Casta – Si discute se è ancora valida
la doc D’Alema, che tre anni fa ne assegnò il conio alle Br: “«Casta dei
politici» appare nel dibattito pubblico italiano per la prima volta in un
documento delle Brigate Rosse e ha mantenuto quella impronta”. Filippo Maria Battaglia,
che ci ha scritto sopra un libro, “Lei non sa chi ero io. La nascita della
Casta in Italia”, sposta l’origine a don Sturzo, a un articolo che scrisse nel 1950.
È di moda sostituire De Gasperi a Togliatti, e quindi don Sturzo a D’Alema. Ma la
casta c’è nel “Comunista” di Morselli, successivo a don Sturzo ma con più
proprietà. Nel romanzo la ”casta” è avocata da un parlamentare del Pci – il protagonista
– deluso dal Parlamento, da Roma: la Camera dei Deputati è “verbosa, borghese e
superflua”.
Catalogna – Sarà sì al
referendum per l’indipendenza della Catalogna il 9 novembre, sondaggi e
opinionisti non lasciano dubbi. Il referendum non avrà effetti poiché non ha
valore legale. E anche perché la Catalogna vuole saggiare fino a dove può
spingersi, fino a qual punto l’autonomia ne incrementi e non riduca la ricchezza.
E anche perché la Germania, cui la Catalogna è legata per l’immobiliare e la
finanza, anch’essa ci vuole vedere chiaro – se ci guadagna o ci perde. Terzo:
sarebbe il primo Stato storico che si divide in Europa, e anche questo è motivo
di perplessità. Ma il sì di Barcellona inevitabilmente indirizzerà la Spagna
verso un ordinamento federale. Con bandiera, campionato di calcio, nazionale di
calcio, etc. Alla Catalogna seguiranno i paesi baschi e la Galizia.
Plebiscitarismo – Grillo dopo
Berlusconi, e ora Renzi: si può dire l’Italia il laboratorio della nuova
politica, la politica del millennio. Dopo il parlamentarismo del Novecento, e la
politica borghese, delle borghesie nazionali, con gli irredentismi e i
risorgimenti, nell’Ottocento. O anche no, l’Italia è il battistrada europeo di
una forma politica già avviata negli Usa. Obama è egli stesso un antipartito.
Come già, a suo modo, Clinton. E prima di lui Reagan. Personalità neppure
eccelse che tuttavia si sono imposte al partito. L’elettore vuole un volto, un
nome, e un linguaggio cui dare fiducia, non un’assemblea. La riforma elettorale
in Italia in senso plebiscitario, per tutti gli organi elettivi (sindaco,
presidente della provincia, presidente della regione) eccetto che per il capo
del governo, è stata fatta volutamente sulla traccia americana. A lungo
predicata e predisposta dalla scienza giuridica e politica sull’orma del
decisionismo di Mosca, o di Carl Schmitt mediato da Gianfranco Miglio, che
avevano trovato un varco politico in Craxi.
Si
può considerare il plebiscitarismo la risposta anche all’antipolitica, degli
interessi costituiti attraverso i media, della cosiddetta opinione pubblica.
Una reazione a un’opinione pubblica sempre più privata, anche oltraggiosamente.
Ma è una forma politica debole, limitata al voto. La politica stessa peraltro
si riorganizza in forme allentate e deboli, attraverso i partiti del capo. Si veda
il flop del tesseramento del partito più tradizionale, il Pd, e l’adesione
fluttuante alle sue primarie, che al contrario del voto sono rituali e poco decisive
– i ripensamenti sono ormai numerosi sui vincitori delle primarie, Marino, De
Magistris, Crocetta, lo stesso Vendola.
In
un certo senso si ripete a un secolo di distanza, con le ambiguità della
questione morale, l’insorgenza della classe politica che Gaetano Mosca aveva
studiato e classificato. Della politica delle élites,
in un quadro di riferimento frammentato e fragile, se non confuso. Per la crisi
economica e per l’invadenza dell’apparato repressivo, sotto la maschera della
giustizia.
La funzione di governo è il problema centrale dalla
Grande Riforma - il progetto di Craxi - in poi, quindi da venticinque anni.
Avversata dai partiti minori, perché ne riduce il
peso. E a suo tempo dal Pci, che pure ne condivideva l’impianto (chi vince le elezioni governa) e
il principio democratico ispiratore (l’alternanza delle maggioranze, la
sostituibilità). Il Pci l’ha avversata perché la patrocinava Craxi, suo primario
avversario politico, anche post-mortem,
e l’ha demonizzata coi suoi potenti mezzi di comunicazione, come progetto Gelli
o della Rinascita nazionale, un progetto eversivo. Quando non l’ha acculata al
fascismo, benché vecchio ormai di settant’anni e sconfitto dalla guerra e dalla
Resistenza.
Analogamente hanno agito gli interessi costituiti,
dei potentati economici, industriali e finanziari, che non vogliono un governo
che governi. Che potrebbe disboscare il sottogoverno, il mercato degli appalti
e degli interessi finanziari legati alle opere pubbliche, alla rendita urbana e
ai servizi pubblici (telefoni, energia, assicurazioni) , cioè ai profitti
facili e ai superprofitti.
L’esigenza tuttavia sempre riemerge, perché è ormai
la prassi consolidata in tutti i
regimi democratici, vecchi e nuovi, anglosassoni e iberici, della Francia e
dell’ex Unione Sovietica. Nella stessa Italia, tirando le somme, l’opposizione
reale alla funzione di governo forte è solo degli ex Dc, per la non
disprezzabile avversione al centralismo, ma anche per l’inveterato vizio della
Dc post-fanfaniana di governare non governando – Pannella direbbe sgovernando
(fascismo sfascismo…) : creare potere contrattuale attraverso il rinvio, la parcellizzazione,
l’emasculazione.
Polonia – Chiude infine col Novecento,
con la sindrome (e la realtà) dell’accerchiamento, da destra e da sinistra,
dalla Russia e dalla Germania? Le premesse ci sono, con la nomina di Donald
Tusk alla presidenza del Consiglio Europeo. Il primo polacco che non parla francese,
parla male l’inglese, e invece parla perfettamente il tedesco. Con lui a Bruxelles
scade il tradizionale asse di Varsavia con le potenze alle spalle della Germania,
la Francia e la Gran Bretagna, e s’instaura un ponte diretto con Berlino. Mentre
non ci sono contenziosi in vista con Mosca, neppure per la questione
dell’Ucraina.
Questo
riequilibrio può essere rimesso in questione da Diritto e Giustizia, il partito
d’opposizione creato e diretto a Varsavia da Jaroslav Kazińsky, che è in crescita
nei sondaggi. Kazińsky capitalizza
politicamente sul vecchio nazionalismo, antitedesco e antirusso. Ma l’opinione
e i sondaggi concordano che su queste posizioni rimarrà minoritario.
Il germanesimo di Tusk deriva da
Danzica, la città a lungo tedesca e ora polacca, dove è nato, ha studiato e ha
fatto politica ai tempi del regime comunista. Ma per lo steso motivo è
apprezzato da Mosca. Essendo della minoranza etnica casciuba, di pochi ma
eletti membri (il più famoso è Gunther Grass), è reputato un nazionalista
moderato. Particolarmente apprezzata fu a Mosca la cerimonia congiunta che da
primo ministro volle nel 2010 con l’allora suo omologo Putin per commemorare la
strage di Katyn, dove i servizi segreti di Stalin hanno massacrato 22 mila
ufficiali e militari polacchi prigionieri di guerra tra aprile e maggio del 1940.
Da parte tedesca si mettono in rilievo da qualche tempo i legami familiari con
la Polonia di Angela Merkel, la cui madre è nata a Danzica, come Tusk, e il
nonno paterno proveniva da Poznan, dove era nato Kazmierczak, poi mutato in
Kaser.
Secessione – Il no scozzese alla secessione dalla Gran Bretagna è un’eccezione. Il trend storico è in Europa alla secessione: in poco più di vent’anni, proprio quando il pluridecennale tentativo dell’Irlanda del Nord di staccarsi dal Regno Unito veniva definitivamente represso, ne sono state registrate una dozzina. Tutte quelle della Federazione sovietica (paesi baltici, Ucraina, Bielorussia, Moldavia) più quelle della Federazione jugoslava. Con la divisione consensuale della Repubblica Ceca e la secessione del Kossovo, con la guerra alla Serbia. Il Belgio è anch’esso di fatto diviso, manca solo il sì delle parti, e un ricalcolo delle convenienze. E ora la Spagna, dove la secessione è anch’essa certa, solo soggetta al ricalcolo. Come già per il Québec, una secessione per questo da tempo sospesa.
Il diritto internazionale è arrivato infine a considerare anche il caso di una secessione senza motivi. Senza cioè la giusta causa: una infrazione grave ai diritti civili nei confronti di una comunità o una minoranza, tale da configurare un diritto analogo a quello rivoluzionario. La secessione è ammissibile giuridicamente anche solo per una rivendicazione nazionale (nazionalista) o plebiscitaria. Nel caso della Catalogna si avrebbe l’uno e l’altro, l’“ascrizionismo” e il “plebiscitarismo”, la compattezza nazionale (storia, lingua, cultura) e quella referendaria. Sono i due casi che il diritto internazionale contempla come teoria dei Diritti Primari.
Secessione – Il no scozzese alla secessione dalla Gran Bretagna è un’eccezione. Il trend storico è in Europa alla secessione: in poco più di vent’anni, proprio quando il pluridecennale tentativo dell’Irlanda del Nord di staccarsi dal Regno Unito veniva definitivamente represso, ne sono state registrate una dozzina. Tutte quelle della Federazione sovietica (paesi baltici, Ucraina, Bielorussia, Moldavia) più quelle della Federazione jugoslava. Con la divisione consensuale della Repubblica Ceca e la secessione del Kossovo, con la guerra alla Serbia. Il Belgio è anch’esso di fatto diviso, manca solo il sì delle parti, e un ricalcolo delle convenienze. E ora la Spagna, dove la secessione è anch’essa certa, solo soggetta al ricalcolo. Come già per il Québec, una secessione per questo da tempo sospesa.
Il diritto internazionale è arrivato infine a considerare anche il caso di una secessione senza motivi. Senza cioè la giusta causa: una infrazione grave ai diritti civili nei confronti di una comunità o una minoranza, tale da configurare un diritto analogo a quello rivoluzionario. La secessione è ammissibile giuridicamente anche solo per una rivendicazione nazionale (nazionalista) o plebiscitaria. Nel caso della Catalogna si avrebbe l’uno e l’altro, l’“ascrizionismo” e il “plebiscitarismo”, la compattezza nazionale (storia, lingua, cultura) e quella referendaria. Sono i due casi che il diritto internazionale contempla come teoria dei Diritti Primari.
astolfo@antiit.eu