sorella del Guiscardo, i migliori dell’epoca, fu il vero capocrociato alla
Gassmann, un pasticcione colossale. Nato, forse, a San Marco Argentano, forse
nel 1058, fu di sicuro il figlio di Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e di
Calabria, e della prima moglie, poi ripudiata, Alberada di Buonalbergo. Fu
battezzato Marco, e soprannominato Boemondo, dal Behemot biblico. Il cronista Romualdo Guarna scrisse di lui
che “egli sempre cercava l'impossibile». Ma nelle forme più astruse.
Destinato improvvidamente da Roberto il Guiscardo, in
qualità di primogenito, al trono di Costantinopoli, pretese di allargare le guerre
balcaniche fino al cuore dell’impero. Da qui l’idea delle Crociate. Che però
maturò successivamente, dopo la morte del Guiscardo nel 1085. La vedova del
Guiscardo, Sichelgaita, privilegiò il suo proprio figlio Ruggero Borsa. Per un
po’ Boemondo collaborò col fratellastro e con lo zio Ruggero I, il Gran Conte
di Sicilia. Nel 1096 si mise assieme alla bande di avventurieri che promuovevano
la Corciata, col nipote ventiquattrenne Tancredi, sicuro di farsi ricco e
potente in Terrasanta.
Fu fatto prigioniero e si fece tre anni in ostaggio.
Riscattato da un nobile armeno, fu sconfitto
di nuovo, e poi ancora di nuovo. Tornò in Europa per cercare rinforzi, e
a Roma gli riuscì di convincere il papa, il monaco forlivese Pasquale II, della perfidia Graecorum, cioè di fare la guerra santa non ai
mussulmani ma all’imperatore di Bisanzio Alessio Comneno. Puntava
anche a un matrimonio importante, e convinse Pasquale II a mandarlo in Francia
a perorare la “guerra santa” contro i fratelli separati ortodossi, accompagnato
dal legato pontificio Bruno di Segni. Affascinò il re di Francia,
Filippo I, e ottenne la mano di sua figlia Costanza, benché la principessa
fosse già fidanzata a Ugo, conte di Troyes. Celebrando solenne matrimonio a
Chartres, siamo nel 1106. Secondo Sugerio di
Saint-Denis era questo il
solo oggetto della sua missione in Francia: ”Boemondo venne in Francia per
ottenere con ogni mezzo a sua disposizione la mano di Costanza, giovane dama di
eccellente educazione, d’aspetto elegante e di splendido viso”.
Poi partì all’attacco si Alessio Comneno, le prese di
nuovo, tornò in Europa a cercare aiuto, e finì oscuramente in Puglia – il luogo
e la data di morte sono l’unica sua cosa certa, Canosa di Puuglia, 7 marzo 1111
– quasi certa.
Dovette il successo, malgrado le
sconfitte e le intemperanze, alla figura fisica. Anna Comnena, la figlia dell’imperatore
Alessio, ne ha lascato un ritratto nella “Alessiade”. Un ritratto non
ricorrente, per nessun altro “crociato”, nella stessa storia – Anna aveva quattordici
anni quando ebbe l’occasione di incontrare Boemondo:
“Era uno, per
dirla in breve, di cui non s'era visto prima uguale nella terra dei Romani,
fosse
barbaro o Greco (perché egli,
agli occhi dello spettatore, era una meraviglia, e la sua reputazione era
terrorizzante). Lasciate che io descriva l'aspetto del barbaro più
accuratamente: egli era tanto alto di statura che sopravanzava il più alto di
quasi un cubito, sottile di vita e di fianchi, con spalle ampie, torace
possente e braccia poderose. Nel complesso il fisico non era né troppo magro né
troppo sovrappeso, ma perfettamente proporzionato e, si potrebbe dire,
costruito conformemente ai canoni di Policleto... La sua pelle in tutto il
corpo era bianchissima, e in volto il bianco era temperato dal rosso. I suoi
capelli erano biondastri, ma egli non li teneva sciolti fino alla vita come
quelli di altri barbari, visto che l'uomo non era smodatamente vanitoso per la
sua capigliatura e la tagliava corta all'altezza delle orecchie. Che la sua
barba fosse rossiccia, o d’un altro colore che non saprei descrivere, il rasoio
vi era passato con grande accuratezza, sì da lasciare il volto più levigato del
gesso... I suoi occhi azzurri indicavano spirito elevato e dignità; e il suo
naso e le narici ispiravano liberamente; il suo torace corrispondeva alle sue
narici e queste narici... all'ampiezza del suo torace. Poiché attraverso le sue
narici la natura aveva dato libero passaggio all’elevato spirito che gli
traboccava dal cuore. Un indiscutibile fascino emanava da quest’uomo ma esso
era parzialmente contrassegnato da un’aria di terribilità... Era così fatto di
intelligenza e corporeità che coraggio e passione innalzavano le loro creste
nel suo intimo ed entrambi lo rendevano incline alla guerra. Il suo ingegno era
multiforme, scaltro e capace di trovare una via di fuga in ogni emergenza.
Nella conversazione era ben informato e le risposte che dava erano fortemente
inconfutabili. Quest’uomo del tutto simile all'Imperatore per valore e
carattere, era inferiore a lui solo per fortuna, eloquenza e per qualche altro
dono di natura”.
Resta da accertare se “un’aria di terribilità” non sia “un olezzo
terribile”, il greco di Anna Comnena si può tradurre in entrambi i modi.
leuzzi@antiit.eu
La storia sovietica della Repubblica
Kissinger compare nella “Storia
dell’Italia repubblicana”, tre volumi cinque tomi, quasi quattromila pagine, in
nota. Al tomo primo, “Economia e società”, del volume terzo, “L’Italia nella
crisi mondiale. L’ultimo ventennio”. La crisi non è dell’Urss, né del petrolio,
né di politica estera, ma di politica interna, anzi di partito: in questo, come
nei precedenti e nel successivo tomo, è questione di cosa pensavano, dicevano e
facevano i leader del Pci, da Togliatti a Amendola. E i loro interfaccia nel
restante mondo italiano, non c’è altra Repubblica. Kissinger è su questo citato
correttamente: Kissinger Henry Alfred, oppositore dell’eurocomunismo. Non una
parola di più, mezza riga.
L’opera è stata pubblicata nel
1995-1996, quando Berlusconi era proprietario di Mondadori-Einaudi da un
cinque-sei anni. Ma non è una di quelle che hanno fato fallire Einaudi: è
un’opera progettata e realizzata dall’Istituto Gramsci, allora costola del Pci-Pds,
con i fondi dell’Enichem.
Non è neanche del tutto inutile:
andrebbe bene per un museo del sovietismo. O per un monito: il sovietismo non è
morto col Muro, poiché ancora si vende.
Storia
dell’Italia repubblicana, Einaudi